La verità di Vincenzo De Luca sulla tragedia di Afragola….

         Se avessi Vincenzo De Luca a portata di fazzoletto, fresco di bucato, glielo passerei personalmente sulla faccia per pulirlo degli spruzzi di caffè sputatigli addosso questa mattina da Massimo Gramellini, nella sua rubrica quotidiana della prima pagina del Corriere della Sera.  

         Già mostrificato, all’interno e all’esterno del suo partito, per efficienza amministrativa e franchezza politica e umana, imitato da un Crozza sotto sotto sempre meno sfottente e più ammirato della sua vittima, sino a riderne per primo, il presidente uscente della regione Campania, contro una cui ricandidatura, anzi rielezione, si è addirittura mobilitata, su ricorso del governo, la Corte Costituzionale dirimpettaia del Quirinale; già mostrificato,  dicevo, il povero De Luca ha osato chiedersi quello che -ci scommetto- ci siano chiesti tutti seguendo in televisione o sui giornali il delitto di Afragola. O il femminicidio, avendo riguardato una donna, anzi un’adolescente, se non una bambina di 14 anni, fidanzata da due con un diciassettene che l’ha uccisa a colpi di pietra, non volendo essere lasciato per la sua violenza, l’ha nascosta in una scatola e ha partecipato sfrontatamente alle ricerche.

         Incredulo di un fidanzamento fra una dodicenne avvenente, abbigliata e truccata come una diciottenne, e un quindicenne nella cognizione sostanzialmente collaborativa delle famiglie, il povero De Luca si è procurato da Granellini non solo una sputata di caffè, ma anche una sarcastica lezione civica, morale eccetera eccetera.

         In questo sempre più curioso paese che è l’Italia di fronte ad un fatto orribile come quello di Afragola è più facile, mediaticamente e politicamente più utile processare non la famiglia, in senso stretto e  lato, ma la scuola, che non avrebbe saputo o persino voluto, impedita anche dal governo indigesto in carica, sostituirsi ai genitori e ai nonni in quella che viene chiamata “educazione affettiva”. Non ho parole, letteralmente. E neppure più il fazzoletto pulito per averlo buttato nel frattempo  per rabbia nella pattumiera.

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Due piazze, a Milano e Roma, per Gaza, nessuna per l’Ucraina

         Le due piazze di Milano e di Roma  del 6 e 7 giugno, chiamiamole così anche se a Milano si tratta di un teatro e a Roma di una piazza vera e propria, sono originariamente apparse, a torto o a ragione, in competizione sulle finalità. La seconda intestatasi dal Pd, dalle 5 Stelle e dalla sinistra rossoverde per solidarizzare con i palestinesi sterminati dagli israeliani a Gaza, piuttosto che dai terroristi di Hamas nascosti con le postazioni missilistiche ed altre armi, e con gli ostaggi ebrei catturati nel pogrom del 7 ottobre 2023, sotto le case, le scuole, gli ospedali, le chiese, i mercati, le strade di una incolpevole popolazione civile trasformata in scudo umano. L’altra intestatasi da un riesumato terzo polo per solidarizzare -si era capito- con gli ucraini da più di tre anni sotto le bombe dei russi, in  una guerra cominciata o annunciata come operazione speciale per “denazificare”, testualmente, un paese governato da un ebreo presuntivamente rinnegato come Zelensky.

         Ebbene, chi aveva avuto questa impressione ha scoperto di essersi sbagliato perché i promotori della piazza di Milano hanno finito, volenti o nolenti, per trovarsi competitivi con la manifestazione di Roma, per quanto successiva, sullo stesso terreno. Quello di Gaza. I milanesi per accentuare la responsabilità dei terroristi palestinesi nella tragedia e deplorare l’antisemitismo, i romani per accentuare o scaricare tutta la responsabilità della tragedia sugli israeliani, più in particolare sul capo del governo Nethanyau e su chi glielo permetterebbe pur criticandolo, come anche la premier italiana Giorgia Meloni, il suo vice presidente del Consiglio forzista Antonio Tajani e in fondo pure l’altro vice presidente, leghista, Matteo Salvini.  Per non parlare naturalmente degli americani di Trump, non diversi in questo da quelli di Biden.

         Le due piazze ritrattesi come un elastico in una stessa guerra, quella – ripeto- di Gaza, l’una dichiaratamente contraria all’antisemitismo e l’altra silente o ambigua, potranno più facilmente contendersi lo stesso pubblico. Il Pd, per esempio, potrebbe dividersi fra Milano e Roma, anche se a Roma ci sarà la segretaria Elly Schlein e a Milano una presenza della minoranza cosiddetta riformista, battuta congressualmente a suo tempo nelle primarie aperte agli esterni, come i grillini accorsi nei gazebo per risparmiare a Giuseppe Conte la scomodità di interloquire con Stefano Bonaccini, preferito dagli iscritti al partito.

         E’ proprio la promiscuità delle due piazze, ormai più gemelle che antagoniste. che tuttavia le indebolisce entrambe. Ne aumenta la confusione e le riduce all’ennesimo passaggio del congresso occulto che si sta svolgendo nel Pd, in mancanza o nella impossibilità di un congresso vero, trasparente, vincolante. E fanno entrambe un torto immeritato, direi anche orribile, agli ignorati ucraini. O un favore a Putin, che francamente non lo meriterebbe dopo quelli ricevuti da un Trump pur altelenante nei suoi umori per una pace in Europa che gli sfugge continuamente di mano, come un’anguilla.   

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La coppia…scoppiatissima di Donald Trump ed Elon Mask

Mi permetto una lettura un po’ andreottiana della rottura, celebrata sui giornali di tutto il mondo, del rapporto una volta simbiotico fra Donald Trump ed Elon Musk. Una rottura che qualcuno, in verità, al di là e al di qua dell’Atlantico aveva messo nel conto anche dopo il sostanziale incarico di governo conferito dal presidente americano al maggiore, o fra i maggiori finanziatori della sua campagna elettorale per il ritorno alla Casa Bianca. Un uomo dotato di forbici più concrete di quelle ostentate in cartone dai grillini in Italia al loro arrivo in Parlamento, che intendevano aprire come una scatola di tonno. In cui alla fine sono affogati anche loro rinunciando di fatto al limite dei due mandati. La carne, si sa, è debole.

         La buonanima di Giulio Andreotti diceva notoriamente che a pensare male si fa peccato ma s’indovina. Non sempre, magari, ma spesso. Il mio cattivo pensiero, la mia malizia su Musk consiste nel forte, fortissimo sospetto ch’egli abbia rinunciato almeno alla dimensione dei suoi rapporti con Trump non tanto per gli interessi compromessi dalle scelte dirompenti del presidente americano, che procura alle Borse, con la maiuscola, avventure da ottovolante, quanto per la sensazione avvertita di perdere non dico l’esclusiva ma almeno l’intensità della sua influenza alla Casa Bianca,intesa in senso molto largo.

         Musk, il ricchissimo e persino sfrontato amico e finanziatore di Trump ha forse sentito spirare da Roma correnti e quant’altro sfavorevoli al suo peso. Ma una Roma intesa non certo come Palazzo Chigi, dove lavora e opera una estimatrice e amica di Musk come la premier Giorgia Meloni. Che anche in quelle occasioni in cui le è capitato di dissentire da lui lo ha fatto con la comprensione, la bonarietà e simili di un’amica appunto. Parlo della Roma dell’altra riva del Tevere, la Roma del Vaticano, del Palazzo Apostolico tornato alle sue complete tradizioni dopo i dodici anni alberghieri, diciamo così, di Papa Francesco. Che, magari finendo anche per costare di più al Vaticano con la sua residenza nella Casa Santa Marta, aveva ritenuto di vivere in modo davvero francescano, non solo di nome, la sua esperienza pontificia.  

         L’elezione dello statunitense Robert Francis Prevost a Papa con quel nome di Leone XIV che evoca sì il tredicesimo della Rerum Novarum, ma anche il primo, santo e Magno che volle e seppe fermare Attila, deve aver fatto riflettere Musk, anche senza l’aiuto dell’intelligenza artificiale sulla influenza che potrebbe avere il nuovo Papa su Trump.

Riuscito a incuriosire Papa Francesco, sino ad essere ricevuto da lui con alcuni dei figli, Musk deve aver capito che col successore la musica è cambiata o può cambiare anche per lui. Che per non ascoltarla, o non subirne gli effetti, potrebbe solo tentare, con tutti i mezzi che ha a disposizione, di trasferirsi su Marte.

Pubblicato sul Dubbio

L’intervento a gamba tesa di Sergio Mattarella sul Consiglio d’Europa

         Più ancora del richiamo ai magistrati, ricevendo circa 600 esordienti, al loro dovere di “essere e apparire, apparire ed essere irreprensibili e imparziali”, e non esenti da critiche e controlli, mi ha personalmente colpito, delle ultime sortite o iniziative del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’incontro voluto al Quirinale col Capo della Polizia Vittorio Pisani. Al quale ha voluto ribadire la fiducia personale e istituzionale alle forze dell’ordine sospettate invece da una commissione del Consiglio d’Europa di comportamenti razzisti.

         Il richiamo ai magistrati è in fondo routine per la consuetudine con la quale Mattarella li riceve anche lui, come i predecessori,  all’inizio della loro carriera e li incoraggia ad essere quelli che non sempre purtroppo riescono ad essere e apparire, ripeto, una volta usciti dal tirocinio. Sino a scambiarsi per esempio, per un  “potere” che non sono, inquadrandoli la Costituzione in un “ordine” con carriere ancora uniche fra giudici e inquirenti ma ormai destinate alla separazione prevista da una riforma all’esame del Parlamento.

         L’udienza a Parisi e la solidarietà ribadita alla Polizia superano la routine per diventare un sostanziale intervento a gamba tesa del Capo dello Stato contro un Consiglio d’Europa che ogni tanto, se non sempre, abusa della quasi omonimia con l’Unione Europea e i suoi organismi. E, più che promuovere la democrazia, i diritti e l’eredità culturale europea e la ricerca di soluzione ai problemi sociali dei paesi che lo costituirono nel 1949, scambia lucciole per lanterne ed emette giudizi a dir poco temerari. Come è appena accaduto, anzi si è ripetuto sulla Polizia italiana alle prese con la difesa e la garanzia dell’ordine pubblico.

         So bene che a Strasburgo, dove ha sede il Consiglio d’Europa tra sventolii di bandiere, prati, uffici e quant’altro finanziati dall’Italia come dagli altri undici paesi che ne fanno parte, quanto le stelle che ne incorniciano il simbolo grafico, hanno giù fatto o faranno spallucce, diciamo così, all’iniziativa del presidente della Repubblica Mattarella. E Mattarella, dal canto suo, farà finta di non accorgersene, pago di avere lanciato il suo segnale o richiamo. Ma resta il problema pur sollevato o riproposto dalla Lega con la solita urticante franchezza -partecipe comunque della maggioranza e del governo-  della utilità di un “ente” superato dall’Unione Europea sopraggiunta con compiti e finalità più concrete e operative. Un ente, ormai, più dannoso che altro per gli equivoci che provoca. O di cui continua a vivere.

Un po’ come -mi scusi l’amico Renato Brunetta che lo presiede- il Consiglio dell’Economia e del Lavoro in Italia, sopravvissuto ad una organica e ragionevole riforma costituzionale che l’aveva soppresso. Ma poi fu bocciata dagli elettori per l’antipatia e la paura che si era procurati l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi gestendone con troppa, solita baldanza il  passaggio referendario.

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Il silenzioso contrappasso di Beppe Grillo a Genova e dintorni

Beppe Grillo non ha speso una parola, nel blog personale o altrove, sul 5,1 per cento su cui si è ridotto il MoVimento 5 Stelle nella sua Genova. Dove non so neppure se abbia votato domenica scorsa, o non sia rimasto a casa come nelle regionali di ottobre.

Dio solo sa, come si dice abusandone con tutti i grattacapi che Gli procura questo mondo di matti, quanto poco mi sia piaciuto in passato il comico tonitruante.

         Tutto cominciò una quarantina d’anni fa, quando mi capitò, forse per il troppo sole preso al mare in giornata, di appisolarmi una sera nelle prime file di un teatro all’Argentario dov’ero andato a vederlo, con tanto di biglietto pagato.  Diavolo di un uomo, se ne accorse e mi svegliò indicandomi dal palco all’ilarità del pubblico.

         Poi vennero i tempi, ancor prima dell’esplosione o implosione di Tangentopoli, delle denunce teatrali e simili contro Bettino Craxi e i socialisti da parte di un Grillo convinto che fossero solo o soprattutto ladri, avventuratisi sino in Cina per rubare.

         Poi ancora vennero i tempi del Grillo ormai più politico che comico, deciso a scalare il Pd tentando di iscrivervisi in una sezione in Sardegna. E avventuratosi nella fondazione di un suo partito riesumando il qualunquismo morto e sepolto di Guglielmo Giannini. Che col suo Uomo qualunque, appunto, era riuscito a incuriosire persino Palmiro Togliatti. E a compiacersene a tal punto da essere rifiutato dagli elettori di Napoli quando la Dc tentò, con la solita generosità, di recuperarlo ospitandolo come indipendente nelle sue liste, una volta esaurita la moda politica del commediografo.

         Grillo, ancora a capo del movimento fondato col compianto Gianroberto Casaleggio, è riuscito a guadagnarsi invece nella seconda Repubblica l’interesse di Mario Draghi, imprudentemente spintosi nella sua esperienza a Palazzo Chigi a pensare di poterlo usare per frenare il suo predecessore Giuseppe Conte. Che non si accontentava più di essere rappresentato nel governo dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio: Luigi of Maio, per gli inglesi.  Insoddisfatto del giovanotto, l’ex presidente del Consiglio cominciò a non gradire neppure Grillo, praticamente deposto infine da garante del movimentocon procedure che potrebbero ancora prestarsi a ricorsi giudiziari. Ai quali tuttavia i bene informati hanno riferito che il comico voglia rinunciare, preferendo tornare più al teatro, alla televisione e dintorni che alla politica.

         In questa nuova fase della sua vita debbo confessarvi che sono addirittura tentato dalla solidarietà verso di lui. Mi preoccupa di più il Conte della scalata a Palazzo Chigi in combinazione e insieme competizione con la segretaria ancora del Pd Elly Schlein. Che non si è accorta, per quanto avvertita in una intervista alla Stampa dell’ex senatore e fondatore del partito Luigi Zanda, di avere Giorgia Meloni come “avversaria” ma Conte come “nemico”.

         Merita qualche comprensione il Grillo ostaggio -quasi per contrappasso dopo tanti ammiccamenti sarcastici e spietati alle manette- della giustizia, rigorosamente al minuscolo. Che, pur nella ordinarietà ormai delle sue abitudini, tiene ancora sotto processo di primo grado, a Tempio Pausania, il figlio Ciro, difeso dal padre con la solita energia che qualche effetto politico gli ha procurato, per una vicenda cumulativa di sesso risalente a ben sei anni fa.

Ma in qualche modo Beppe Grillo è anche ostaggio del ricordo del movimentoche lui prima ha creato, pur nel giorno di San Francesco emblematico della povertà, e poi ha perduto senza neppure una liquidazione.  Il colmo per un genovese, d’anagrafe e di vita.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 2 giugno

Il “campo largo” di Genova già non regge più nelle piazze

         E’ dunque confermato. Il “campo largo” festeggiato a Genova lunedì, che d’altronde Giuseppe Conte ha sempre considerato una formula giornalistica, preferendo chiamarlo “giusto” perché più consono alla dimensione variabile da lui preferita per tenersi mani libere con gli altri, è già svanito nel ricorso alle piazze.

         Sabato 7 giugno, per quanto sia anche il giorno del silenzio elettorale per i cinque referendum su lavoro e cittadinanza, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli si sono dati appuntamento a Roma come “ingazati”, nella definizione del Foglio. Insoddisfatti cioè dell’azione e posizione assunte dal governo in Parlamento con un dettagliato discorso del ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani. E decisi a riproporre le loro richieste di una rottura dei rapporti diplomatici con Israele e del riconoscimento del virtuale Stato palestinese, dal Giordano al mare. E tutto ciò che questa dimensione comporterebbe per gli ebrei, già trattati come meriterebbero, evidentemente, dai terroristi palestinesi di Hamas il 7 ottobre 2023. Un giorno, il 7, sinistramente scelto dalla sinistra per la manifestazione di giugno, utile anche all’esposizione mediatica di quello schieramento alla vigilia, ripeto, di referendum su altri temi ma complementari all’opposizione al governo.

         Il cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, in ordine alfabetico, improvvisamente ritrovatosi  rinunciato momentaneamente all’ex, si è dato appuntamento in piazza a Milano il giorno prima per solidarizzare anche con l’Ucraina da più di tre anni invasa, bombardata, eccidiata.- si potesse dire- dai russi e alleati nord-coreani e simili mandati sul campo.

         “Ingazati e utopisti”, li ha definiti e contrapposti Il Foglio considerando evidentemente un’utopia il ritorno della pace e della sicurezza nell’Ucraina che Putin non tollera né libera né autonoma perché composta e persino guidata da nazisti e figli di puttana, pronti ad “abbaiare” alla Russia, come si lasciò scappare persino il compianto Papa Francesco, anche senza diventare mai soci della Nato, come ha promesso e garantito dalla Casa Bianca il presidente americano Donald Trump. Che non sta ancora all’Alleanza Atlantica come il diavolo all’acqua santa.

         Dal campo largo, quindi, al campo diviso. Su temi dirimenti come quelli di Gaza e dell’Ucraina, pur in un mondo fatto di una “guerra mondiale a pezzi” avvertita dal compianto Papa Francesco, pur se da lui non sempre ben valutata nelle responsabilità, sino a ritrovarsi una volta con Putin pur parlando sempre della “martoriata Ucraina”. Ora difesa con più chiarezza da Leone XIV.

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Giuseppe Conte punge il palloncino della vittoria cantata a Genova

         Qualche parola o rigo di stampa per prendere onestamente atto che Giuseppe Conte ha esplicitato meglio il primo silenzio opposto ai risultati elettorali del turno amministrativo di domenica e lunedì scorsi, particolarmente a Genova con la vittoria netta, senza ballottaggio, della “civica” Silvia Salis a sindaco. Un silenzio che sembrava segno di fastidio o di indifferenza, pur avendo i contiani pentastellati partecipato alla coalizione di cosiddetto centrosinistra, o semplicemente “progressista”, come preferiscono chiamarla la stessa Salis e l’ex premier. Un fastidio opposto all’entusiasmo della segretaria del Pd Elly Schelin, ora ancora più “pronta” di ieri ad elezioni politiche, magari anticipate per cercare di liberarsi prima di Giorgia Meloni. Sotto la quale “non c’è niente”, ha appena scritto sulla Stampa Angelo De Angelis in una forma di sessismo rovesciato, diciamo così. E come se sotto la Schlein ci fosse qualcosa di più, o di meglio, secondo i gusti.

         Giuseppe Conte ha sgonfiato non dico le vesti ma il palloncino della vittoria elettorale cantata dalla Schlein, orgogliosa della sua “ostinazione unitaria” di organizzare e magari anche guidare un’Armata Brancaleone contro la Meloni. Lo ha sgonfiato, Conte,  ammonendo che “la sommatoria numerica non funziona”, evidentemente o specialmente a livello nazionale. “Qui -ha aggiunto l’ex premier nostalgico della sua esperienza a Palazzo Chigi- non si vince con il campo largo, campo stretto, campo alto, campo basso, giusto, morto, campo santo….”. Si è dimenticato di aggiungere, lasciandolo nella ovvietà, che non si vince senza di lui nel ruolo epico attribuitogli da Marco Travaglio del “migliore capo del governo italiano dopo Camillo Benso di Cavour”.

L’ossimoro di cui avrebbe bisogno la Schlein per vincere davvero

Per carità, Elly Schlein, Matteo Renzi e il pur silenzioso -mi pare- Giuseppe Conte hanno le loro ragioni per essere soddisfatti dei risultati del primo turno delle elezioni amministrative di fine maggio. Che porta ormai il nome o la sigla di Genova, la maggiore delle città in cui si è votato. Dove il cosiddetto campo largo dell’alternativa ha vinto senza passare per il ballottaggio, chiudendo la lunga fase degli otto anni di opposizione in un Comune storicamente e politicamente di sinistra.

         La Schlein ha un motivo in più, e di partito, per cantare vittoria, avendo conquistato il  suo Pd , da solo, la testa della classifica facendo recedere al 12 per cento i fratelli d’Italia della Meloni che a livello nazionale contano sul 30 per cento nei sondaggi. Per cui la segreteria del Nazareno ha potuto rivendicare la concretezza delle urne e contrapporla alle consultazioni telefoniche, e simili, vantate dalla maggioranza che governa.

         La parte favorevole, per la Schlein,  dell’analisi e del racconto di questo turno elettorale amministrativo – peraltro incoraggiante per le opposizioni anche per una buona affluenza alle urne, almeno rispetto alle ultime tendenze, che potrebbe riflettersi sulle elezioni referendarie dell’8 e 9 giugno gravate dal cosiddetto quorum- finisce tuttavia qui. Non può andare oltre.

         A livello nazionale, nella prospettiva di elezioni persino anticipate, cui la Schlein ha recentemente annunciato di sentirsi pronta, parlandone anzi al plurale, il modello Genova -se lo vogliano chiamare- così avrebbe bisogno di una circostanza a dir poco paradossale. Un ossimoro, direi. Per sottrarsi alla competizione interna al campo largo – derivante dall’ambizione di Giuseppe Conte di tornare a Palazzo Chigi per riprendere, secondo i suoi estimatori, l’avventura del “migliore presidente del Consiglio d’Italia dopo Camillo Benso di Cavour”- la segreteria del Pd dovrebbe inventarsi, e preparare dietro le quinte, una soluzione o lista civica nazionale simile a quella genovese della campionessa di lancio del martello Silvia Salis. Ma una soluzione civica a livello nazionale è materialmente impossibile. Sarebbe come pretendere la quadratura del cerchio, o viceversa. Le liste civiche sono locali.

         Si torna pertanto al punto di partenza. Che è quello recentemente indicato non da me, modesto cronista, ma da un vecchio frequentatore, attore ed esperto della politica come l’ex capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda, cresciuto anche nella franchezza del padre, già capo della Polizia, e di Francesco Cossiga. Che ha ricordato alla Schlein, quasi una figlia per ragioni età, con  i suoi 82 anni e mezzo rispetto ai 40 della “giovane e donna” segretaria del Pd, che la sua “rivale” è la presidente del Consiglio in carica da ormai più di due anni e mezza ma il suo “nemico” è Conte, pur ridotto a Genova al 5 per cento, uno per ogni stella del suo movimento, e a livello nazionale attorno al 15.

Pubblicato sul Dubbio

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Più che una vittoria, è un cappio quello della Schlein a Genova

         Anche se alle urne sono andati più di un milione di elettori, pari per fortuna al 56 per cento degli aventi diritto al voto, sparsi in 126 Comuni di varie regioni d’Italia, dal Nord al Sud, il turno amministrativo del 25 e 26 maggio porta il nome soprattutto di Genova, la maggiore delle città interessate. E anche quella di cui si attendeva con più interesse nazionale il risultato, dopo che il sindaco di centrodestra Marco Bucci era stato eletto a governatore della regione e il Comune era tornato ad essere contendibile dalla sinistra per otto, lunghi e anomali anni di opposizione, rispetto alle tradizioni storiche e politiche della capitale ligure. E vi è tornata con l’elezione della giovane “dirigente sportiva” Silvia Salis, come la campionessa di lancio del martello ha preferito definirsi, aggiungendo “progressista” a chi le ha chiesto a quale partito si sentisse più vicina. Progressista neppure “indipendente”, come si proclama sotto la guida di Giuseppe Conte quel che resta -il 5 per cento- del Movimento 5 Stelle partecipe alla coalizione, o “campo largo” della sinistra aspirante all’alternativa nazionale al centrodestra guidato dalla premier Giorgia Meloni.

         Per quanto ridotto tuttavia al 5 per cento, il movimento post-grillino, chiamiamolo così, è risultato determinante per la vittoria di una coalizione dove il Pd ha preso il 29 per cento, la lista civica della Salis l’8,3 per cento, i rossoverdi il 6,9 per cento.

         A Genova per rendere fattibile o commestibile il cosiddetto campo largo della sinistra comprensivo di Conte   hanno dovuto ricorrere alla soluzione “civica”, cioè locale, della Salis. Ma a livello nazionale, dove l’espediente civico non esiste in natura, che cosa dovrà e potrà fare la segretaria del pur maggiore partito della coalizione, Elly Schlein?  Che su Genova ha cantato vittoria dicendo che il centrodestra vince nei sondaggi e la sinistra nelle urne. Ecco la domanda che, considerandola prematura, pur dichiarandosi al tempo stesso “pronta alle elezioni”, anche anticipate, la Schlein nella sua euforia di vincitrice non si pone. O non vuole lasciarsi porre, specie dopo l’imbarazzo, a dir poco, in cui l’ha messa qualche giorno fa il compagno di partito Luigi Zanda ricordandole in una intervista, cioè pubblicamente, che la sua “rivale” è Giorgia Meloni ma il suo “nemico” è Giuseppe Conte. Con l’ambizione neppure tanto nascosta che l’ex premier ha di tornare a Palazzo Chigi, essendosi convinto della qualifica attribuitagli dall’amico ed estimatore Marco Travaglio del “ migliore capo del governo italiano” dopo la buonanima di Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour.

         Il guaio, per la Schlein, è che in questo ragionamento di Zanda, con l’esperienza che lui ha maturato tra famiglia e politica, non c’è solo un elemento personale, certo. C’è anche, o ancor di più, un elemento politico, appunto. Che la segretaria del Pd può pure esorcizzare fingendo di ignorarlo, o prendendo tempo, ma resta il suo maggiore problema.

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Storie incresciose di ordinaria follia mediatica e politica

         “Mobilitazione per Gaza”, ha annunciato a caratteri di scatola la Repubblica di carta raccogliendo e rilanciando le iniziative propostesi dalle opposizioni in tutta Italia -fatta eccezione forse per Napoli, distratta dai festeggiamenti dello scudetto- a favore di quella terra martoriata da più di un anno e mezzo di guerra. Che è stata  provocata da chi ha costruito sotto case, ospedali, scuole, chiese, mercati, campi profughi eccetera gli arsenali contro il diritto alla vita di Israele e, più in generale, degli ebrei.  

         Mobilitazione per Gaza, ripeto. E perché non anche per l’Ucraina, da più di tre anni sotto attacco della Russia di Putin. Che ogni tanto, da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, mostra qualche pur lontano interesse a trattative per la pace ma senza rinunciare ai massacri, che infatti continuano. Ed hanno prodotto necessariamente, per estensione del territorio e popolazione, fra militari e civili, compresi i bambini, più morti che a Gaza.  Perché? Forse perché gli ucraini sono davvero quelli che vengono avvertiti al Cremlino, cioè figli di nazisti incalliti e puttane? Scusate la parolaccia.

         Curioso mondo davvero, visto che questa specie di monopartitismo a favore della Gaza, trasformata dai terroristi di Hamas in una terra di ostaggi, è diffusa non solo in Italia, ma un po’ dappertutto. Persino in Israele, con manifestazioni contro il governo e chi lo presiede gestendo il passaggio forse più tragico e pericoloso per una comunità diventata Stato non in una casa da gioco ma nelle Nazioni Unite, come spesso mostra di dimenticare persino il segretario generale portoghese ora in carica.

         Curiosa anche questa Italia che si riconosce forse nella “sorpresa” espressa dal Corriere della Sera, sempre in prima pagina, anche se a caratteri meno vistosi, per un intervento televisivo del ministro della Giustizia Carlo Nordio sulla natura “irragionevole” del caso Garlasco, che contende a Gaza l’interesse mediatico. Irragionevole -ha spiegato Nordio- perché Alberto Stasi fu a suo tempo condannato per il delitto della fidanzata Chiara Poggi dopo essere stato due volte assolto. E perché, se risultasse innocente, non vi sarebbero magistrati perseguibili, potendo e dovendo costoro rispondere solo se in malafede, senza conoscere né leggi né carte dei processi di cui si sono occupati.

         Vedrete se qualcuno, magari al solito Fatto Quotidiano, non smetterà di sfottere Nordio chiamandolo “Mezzo litro” per dargli del “litro”, tutto intero, o del “fiasco”.  

Intanto il presidente del sindacato delle toghe, Cesare Parodi, ha detto al Foglio che i detenuti ingiustamente se la sono cercata, spesso o sempre, per non avere collaborato abbastanza con gli inquirenti. Che dal canto loro sono sempre sovraccarichi di lavoro perchè sotto organico. Questa è la magistratura, almeno quella associata.  

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