Dietro e sotto gli attacchi sessisti lamentati dalla Meloni

         Mentre le agenzie diffondevano il lungo testo di una intervista nella quale la premier Giorgia Meloni ha, fra l’altro, lamentato la “vergognosa indifferenza” riservata agli “attacchi sessisti” che riceve da tempo, non bastando quelli politici, circolavano già nelle redazioni dei giornali notizie strappate alla Presidenza del Consiglio da una interrogazione parlamentare del renziano Francesco Bonifaci sui regali ricevuti dalla stessa Meloni. Accatastati ormai così numerosi in una stanza al terzo piano di Palazzo Chigi, diventata naturalmente “un forziere” nella immaginazione del Fatto Quotidiano, che si sta cercando un altro deposito, non essendo prevedibile, neppure ai più ottimisti degli oppositori muniti però ancora di un barlume di ragione, una interruzione del governo in carica prima della scadenza ordinaria della legislatura, fra due anni.

         I regali a una donna, peraltro né vecchia né brutta come la premier italiana, sono naturalmente, direi, più intriganti di quelli a un uomo. E la fantasia nel nostro caso si è ben scatenata fra monili, spille, anelli e persino scarpe di pitone blu, con stiletto e tacco di una nota stilista, sfuggite ai sogni e ai mercati della pitonessa più famosa della politica italiana che resta la ministra (ancora) del Turismo ed altro Daniela Santanchè. Alla quale si deve, in questa storia delle scarpe pitonate alla Meloni, la convergenza fantasiosa e sfottente di due giornali diversi, anzi opposti come il già citato Fatto Quotidiano e Il Foglio.

         E’ sessismo, in fondo, anche questa voglia di frugare fra i 273 regali ricevuti dalla Meloni e depositati per ora a Palazzo Chigi: frugare nella speranza di trovare o solo fare intravedere aspetti pruriginosi della vita, delle abitudini, delle preferenze, dei rapporti e persino delle tentazioni di una giovane donna, ora anche single, alla guida del governo. Tentazioni anche velenose, e magari penalmente rilevabili in qualche  esposto come quelle sottintese nelle richieste alla presidente del Consiglio di “chiarire” se e su quanti dei regali ricevuti abbia già scelto di rispettare il dovere di rinunciarvi personalmente oltre i trecentomila euro di valore ciascuno per destinarli alla collettività.  Magari organizzando una bella asta per rimpinguare il fondo destinato ad aiutare gli italiani in bolletta elettrica o, più generalmente, energetica.

         Scommetto che prima o poi finirà per intingere i suoi biscotti in questa miscela anche la segretaria del Pd Elly Schlein fra un attacco e l’altro dei giorni pari e anche dispari alla premier della quale vorrebbe prendere il posto, sorpassando all’ultima curva Giuseppe Conte.

Anche gli avvocati, come il governo, nel mirino dei magistrati

Il presidente pur moderato dell’associazione nazionale dei magistrati Cesare Parodi -moderato almeno all’anagrafe, diciamo così, delle correnti e delle loro denominazioni ufficialio di fatto- ha allertato colleghi e attigui sui pericoli che corrono questa volta non per la riforma in cantiere parlamentare che porta il nome dell’attuale guardasigilli Carlo Nordio. Ed  è temuta dalle toghe contrarie alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Ma per l’attuazione della riforma Cartabia di tre anni fa sul concorso degli avvocati e  loro ordini regionali alla valutazione dei magistrati e relativi uffici con i quali hanno a che fare.

         Gli avvocati ambrosiani hanno appena attivato una piattaforma elettronica e riservata per raccogliere le segnalazioni e immetterle su un percorso di valutazione di una commissione interna dell’Ordine, Immediato è stato l’allarme di Parodi. Che ha accompagnato “l’interesse”, bontà sua, per la piattaforma con la preoccupazione “per il possibile utilizzo strumentale”.  Le modalità comunicative “in qualche misura -ha spiegato, protestato e quant’altro il presidente del sindacato delle toghe- non consentono una immediata interlocuzione con le controparti, un immediato chiarimento e una precisa e dettagliata conoscenza esatta di quelli che possono essere gli addebiti o le critiche che vengono formulate”.

         “Noi -ha continuato e insisitito Parodi- non temiamo le critiche ma  vogliamo essere nelle condizioni di poter argomentare in termini tempestivi ed efficaci su quello che ci viene addebitato” perché “il clima dei tempi purtroppo non ci consente di escludere che questa iniziativa, volta a garantire una trasparenza democratica di valutazione sul nostro lavoro, possa essere utilizzata, al contrario, per finalità dirette a distorcere ulteriormente quella che è l’immagine della magistratura”. Danneggiata evidentemente dai soliti detrattori che ne scrivono e ne parlano, e legiferano, piuttosto che dagli errori e dalle abitudini prese dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni da quanto riuscirono ,più di trent’anni fa, a cambiare “bruscamente” gli equilibri nei rapporti con la politica. E mi scuso per l’ennesima volta con la buonanima di Giorgio Napolitano per l’insistenza con la quale ricordo la certificazione che lui fece da presidente della Repubblica scrivendone ad Anna Craxi nel decimo anniversario della morte del marito Bettino. Che era stato la maggiore vittima sopravvissuta brevemente e male a quella tragedia. 

         Ma torniamo ai magistrati di oggi e al loro presidente Parodi. Che -ripeto- sente minacciati i suoi colleghi dalle procedure pur “trasparenti” adottate dagli avvocati per la partecipazione alla valutazione delle toghe e dei loro uffici, anche amministrativi, riconosciuta loro dalla ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia nella riforma della giustizia da lei proposta al Parlamento, e approvata, quando le capitò di fare la ministra nel governo di Mario Draghi.

         Pur nel lodevole proposito, per carità, di determinare rapidi chiarimenti e magari anche perdite di tempo -la strada dell’inferno, si sa, è lastricata di buone intenzioni- Parodi teorizza il diritto suo e dei suoi colleghi di interferire nelle valutazioni, che dovrebbero essere autonome, degli ordini degli avvocati.

         Non per essere malizioso -anche se a pensare male si fa peccato ma s’indovina, come diceva la  buonanima, pure lui,  di Giulio Andreotti- ma per mettere le mie osservazioni sul piano delle “possibilità” evocate o temute da Parodi, la conoscenza dei soli nomi degli avvocati avventuratisi, diciamo così, sul percorso delle segnalazioni li esporrebbe al rischio di ritorsioni  nelle cause alle quali sono interessati professionalmente. E’ una “possibilità”, ripeto, forse più reale e concreta di quella prospettata o temuta dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati ai danni della reputazione e altro dei suoi colleghi.

Pubblicato su Libero

La rivincita dei garantisti nell’affare giudiziario di Prestipino e De Gennaro

Da garantista dovrei compiacermi delle difficoltà, dello sconcerto, dello spiazzamento in cui si sono trovati in questi giorni fior di giustizialisti occupandosi della vicenda giudiziaria del procuratore ancora aggiunto dell’Antimafia Michele Prestipino e dell’ex capo della Polizia e altro Gianni De Gennaro.

         Quest’ultimo, intercettato per fatti risalenti al 1992, e al depistaggio subìto dalle indagini sulla strage che era costata la vita a Paolo Borsellino e alla scorta, ha funzionato da microspia in una conversazione avuta il primo aprile scorso in un ristorante di Roma, accompagnato da un consulente, con Prestipino, appunto. Che conduceva e coordinava indagini, sottrattegli ora dal  superiore Giovanni Melillo, sui possibili intrecci fra la malavita organizzata e la realizzazione del progetto del ponte sullo stretto di Messina. Di cui De Gennaro si occupa come presidente del consorzio istituito per la realizzazione dell’opera.

         La storia di entrambi, che hanno a lungo combattuto in ruoli diversi la mafia, non ha loro risparmiato l’amarezza, chiamiamola così, di incorrere nel sospetto -esplicito per Prestipino, raggiunto da un avviso di garanzia, e implicito per De Gennaro- di comportamenti penalmente rilevanti. De Gennaro, si presume, avendo interesse ad avere notizie utili a cautelare la realizzazione del ponte dalle intromissioni affaristiche della malavita organizzata. Prestipino condividendo forse le preoccupazioni dell’amico e cercando di aiutarlo anche in questo suo nuovo compito. E sottovalutando il rischio della rivelazione di segreto d’ufficio con aggravante mafiosa contestatagli dalla Procura di Caltanisetta perché titolare dell’indagine per la quale è ancora intercettato De Gennaro.

La competenza dell’affare giudiziario, subito avvertito come malaffare, che sarebbe stato quel pranzo di lavoro, di amicizia e quant’altro è già stata riconosciuta a Roma, ma l’errore del primo passo falso resta, a mio avviso, indicativo di come in Italia si gestisca e amministri la giustizia, per quanto in un sistema, per carità e per fortuna, di garanzie.

Da garantista, dicevo a proposito delle garanzie, dovrei sorridere divertito dello choc avvertito da giornali abituati a privilegiare il sospetto agli argomenti della difesa. E persino a criticare, come ho letto, la decisione di Prestipino di farsi assistere adesso dall’avvocato del maggiore, o fra i maggiori imputati di quel processo chiamato “Mafia capitale” in cui egli aveva sostenuto il ruolo di accusatore. Non vi è cosa, personalmente, più rivoltante di vedere identificato l’avvocato col suo imputato di turno.

Per quanto tuttavia tentato da un compiacimento ritorsivo, spero nella mia ingenuità ormai senile che i giustizialisti sappiano finalmente cogliere l’occasione per un esame di coscienza. E per un contributo, pur tardivo, alla restituzione della cronaca giudiziaria a quella che per altri versi  è stata definita in questi giorni “la sobrietà”.

Pubblicato sul Dubbio

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