L’autorete diagnostica di quel “narcisista patologico”

Quel “narcisista patologico” dato al presidente americano Donald Trump già nel titolo della puntata di ieri di Otto e mezzo su la 7 –a conduzione della solita Lilli Gruber col supporto scientifico della psicanalista Claudia Spadazzi, letterario di un ex magistrato, e scrittore di successo dopo una certa esperienza politica a sinistra, e di un giornalista di casa in quel salotto- è stato un assist, spero involontario,  al paziente. O imputato. Ne ha infatti limitato le responsabilità, volendone giudicare le sue decisioni alla Casa Bianca, per l’incidenza di una sua precaria salute mentale nell’azione alquanto contestata  di presidente, per giunta di seconda elezione, degli Stati Uniti.

E’ sempre un errore, sia di analisi sia di lotta politica, scambiare un fenomeno politico appunto -come ha il diritto di essere considerato un presidente eletto in libere elezioni, con tanto di candidati contrapposti e con un risultato non controverso, riconosciuto per primo dallo sconfitto, nel nostro caso una donna- per un fenomeno patologico, da corsia di ospedale. O quasi, visto che come ospedali i manicomi, nel bene e nel male, in Italia sono stati a suo tempo aboliti.

Anche il segretario della Dc Ciriaco De Mita, negli ormai lontani anni Ottanta del secolo scorso, dopo avere dovuto subire come effetto di uno sfortunato passaggio elettorale personale e del suo partito l’arrivo a Palazzo Chigi del suo più scomodo alleato, che era il leader socialista Bettino Craxi, cercò di liberarsene anzitempo dandogli praticamente del malato, oltre che dell’inaffidabile. O dell’inaffidabile perché malato. E facendo risalire i suoi presunti disturbi di comportamento e quant’altro al diabete. Gli capitò anche di succedergli nel 1988 ma durando solo un annetto, contro i quattro dell’altro.  

A cose fatte, e a tragedie politiche di entrambi consumate, in tutti i sensi per Craxi sepolto ad Hammamet, contestai quella circostanza a De Mita, ormai confinatosi nella sua ridotta quasi romantica di sindaco di Nusco. Fu l’unica volta, nel nostro lungo rapporto insieme amichevole e polemico, in cui egli mi diede onestamente ragione.

Le scuse che Giorgia Meloni si meriterebbe alla Casa Bianca da Trump

Lo stile, chiamiamolo così, impresso da Donald Trump alla sua seconda presidenza americana, ancora più spavaldo e ruvido della prima, fa escludere che egli si sia scusato con quella “formidabile” amica che pure è  la premier italiana Giorgia Meloni per averla infilata di fatto tra quelli che hanno già bussato, bussano e busseranno alla sua porta, alla Casa Bianca e dintorni, per baciargli i glutei. Come Massimo Gramellini sul Corriere della Sera ha tradotto al plurale scultoreo quello che volgarmente e al singolare Trump ha evocato parlando del suo deretano. Che pure Dante nella sua Divina Commedia vagando nell’Inferno e scrivendone in versi chiamò “cul fatto trombetta” del diavolo Barbariccia.

Alla Meloni, si sa, salvo improbabili rinunce o rinvii dell’interessata, Trump ha dato appuntamento per giovedì 17 aprile  per parlare anche dei dazi americani disposti sui paesi europei, Italia compresa, per quanto sospesi per 90 giorni fra il sollievo delle borse, almeno quelle continentali. 

Ormai Trump è diventato incontenibile ai danni dei suoi amici, veri o presunti, e anche di certi avversari, ugualmente veri o presunti. Veri, per esempio, come i cinesi o presunti, per consuetudine, come i russi, col cui presidente Putin egli vorrebbe ridefinire confini ed equilibri in occasione, o col pretesto, di una pace in Ucraina dopo più di tre anni di guerra.   

Della Meloni, per quanto in dissenso dichiarato dalla gestione dei dazi, non si può francamente dubitare che sia amica o persino “familiare” di Trump, data la comune e ostentata appartenenza alla famiglia, appunto, internazionale dei conservatori. O della conservazione di cui, al pari tuttavia della sinistra, del progressismo, compresa la variante “indipendente” di Giuseppe Conte, e simili, si può dire come della Libertà o della Patria, al maiuscolo. Nel cui nome è impossibile contare quanti delitti siano stati commessi.

Può essere un paradosso, come tanti altri che solo la politica riesce a produrre con abbondanza, la difficoltà in cui Trump. o più in generale, il trumpismo procura a chi vi si ispira o vi si riconosce. Ma è un paradosso anche la difficoltà degli avversari di Trump e del trumpismo di trarre profitto da questa situazione. Ne è testimonianza la rappresentazione appena fatta del Pd sulla Stampa da Marco Follini, che pure vi è passato nella sua esperienza post-democristiana.

Diviso anch’esso, come il complesso del cosiddetto “campo largo” del progetto di alternativa al centrodestra, sulle opzioni della politica estera e di difesa, il Pd è stato appena descritto nella “palude dell’imbarazzo” da Follini.  “L’ampiezza della base politico-ideologica del Pd, come si sarebbe detto un tempo, finisce per essere più un problema che una risorsa. Questione -ha osservato Follini- che risale alle origini, quando il partito nacque dall’intento di unificare sotto le sue bandiere le grandi correnti di pensiero del dopoguerra. E che ora però si affaccia su un mondo che non è più quello di allora”.

Pubblicato sul Dubbio

Il treno di Trump superato da quello di Papa Francesco….

Al netto delle guerre che l’uno deplora ogni volta che ne ha l’occasione e l’altro ha inutilmente promesso di fare terminare, conducendone peraltro una sua a livello commerciale, due uomini abbastanza avanti negli anni, di 88 l’uno e 79 l’altro, si contendono l’attenzione del mondo. L’uno è il Papa, che si fa chiamare Francesco, l’altro è il presidente americano Donald Trump, che ostenta la sua firma come un’ostia davanti alle telecamere.

Il primo già era riuscito a superare il secondo nei giorni del lungo ricovero in ospedale, a Roma, mentre l’altro giocava ancora a parole con i dazi annunciandone e infine ordinandone gli aumenti. Tutti pregavano per Francesco, sotto le sue finestre, a San Pietro e ovunque nel mondo dove è ancora permesso di andare in chiesa senza rischiare la morte o il carcere, perché accade anche questo, non dimentichiamolo, in questo terzo millennio, o secondo dopo Cristo.

Ma ancora più clamorosamente ed efficacemente, senza sprecare una sola parola, e lasciare la sua carrozzina, il Papa ha surclassato Trump, ancora intento a vantarsi dei suoi glutei offerti al bacio del mondo, con quei  simpatici, rivoluzionari pantaloni neri e poncho chiaro indossati al posto della tunica bianca di ordinanza.

Sarà pure il “treno” al quale lo ha paragonato con ammirazione e generosità Flavio Briatore, che difficilmente peraltro me prende uno per spostarsi fra residenze e affari, ma Trump mi sembra sceso al minimo livello della popolarità cui dovrebbe aspirare un politico. Anche i suoi elettori negli Stati Uniti lo stanno abbandonando, visto che continuano a perdere i loro risparmi in borsa pure dopo la ritirata dei 90 giorni di sospensione dei nuovi dazi che hanno invece ridato fiato e denari alle borse europee. E un treno, quello di Trump, destinato forse più al deragliamento che ad altro. Buon viaggio, mister president. E ben tornata, Sua Santità.

La fila vantata da Donald Trump davanti ai suoi glutei e dazi…..

Joe Biden, parlandone al passato pur da vivo, concluse la sua esperienza alla Casa Bianca anche sotto il tiro dell’accusa di essere ormai andato fuori di testa, oltre che gambe per quel suo incedere traballante a 82 anni neppure compiuti. Il suo predecessore e poi successore Donald Trump, all’inizio del suo secondo mandato ancor più che durante e a conclusione del primo, ha forse già superato Biden nel sospetto di una certa instabilità di vario genere, pur camminando spedito, e a 79 anni non ancora compiuti.

La vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno

Più che alla Casa Bianca sembra di stare con lui all’Osteria Bianca per come riceve gli ospiti, e non solo il presidente ucraino Zelensky, o si appresta a riceverne. Come nel caso della pur amica e apprezzata premier italiana Giorgia Meloni, che andrà a trovarlo giovedì prossimo preceduta dalla descrizione fatta da Trump in persona di quanti, donne e uomini, bussano alla sua porta per parlare di dazi e contorni prestandosi anche al rito del bacio non alla pantofola ma ai glutei. Come il buon Massimo Gramellini, servendo educatamente  il suo caffe quotidiano ai lettori del Corriere della Sera, ha definito il deretano chiamato da Trump col suo nome più chiaro e scurrile. Con la u sostituita pudicamente con un asterisco nella vignetta di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno.

Ora bisogna stare attenti a invitare Trump all’estero. Se lo fosse in Italia anche per parlare al Parlamento in seduta comune come ha fatto ieri Re Carlo III d’Inghilterra, e altri prima di lui, fra i quali Papa Giovanni Paolo II, dalla bocca e dintorni, diciamo così, del presidente americano chissà cosa potrebbe uscire. E non più rientrare rimanendo a mezz’aria con la sospensione di novanta giorni appena applicata ai dazi. Il cui solo annuncio è costato tantissimo a tantissimi risparmiatori nel mondo.

Poveri Stati Uniti d’America, ma non solo loro purtroppo.

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Risate e zuffe incontenibili, esenti da dazi, sull’assalto di Trump al mondo

Un Emilio Giannelli particolarmente in forma con la sua matita di vignettista, senza aiuto alcuna del’intelligenza artificiale sbarcata anche in qualche giornale, ha inchiodato, trafitto, ridicolizzato e quant’altro il presidente americano Donald Trump sulla prima pagina del Corriere della Sera con una pallina da golf. Che, tirata nella solita posa di giocatore ricco e professionale, gli torna addosso nelle dimensioni e forme del globo terracqueo. Quello che lo stesso Trump vorrebbe mettere sottosopra con i dazi e con i suoi rapporti più o meno privilegiati con la Russia di Putin, costretta paradossalmente più di tre anni fa a difendersi dall’Ucraina, secondo le ricostruzioni recentissime della Casa Bianca, invadendola e cercando, sinora inutilmente, di ammazzarne o metterne in fuga il presidente Zelensky. Che sarebbe di scarso successo anche come attore, come disse di lui il presidente americano di riceverlo e strapazzarlo in diretta televisiva mondiale.

Dal Corriere della Sera

Ma oltre che dalla pallina da golf gonfiatasi come il globo terracqueo di memoria o clonazione meloniana, avendone parlato a suo tempo la premier italiana come del teatro della sua guerra agli scafisti che trafficano di migrati clandestini, Trump sembra ormai in difficoltà anche col suo entourage, con i suoi consiglieri, che si danno fra di loro del cretino, e chissà di cos’altro. Compreso l’ormai mitico Elon Musk, al quale in una vignetta sul Secolo XIX Stefano Rolli fa perdere la testa. Anzi, la Tesla, che rischia la rottamazione per effetto dei dazi che non a caso il suo proprietario ha rimproverato a Trump anche in pubblico, parlandone in particolare col vice presidente del Consiglio italiano, ministro delle Infrastrutture e soprattutto segretario della Lega.  

Delle difficoltà di Trump, vere o presunte che siano, comunque avvertite su buona parte delle prime pagina di una altrettanto buona parte dei giornali del mondo, potrebbero giovarsi dialetticamente,  diciamo così, anche le opposizioni italiane in varia misurq critiche col nuovo corso americano del palazzinaro, giocatore di golf e via elencando i suoi affari e hobby. Ma le opposizioni domestiche al governo italiano, i cui partiti si contendono i pilastri -li ha chiamati Giuseppe Conte- dell’alternativa al centrodestra quando ne verrà il momento, sono prese da un’altra o prevalente partita. Che è quella- personalissima, ossessiva- contro la Meloni che non sarebbe all’altezza né di alleata di Trump né di pontiere fra lui e l’Europa, e neppure la sola Italia. Se n’è addirittura messa in dubbio per qualche tempo, a crisi mondiale dei dazi già esplosa, la capacità di strappare un appuntamento alla Casa Bianca, appena annunciato invece per il 17 aprile. Della Meloni persino Il Foglio, che cerca ogni tanto di non sembrare prevenuto, ha titolato come di una dispensatrice di “valeriana”, e “senza parole”. Altri invece lamentano di averne sentite troppe e sbagliate.

La penultima versione di Giuseppe Conte è addirittura craxiana….

Sentite o leggete questo Marco Damilano sul Domani  di carta di Carlo De Benedetti a proposito della manifestazione pentastellata  di sabato scorso a Roma, sullo sfondo dei fori imperiali, per la pace e contro il riarmo europeo: “Dopo il successo della piazza, vinta la prova di forza, superata l’urgenza del primum vivere, la stessa del Psi di Craxi di mezzo secolo fa, per Conte arriverà il momento della trattativa con i compagni di strada, a cominciare dalla Schlein”. Sulla strada, in particolare, dell’alternativa al centrodestra, di cui l’ex premier si è intestato il “primo pilastro” sognando magari anche il ritorno a Palazzo Chigi dopo lo sfratto del 2021 che ancora gli brucia.

Conte, quindi, Giuseppe Conte, o Giuseppi al plurale della famosa benedizione di Donald Trump nella sua prima esperienza alla Casa Bianca, nel 2019 mentre l’amico a Roma archiviava il suo primo governo per formarne un altro con una maggioranza diversa, anzi opposta; Conte, dicevo, è stato paragonato da Marco Damilano al Bettino Craxi del 1976. Che  raccolse il Psi al suo minimo storico, cui l’aveva portato Francesco De Martino, e ne promosse la sopravvivenza e la ripresa, cominciata già nelle elezioni anticipate del 1979. E culminata nei due governi Craxi fra il 1983 e il 1987.

Bettino Conte, si potrebbe pensare e persino dire anche a costo di procurare un infarto a Giuseppe Conte. Cui penso che il paragone dell’ex direttore della penultima   edizione del vecchio Espresso con Craxi non possa essere piaciuta, pur condito col riconoscimento o l’auspicio di poter salvare il MoVimento 5 Stelle dal minimo storico raggiunto nelle elezioni europee del 2024, con quel meno del 10 per cento contro il 32,7 delle elezioni politiche del 2018. Da cui era uscito, come una sorpresa dall’uovo di Pasqua, il primo governo dell’allora quasi ignoto, per quanto professore universitario, Giuseppe Conte.

Craxi -vorrei ricordare all’acrobatico Marco Damilano, ma anche al suo editore di carta stampata- salvò il Psi facendogli, fra l’altro, adottare la linea alla quale il Pci della cosiddetta solidarietà nazionale si era sottratto fuggendo dalla maggioranza di ben due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti: la linea, direi, di Comiso. Che io chiamo così dalla località italiana, e base americana, dove furono installati i missili del riarmo della Nato. Che si rivelò propedeutico al crollo del comunismo senza bisogno di sparare un solo colpo di pistola.

  Il riarmo è invece per Conte – e per il suo improbabile terzo governo subìto dalla Schlein-  una parolaccia, una bestemmia, pur essendo ormai la Russia di Putin una mezza riedizione, ma nuclearizzata fino ai denti, della Russia di Stalin. “Fuori la guerra dalla storia”, ha gridato sabato il popolo di Conte. Uno slogan che Mattia  Feltri oggi sulla Stampa definisce “il più cretino di sempre” perché questo “può essere soltanto l’obiettivo  di chi fuori dalla storia ci ha piantato le tende”. O i pilastri.

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Le quattro vite -anzi otto- di Antonio Di Pietro di Montenero di Bisaccia

Dal Dubbio

Altro che le quattro vite in 75 anni di età che Salvatore Merlo ha attribuito ad Antonio Di Pietro raccogliendone sul Foglio le confidenze in una giornata trascorsa con lui in campagna. In un posto del Molise che non compare “neppure nelle mappe di Google”. Come lo stesso Di Pietro aveva spiegato al vice direttore del Foglio dandogli appuntamento in un’altra località mappata, dove sarebbe andato a prelevarlo di persona per portarlo a casa. E raccontarsi a cuore aperto, seduto fra una zappa e un vecchio e ingiallito codice penale, Che “Tonino”, per gli amici, ma anche per il pubblico che sfilava una volta in corteo per lui, sfoglia ancora non più da magistrato ma da avvocato. Delle poche cause, mi è sembrato di capire, di cui accetta di occuparsi perché gli “interessano”. O, ancora di più, gli piacciono.

Dal Foglio di ieri

Altro che le quattro vite, dicevo, che lo stesso Di Pietro ha sintetizzato raccontandosi come magistrato, politico, avvocato e imputato, uscito sempre assolto, sia pure con qualche urticante giudizio sul suo stile. Assoluzioni che gli hanno procurato anche un po’ di denaro pagato dai malintenzionati avventuratisi ad attaccarlo, e persino a tramare contro di lui.

Sempre dal Foglio di ieri

Le vite di Di Pietro sono almeno il doppio di quattro, mancando o solo sottintendendo, o facendole intravvedere, l’infanzia trascorsa, sempre in campagna come adesso, ma fra le tessere d’iscrizione dei genitori alla Dc e ai collaterali coltivatori diretti. E poi quella di emigrato in Germania, da dove mandava i risparmi di falegname, operaio e quant’altro alla madre, che morendo glieli avrebbe fatti ritrovare moltiplicati in buoni di Stato. E poi ancora la vita di poliziotto, per non parlare di quella brevissima di segretario comunale.

Tutte vite -si è vantato Di Pietro, pur dimezzandole- trascorse senza indossare una sola “camicia rossa”, pere quante gliene avessero attribuite tante quando era il magistrato di punta, più famoso e esposto, delle già citate “Mani pulite” per sospetti favori, riguardi, distrazioni verso i comunisti. Che lui invece si vanta ancora di avere indagato e fatto arrestare come e forse ancora più degli altri. Ma se la cavarono meglio perché “più bravi”, come già una volta lo stesso Di Pietro, ormai ministro, riconobbe a Massimo D’Alema. Che di recente lo ha raccontato con orgoglio partecipando alla rappresentazione di un libro.

Francesco Saverio Borrelli e Antonio Di Pietro

D’altronde, prima che scoppiasse la vicenda Tangentopoli, quando personalmente lo conobbi a Milano pranzando con lui, con Fedele Confalonieri e il comune amico architetto Claudio Dini,  che poi avrebbe fatto arrestare; d’altronde, dicevo, quando lo conobbi i cronisti giudiziari ne parlavano come di un uomo di destra  con qualche simpatia personale per l’allora sindaco socialista di Milano, e comune amico anche lui, Paolo Pillitteri. Tanto di destra da essersi vantato di non avere aderito ad uno sciopero indetto dai magistrati lasciando aperto il suo ufficio in Procura, a Milano, e guadagnandosi l’attenzione e poi anche l’amicizia, almeno per un certo tempo, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Contro il quale peraltro era stato proclamato quello sciopero, nonostante egli fosse anche non per scherzo o capriccio ma sul serio, per dettato costituzionale, presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura.

E meno male che allora non si sapeva quello che Di Pietro ha raccontato al vice direttore del Foglio dei rapporti col suo superiore Francesco Saverio Borrelli. Al quale dava rispettosamente non del Lei, ma del Voi. Del fascistissimo Voi, certificherebbe anche Antonio Scurati. Del resto, a “Mani pulite” ancora in corso, a suggerire all’appena incaricato Silvio Berlusconi la nomina di Antonio Di Pietro a ministro, in particolare dell’Interno, furono gli uomini dell’ancora Movimento Sociale, che avevano proposto anche Pier Camillo Davigo, pure lui della scuderia giudiziaria di Borrelli, al Ministero della Giustizia. Dove ora siede Carlo Nordio, pure lui ex magistrato, di cui Di Pietro condivide la riforma per la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri.

Pubblicato sul Dubbio

Il Conte alla guerra contro la Meloni decantato dal Corriere della Sera

Da Libero

Pur senza rinunciare, per fortuna e di frequente, alla sua solita ironia, temo che Fabrizio Roncone si sia fatto prendere un po’ la mano anche lui, più ancora di Marco Travaglio che vi ha partecipato fra i promotori, nel racconto sul Corriere della Sera della manifestazione romana e pacifista, almeno a parole, di Giuseppe Conte. “La prima” irruzione in piazza, ha osservato Fabrizio, da quando l’ex presidente del Consiglio e ora solo presidente di quel che è rimasto elettoralmente del MoVimento 5 Stelle se n’è davvero impadronito, liberandosi del ruolo ingombrante di garante di Beppe Grillo. Sotto le cui finestre romane, quelle dell’albergo dove il comico alloggia nelle sue trasferte capitoline, è quasi sfilato il corteo della pace contiana. O dell’abolizione della guerra, come fu quella della povertà trionfalmente annunciata dal balcone di Palazzo Chigi non più tardi di sette anni fa dall’allora vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio per avere Conte appena varato col suo governo il famoso reddito di cittadinanza. Partorito giocando sui decimali con l’Unione Europea per rimanere, almeno formalmente, nei famosi parametri comunitari del deficit.

Dal Corriere della Sera

Anche Roncone è rimasto shoccato- ripeto: shoccato, non scioccato- dal corteo o colpo d’occhio “inatteso, imprevisto, clamoroso” prodotto dall’iniziativa di Conte e dal suo attacco verbale, disponendo per fortuna solo di parole e non di moschetti, alla “menzognera” premier Giorgia Meloni. Ancora illusa, secondo Conte, di vivere una “luna di miele” col Paese che governa.

Francesco Boccia e Giuseppe Conte in ordine alfabetico

Illusa tuttavia, nel racconto sempre di Roncone, è anche Elly Schlein, la segretaria del Pd, nel considerarsi o lasciarsi considerare, persino nello statuto del suo partito, la candidata a Palazzo Chigi se dovesse mai realizzarsi l’alternativa al centrodestra che Conte ha fiduciosamente intravisto, anzi visto nascere dalla sua manifestazione. Naturalmente nella speranza, anzi nella convinzione di essere lui invece il predestinato al ritorno alla guida del governo alternativo, ripeto, a quello della Meloni. Una predestinazione esorcizzata dalla Schlein tenendosi personalmente fuori e lontano dal corteo e affidando la rappresentanza del Pd a una delegazione capeggiata dal presidente del gruppo del Senato Francesco Boccia. Che ha rischiato di trovarsi con la Boccia, al femminile, Maria Rosaria: quella che l’anno scorso aveva prima graffiato, forse anche incerottato e poi fatto dimettere o deporre il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Ora fiancheggia Rita De Crescenzo corsa a Roma contro le armi.

Il ritorno di Rocco Casalino

Un altro ritorno sulla scena, grazie al raduno di Conte, è stato quello del suo ex capo ufficio stampa a Palazzo Chigi Rocco Casalino, che non poteva certo perdersi lo spettacolo dell’ex premier “fresco e senza cravatta, messa al diavolo”. Un Rocco “radioso -ha raccontato Roncone- dello sfavillante casino grillino”: casino al minuscolo, essendo la maiuscola dovuta solo al cognome dell’interessato. Che nel 2019 inciampò pure lui, come l’allora premier, nella ricerca affannosa di una maggioranza per un terzo governo Conte, quando già Mario Draghi studiava, diciamo così, da successore.

Mao diceva che “grande è la confusione sotto il cielo”, ricavandone ottimismo per sé stesso. Qui, per stare all’immagine più casereccia di Roncone, grande è “il casino” delle opposizioni pur festosamente sfilate per le strade di Roma. Di cui lo stesso Roncone solo qualche giorno fa, prima di distrarsi un po’ seguendo e ascoltando il Conte dell’Esquilino e dintorni, aveva scrupolosamente elencato incidenti e contraddizioni in sole tre settimane di votazioni fra Parlamento europeo, Parlamento italiano e piazze sui temi non da avanspettacolo come sono quelli della difesa e della sicurezza. Che non possono essere appesi come caciocavalli a un so

ffitto, per quanta voglia si possa avere di scherzare. 

Pubblicato su Libero

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Matteo Salvini a lunga scadenza alla guida del Carroccio leghista

Dal Corriere della Sera

Improbabile, a dir poco, presidente del Consiglio, pur candidato nella stessa denominazione del partito, Matteo Salvini resterà comunque segretario della Lega nella prossima legislatura, appena confermato per acclamazione dal congresso federale sino al 2029. Quando ha promesso di non riproporsi bastandogli e avanzandogli i 16 anni che saranno allora trascorsi dalla sua prima elezione. Al massimo, a livello di governo, potrebbe riuscirgli, essendosi ripromesso di “parlarne” con la premier Giorgia Meloni, di tornare a capo del Ministero dell’Interno, dove i suoi però lo vorrebbero già prima della prossima legislatura. Improbabile però anche questo.

Giorgia Meloni recentemente al congresso di Azione

A proposito della Meloni, l’”amica Giorgia”, come l’ha chiamata Salvini, non ha trovato il tempo e forse neppure la voglia di andare al congresso leghista di Firenze. Come ha fatto invece di recente a Roma andando a quello calendiano di Azione, che pure non fa parte, o non ancora, della maggioranza di governo. Vi si affaccia ogni tanto per votare leggi e simili che condivide, o semplicemente per fare dispetto a Matteo Renzi che aspira ad essere un pilastrino della improbabile -anch’essa- alternativa al centrodestra. Pilastrino, perché “il primo solido pilastro” lo ha prenotato o addirittura piantato Giuseppe Conte sgolandosi nella manifestazione di sabato ai Fori Imperiali e dintorni, indetta per fare della pace -ma più in particolare e fattivamente, del no al riarmo europeo- il primo obiettivo politico del suo movimento. E di una eventuale, eventualissima maggioranza su misura per lui.

Giorgia Meloni in videomessaggio a Firenze

La Meloni ha voluto o potuto limitarsi a mandare ai leghisti un breve videomessaggio di convenevoli, diciamo così, per chiedere di lavorare “pancia a terra” nel governo sino alla conclusione della legislatura, nel 2027 salvo anticipi, e riconoscere che “un congresso non è mai una perdita di tempo”. Ci mancherebbe altro, con quello peraltro che costano.

Di questa partecipazione a distanza della Meloni al congresso della Lega si vanteranno o si varranno Conte, Elly Schlein, Renzi eccetera per continuare a coltivare il sogno di una esplosione, anzi implosione della maggioranza che li obblighi magari a qualche accordo d’ufficio o d’emergenza. Come quelli che ai suoi tempi nel cosiddetto centrosinistra soleva fare, tra officine e cantieri, Romano Prodi senza ricavarne personalmente molti vantaggi, essendo entrambi i suoi governi durati meno di due anni ciascuno. E ancor meno -qualche giorno- la sua candidatura consolatoria al Quirinale gestita nel 2013 dall’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio incaricato, o pre-incaricato, Pier Luigi Bersani.

Romano Prodi in videomessaggio a Bologna e Firenze

Anche Prodi è tornato ieri a farsi vedere e sentire, a Bologna e a Firenze, in un videomessaggio a manifestazioni di area che se dovevano  o volevano essere competitive col raduno romano di  Conte il giorno prima, sono fallite inorgogliendo ulteriormente il presidente del MoVimento 5 Stelle. O di quel che ne è rimasto elettoralmente.

Giuseppe Conte batte Matteo Salvini nella disciplina del salto nel vuoto

Dal Fatto Quotidiano

Giuseppe Conte e Matteo Salvini, una volta insieme nel governo col primo a Palazzo Chigi e l’altro al Viminale, si sono contesi ieri spazio e attenzione nei loro ruoli di capi di partito. Conte come presidente del MoVimento 5 Stelle, e promotore della manifestazione romana per la pace promossa da Marco Travaglio a “Oceano Pacifico”, Salvini come segretario della Lega al congresso federale a Firenze.

Salvini intervista Musk

Sul piano della visibilità, e forse anche della curiosità, è prevalso Salvini con quella sua sorpresa del collegamento con Elon Musk e con la profezia clamorosa che gli ha strappato di un’Italia, anzi di un’Europa  destinata a subire una terribile stagione terroristica. Di fronte alla quale impallidirà la paura appena procurata dalla guerra dei dazi dell’amico e superiore di Musk: il presidente americano Donald Trump.

Musk a voce e in immagini a Firenze come il vice presidente americano Vance al telefono nei giorni scorsi, sempre con Salvini, che ha voluto in qualche modo precederne l’arrivo a Roma in visita ufficiale. Il leader leghista è notoriamente in gara da tempo con la premier Giorgia Meloni per essere, apparire e quant’altro il più trumpista d’Italia, diciamo così.

Dal manifesto

Eppure, considerando anche i rapporti di forza elettorale che distanziano Salvini da Meloni tanto da non poterlo scambiare di certo per un inseguitore, Conte è stato ieri più protagonista del leader leghista.  Ha inciso di più sulla situazione politica. Lo ha fatto con quella sua manifestazione –“La prima buona”, ha titolato il manifesto- alla quale alla fine si è prestato come partecipe anche il Pd, con una delegazione ufficiale guidata, su incarico della segretaria Elly Schlein, dal capogruppo del Senato Francesco Boccia. E più ancora con quel suo discorso violento contro “la farlocca luna di miele costruita sulle menzogne” dalla Meloni. Che meriterebbe di finire “nei cannoni”, secondo i cartelli del pubblico. Disarmata del suo “elmetto”, sempre secondo la folla, insieme con l’amico e ministro che fa rima chiamandosi Crosetto.

 Conte si è incoronato da solo sullo sfondo della Roma imperiale leader dell’opposizione. E candidato di fatto alla guida dell’”alternativa” ormai “nata”.

Giuseppe De Rita al Messaggero

L’ex premier è così ostinato nelle sue ambizioni e nella sua autostima che avrà probabilmente riso leggendo ieri mattina sul Messaggero il giudizio che ha dato di lui e del suo pubblico Giuseppe De Rita. Che ha detto, in particolare: “Potrà esserci il vecchio partigiano comunista e la tiktoker napoletana che ha trascinato tutti in pullman a Roccaraso. Ci potrà essere di tutto, perché il pacifismo è l’aria che respiri. Siamo tutti paciosi e pacifisti. Ma una piazza di paciosi e pacifisti non avrà mai una linea politica. La parola pace non è traducibile in politica”.   

Più che avvicinarla, Conte ha allontanato l’alternativa nella quale si è avvolto come in una bandiera davanti a “100 mila” tifosi, come se li avesse contati personalmente uno per uno.

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