I “great again” conciliabili di Trump e Meloni alla Casa Bianca

Agli Stati Uniti “di nuovo grandi” promessi, proposti, rivendicati e quant’altro da Donald Trump, che anche o soprattutto per questo ha riconquistato la Casa Bianca accusando i suoi predecessori di avere fatto regredire il loro paese, Giorgia Meloni nello studio ovale ha preferito la formula dell’Occidente” di nuovo grande”. Un obbiettivo da perseguire insieme: Trump e Meloni, gli stessi Stati Uniti e gli alleati fra i quali l’Italia è “speciale” per riconoscimento del presidente americano.  Great again.

Rientra in questa prospettiva dell’Occidente di nuovo grande il viaggio in Italia proposto dalla premier al presidente degli Stati Unii per avere, fra l’altro, l’occasione intravista nelle sue parole di un incontro anche con la presidente della Commissione dell’Unione Europea. Un viaggio a breve, si è capito delle intenzioni della Meloni, anche se sulla data l’entourage di Trump non ha voluto sbilanciarsi. 

Un Occidente di nuovo grande significa un Occidente più deciso a restare unito nella sua difesa. Cosa, questa, che non è minacciata tanto dai dazi quanto dal rischio, alimentato dall’approccio di Trump alla questione, di una pace in Ucraina, dopo più di tre anni di guerra, favorevole più a Putin che a Zelensky Più all’aggressore che all’aggredito, nella distinzione che la premier italiana ha tenuto a ribadire nella parte pubblica del confronto col presidente americano, quando entrambi si sono offerti alle domande dei giornalisti.

Di fronte alla distinzione fra aggressore e aggredito parlando della Russia e dell’Ucraina Trump si è guardato bene dal replicare contro la sua “fantastica” ospite, fra i pochi “leader mondiali” da lui apprezzati, la scenata riservata clamorosamente nella stessa Casa Bianca al presidente ucraino. Di cui tuttavia Trump ha ribadito la convinzione che abbia sbagliato. Ma ancora più sbaglierebbe Trump, nella convinzione della Meloni,  se davvero consentisse a Putin di praticare un imperialismo non più sovietico ma addirittura zarista contro una  terra che si sente europea, con una procedura in corso di adesione all’Unione, e che ha pagato con l’invasione  l’aspirazione ad entrare anche nella Nato.

La missione della Meloni alla Casa Bianca è stata compiuta con “disciplina e onore”, si potrebbe dire parafrasando l’articolo 52 della Costituzione un po’ troppo abusato nelle polemiche politiche quando viene imbracciato come un’arma contro il presidente del Consiglio e i ministri di turno.

Gli effetti dell’incontro alla Casa Bianca si vedranno nei fatti, hanno detto con un certo scetticismo i meno aggressivi degli oppositori o critici del governo, considerando anche l’imprevedibilità di Trump. Ma la presidente del Consiglio è stata della schiettezza necessaria in un passaggio così difficile della congiuntura internazionale. Non è fuggita, come l’accusano nei giorni pari e dispari Giuseppe Conte ed Elly Schlein rincorrendosi nell’aspirazione a Palazzo Chigi, né si è nascosta dietro formule evanescenti.

Le dimissioni improbabili, a dir poco, del presidente della Repubblica

Diavolo di un Messaggero che pure si scrive e si stampa a due passi dal Quirinale. “Mattarella verso le dimissioni già oggi”, hanno titolato in prima pagina pur risparmiando all’evento i caratteri di scatola che avrebbe meritato un annuncio del genere se vero, non nel contesto di un breve ricovero del Capo dello Stato all’ospedale Sant Spirito di Roma per l’impianto di un pacemaker di ormai ordinaria amministrazione per chi ha il cuore dai ritmi un po’ troppo imprevedibili.

Tranquilli, il Capo dello Stato ha continuato sì a “lavorare anche dall’ospedale”, sempre nel titolo del Messaggero, ma non per firmare le ultime carte della sua seconda Presidenza, dopo la prima del 2015-2022., ma per proseguire, non interrompere per chissà quale ragione un mandato che scadrà solo nel 2029.

I critici di Mattarella, che non mancano neppure in un quadro generalmente favorevole a lui, e gli aspiranti alla successione, anch’essi presenti fra quelli che sistematicamente gli fanno gli auguri per le feste comandane o personali, debbono pazientare. Soprattutto dopo e grazie al pacemaker appena installato.

Alla prova dei fatti la missione di Giorgia Meloni alla Casa Bianca

Non so se Emilio Giannelli volesse più fare ridere o inorridire i lettori del suo Corriere della Sera proponendo, per la visita odierna alla Casa Bianca, una Giorgia Meloni al bacio dei glutei ricavati sulla faccia del presidente americano allungando le sue guance. Uno spettacolo più osceno che ridicolo.

La missione della premier italiana in America ha scatenato anche la fantasia all’indietro dei cosiddetti analisti. Alcuni dei quali si sono avventurati a paragonarla a quella di Alcide Gasperi nel gennaio del 1947, avvolto in un cappotto prestatogli da amici e deciso a portare a casa un assegno di 50 milioni di dollari.  In cambio, fra l’altro, dell’impegno, mantenuto quattro mesi, di scaricare dal governo  socialisti e comunisti. I primi vi sarebbero tornati col centro-sinistra “organico”, e Aldo Moro presidente del Consiglio, nel 1964. Gli altri invece non vi sarebbero tornati mai più, rappresentando il Massimo D’Alema del 1998 a Palazzo Chigi non il Pci, finito tra le macerie del muro di Berlino, ma la seconda delle sue varie, successive edizioni.

Giorgia Meloni al ritorno da Washington non dovrà scaricare nessuno dei suoi alleati di governo. Né il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, più trumpiano o trumpista della premier, né il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani. Che è sì insofferente per ragioni di stile e di contenuto alle marce, retromarce, sceneggiate ed altro di Trump, ma altrettanto all’idea che si possa fare a meno degli Stati Uniti, pur nella versione trumpiana.

Per quanto difficile se finalizzata ad una mediazione fra le due rive dell’Atlantico, comunque coperta da un assenso della presidente della Commissione dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la missione della premier italiana è di per sé un passaggio importante per l’Italia in un momento non certo ordinario: nel bel mezzo di guerre che continuano e di un tentativo che accomuna un po’ Trump e Putin di ridisegnare spartizioni e influenze a 80 anni da quelle concordate a Jalta alla fine della seconda guerra mondiale.

Solo un autolesionismo da vignetta -magari di un’altra di Giannelli sul Corriere della Sera- potrebbe fare sognare in Italia  un fallimento della Meloni a Giuseppe Conte e ad Elly Schlein, che si inseguono nella corsa a Palazzo Chigi come candidati alla guida della pur improbabile alternativa al centrodestra.

Il pacemaker guadagnatosi dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Dove non sono riusciti i fatti della politica, internazionale e interna, dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca proponendosi tregue e paci che non arrivano, spesso neppure a parole, hanno dunque provato i medici dell’ospedale romano di Santo Spirito, a pochi passi dal Vaticano, impiantando un pacemaker al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il cui problema sanitario sta nel ritmo troppo lento del suo cuore.

L’intervento era programmato, hanno annunciato e assicurato al Quirinale, dove il Capo dello Stato ha disbrigato i suoi affari d’ufficio, compresa un’udienza a Gianni Letta per festeggiarne i 90 anni, sino a qualche momento prima del ricovero in un clima per niente formale di ordinarietà.

Col cuore in qualche modo potenziato, comunque più protetto da quell’apparecchietto non più grande di una moneta da due euro, il presidente della Repubblica potrà fronteggiare meglio il più frequente, se non sistemico inconveniente del suo impegno istituzionale. Che è quello di trovarsi strattonato dalle opposizioni che, non avendo una leadership sicura, cercano di appoggiarsi al Capo dello Stato e di intrometterlo nella lotta politica contro il governo.

 Buon lavoro anche di resistenza, signor Presidente, alla vigilia peraltro dell’ottantesimo anniversario della conclusione vittoriosa di un’altra Resistenza, con la maiuscola.

Altro che dazi, è l’Ucraina il tema più difficile per la Meloni da Trump

Anche, anzi soprattutto Flavia Perina, la cui conoscenza della destra è maturata prima come militante e poi come direttrice del Secolo d’Italia, ha avvertito sulla Stampa, scrivendone da editorialista, il carattere tanto prioritario quanto difficile assunto dal dossier sull’Ucraina nell’agenda dell’incontro di domani della premier Giorgia Meloni alla Casa Bianca col presidente americano Donald Trump. La paura dei cui dazi è stata superata, con gli ultimi sviluppi della guerra in corso da più di tre anni, da quella di una pace praticamente imposta dallo stesso Trump all’Ucraina di Zelensky alle condizioni peggiori.

Dell’Ucraina, a parte la “stanchezza” sfuggitale in una telefonata carpitale da un comico russo scambiato per un presidente africano dai suoi uffici, la Meloni ha sempre preso le difese. E non per le pressioni esercitate su di lei -secondo analisi e retroscena cui si sono spinti i suoi avversari- dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari imparentatosi con una donna di quelle parti. Ma per convinzioni antisovietiche e poi altre, come vedremo, ereditate dalla militanza nella destra in cui è cresciuta la premier.

La Russia, dopo la caduta del muro di Berlino e di tutto il resto, non è più sovietica, per quanto guidata da un Putin formatosi nei suoi servizi segreti. Ma Trump, volente o nolente, sta facendo di tutto per assecondare l’ambizione neppure nascosta al Cremlino di recuperare una buona parte del potere e dell’influenza dell’epoca sovietica, appunto. E ciò in una concezione imperialistica della Russia ricondotta da Putin direttamente e orgogliosamente allo zarismo, senza più il successivo filtro ideologico e rivoluzionario del comunismo di Lenin e successori.

E’ un bel pasticcio, diciamo così, anche se Trump mostra o finge di non avvertirlo, per un’Europa i cui confini politici si sono allargati a paesi finiti ottant’anni fa, con gli accordi di Jalta conclusivi della seconda guerra mondiale, nell’area allora sovietica. Paesi che, a parte forse l’Ungheria del pur “patriottico” Orban, non hanno nessuna voglia di tornare indietro.  O solo di riprovarne la paura come confinanti. L’Ucraina ha pagato con l’aggressione di più di tre anni fa l’ambizione di aderire anch’essa alla Nato, avendo peraltro restituito alla Russia tutto l’arsenale nucleare depositato sul suo territorio dal Cremlino.

Lo scenario trumpiano, chiaramente indigesto già per una destra di tradizione missina, ancora di più lo è per una destra allargatasi ad aeree di cultura o provenienza democristiana e persino socialista. Di un socialismo che con Craxi si sentiva infangato dal comunismo. Che, del resto, alla fine preferì scommettere più sul soccorso giudiziario che sull’unità socialista proposta da Craxi ma avvertita come un’annessione.  Anche questo, in fondo, fa parte del complesso, scottante dossier ucraino della Meloni in missione dal suo amico Trump.

Pubblicato sul Dubbio

Le crociere galeotte dei magistrati sulle navi della Tirrenia e di Moby

Già coperti dal segreto istruttorio nella loro identificazione anagrafica, dei due magistrati coinvolti nelle indagini per corruzione ed altro, avendo viaggiato gratiscon un bel pò di ammiragli, altri graduati e funzionari civili su navi della Tirrenia e di Moby, non si sa neppure se siano fra quelli per i quali sono stati richiesti gli arresti domiciliari e/o la sospensione dagli uffici.

         Il coinvolgimento dei due magistrati nelle indagini genovesi cominciate due anni fa è stato comunque quello che ha fatto più notizia nei titoli di prima pagina dei giornali. Né poteva essere diversamente in un momento in cui la magistratura, nelle sue rappresentanze sindacali e istituzionali, si sente accerchiata dal governo con la riforma che separa le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. E si lascia attribuire da una cultura e militanza giustizialista una “diversità” analoga a quella rivendicata per la sua parte politica da Enrico Berlinguer quando pose o scoprì la cosiddetta “questione morale” anche per motivare il ritiro della maggioranza di “solidarietà nazionale” realizzata fra il 1976 e il 1979 attorno a due governi monocolori democristiani guidati da Giulio Andreotti.

         Quella “diversità” attribuitasi o lasciatasi attribuire dalla magistratura contribuì anche a permetterle negli anni di “Mani pulite” il famoso e “brusco cambiamento dei rapporti fra politica e giustizia”, a vantaggio della seconda, riconosciuto pubblicamente dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrivendone alla moglie di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito ad Hammamet. Il leader socialista aveva ottenuto un trattamento di una “durezza senza precedenti” -parole sempre di Giorgio Napolitano- nei processi in tribunale e in quelli sommari che li avevano preceduti sui giornali e nelle piazze. Dove erano sfilati in migliaia, particolarmente a Milano, chiedendo all’allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro e colleghi di sognare ancora di più con lo spettacolo manettaro.

         Si disse e si scrisse già allora dai pochi sottrattisi alle mode culturali, mediatiche e politiche del giustizialismo che se ne sarebbe usciti assistendo agli arresti dei magistrati fra di loro. Ci stiamo arrivando?

Ripreso da http://www.startmag.it

Dura a morire la leggenda di Craxi abbandonato dagli americani dopo Sigonella

Diego Gabutti ha raccontato a suo modo, colto e disincantato, gli anni Ottanta. Che “sconvolsero il mondo”, dice il sottotitolo del libro pubblicato da Neri Pozza editore: dall’attentato al papa polacco Giovanni Paolo II, per esempio, al crollo del comunismo che lo aveva ordito avvertendo il pericolo costituito per l’Unione Sovietica da quel pontificato. Forse ancor più del riarmo missilistico della Nato che avrebbe fatto collassare Mosca.

Per quanto preso dalla rievocazione scrupolosa e spesso originale   dei tanti fatti e personaggi di quel decennio, mi sono stupito- anche per un’esperienza diretta e personale che rivelerò alla fine-  dal credito che anche il mio amico Diego ha dato alla leggenda di  Bettino Craxi in qualche modo traditosi nei rapporti con gli Stati Uniti, sino a pagarne gli effetti nel decennio successivo, quando esplose il ciclone giudiziario di Tangentopoli. E il leader socialista si precluse la possibilità, pur maturata una volta caduto il comunismo, di fare prima e meglio di quanto sarebbe poi riuscito all’amico Silvio Berlusconi.

In particolare, secondo Gabutti che ne scrive al presente, Craxi nel 1985, pur reduce dalla vittoria referendaria sui tagli alla scala mobile, antinflazionistici ma contestatigli furiosamente dagli avversari, “la fa fuori del vaso” sfidando gli Stati Uniti di Ronald Reagan. Siamo alla famosa notte di Sigonella., a sequestro concluso della nave italiana Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo.

I terroristi autori di quel sequestro al comando di Abbu Abbas, rimesso in riga da Yasser Arafat dopo un intervento di Craxi, ma non in tempo per evitare l’assassinio del passeggero americano, ebreo e paralitico Leon Klingoffer, furono imbarcati su un aereo egiziano per essere portati al sicuro in Tunisia. Ma i caccia americani intercettarono il velivolo e lo fecero atterrare nella base italiana di Sigonella, dove i marines in assetto di guerra lo circondarono per catturarne i passeggeri. Alla richiesta telefonica, diretta e notturna del presidente americano in persona il presidente italiano del Consiglio, dalla sua stanza d’albergo a Roma, “fa spallucce” -racconta sempre Gabutti al presente- e ordina che i Carabinieri circondino a loro volta i marines e impediscano loro la cattura dei terroristi e del comandante Abbas. Che, peraltro provvisto di un passaporto diplomatico egiziano,, non è neppure trattenuto in Italia per il processo, diversamente dai suoi sottoposti. Egli fu trasportato rocambolescamente a Roma per farlo fuggire altrettanto rocambolescamente al sicuro altrove.

Nel fare “spallucce”, pur erigendosi a garante della sovranità nazionale come ancora gli riconoscono anche gli avversari sopravvissuti alla sua morte, Craxi commette l’errore, sempre nel racconto di Gabutti al presente, di “non capire che talvolta l’uomo con la pistola non la scampa con l’uomo col fucile”. Reagan in persona, memore anche dell’aiuto ricevuto da Craxi nel già ricordato riarmo missilistico della Nato, si sarebbe poi chiarito e riconciliato con lui, prima scrivendogli e poi ricevendolo alla Casa Bianca. Nonostante questo, tuttavia,  Craxi alle prese con Tangentopoli, solo otto anni dopo, “si troverà senza un amico al mondo”, conclude Gabutti alludendo appunto all’abbandono da parte degli americani, o peggio.  In realtà, a tradirlo sarebbero stati alleati politici pavidi e persino compagni di partito collusi con gli avversari comunisti.

Parlavo una sera allo stesso Craxi nella sua casa di Hammamet di questa leggenda sugli anericani quando scattò l’allarme in una villa adiacente. In un attimo fummo protettivamente circondati da poliziotti armati sino ai denti. Che si ritirarono solo dopo che altri ancora si erano accertati dell’assenza di pericoli. Craxi mi chiese: “Tu pensi che io potrei stare così al sicuro qui senza il consenso e l‘aiuto degli americani?”. Cioè fidandosi solo delle pur ospitali autorità tunisine?

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it iil 20 aprile

L’Ucraina avanza sui dazi nell’agenda della Meloni in partenza per la Casa Bianca

I dazi sospesi da Trump e la risposta rinviata dall’Unione Europea non hanno certamente tolto l’argomento dall’agenda della premier Gorgia Meloni, ormai in partenza per l’incontro di giovedì prossimo col presidente americano alla Casa Bianca. Una missione nella doppia, anzi triplice veste di amica “formidabile”, alleata e politicamente consanguinea, diciamo così, per l’appartenenza alla comune famiglia internazionale dei conservatori.

La strage della domenica delle Palme in Ucraina, nel raid russo a Sumy che ha provocato 35 morti e più di 100 feriti tra fedeli che stavano andando a messa, ha forse modificato le priorità dell’agenda della Meloni. Che ha definito quello del “bastardo”, come il presidente ucraino Zelensky ha chiamato Putin, “un attacco vile e orrendo”. Persino a Trump, paziente con Putin sino a capovolgerne il ruolo da aggressore ad aggredito pensando di strappargli una tregua vera, non la prosecuzione ancora più atroce della guerra; persino Trump, dicevo,  sembra sia sbottato contro “il limite ormai superato” dal presidente russo. Che fra un incontro e l’altro con gli emissari di Putin spediti al Cremlino continua ad ordinare stragi di civili e abbattimenti di infrastrutture ucraine non militari ma ospedaliere, scolastiche e ora anche chiese e dintorni. Un’autentica vergogna, suppletiva di quella già costituita da una guerra di aggressione.

Giorgia Meloni, a parte l’infortunio della “stanchezza” in cui incorse rispondendo telefonicamente ad un comico russo scambiato a Palazzo Chigi per un presidente africano, non ha mai esitato a confermare il sostegno all’Ucraina anche dopo il cambiamento di registro, di tono e quant’altro intervenuto negli Stati Uniti con l’avvicendamento fra Joe Biden e Donald Trump alla Presidenza. Un cambiamento al quale la Meloni, se fosse mai tentata di abbassare pure lei la guardia, potrebbe cedere solo al prezzo di una frattura nell’Unione Europea ancora più seria di quella attribuitale neppure tanto dietro le quinte sul fronte dei dazi. Dai quali la premier italiana ha dissentito quando Trump li ha aumentati sbandierando la sua solita firma a forma di torri davanti alle telecamere, ma senza drammatizzarli. Anzi protestando contro l’”allarmismo” degli avversari del presidente americano.

Sull’Ucraina e dintorni, diciamo così, la Meloni sarà costretta dal suo ruolo e dalle sue stesse convinzioni a fronteggiare Trump anche a costo di fargli perdere quel già poco di pazienza che ha maltrattando gli ospiti e reclamando baci ai suoi glutei imperiali, o quasi. Che neppure Michelangelo riuscirebbe a trasformare in un’opera d’arte.  

Ripreso da http://www.startmag.it

L’allarmante abitudine all’odio e al suo incitamento nelle strade e piazze

La notizia, dati i tempi che corrono, purtroppo all’indietro verso gli anni Settanta del secolo scorso, non è tanto in quell’incitamento “spara a Giorgia” spruzzato con vernice viola a Milano sulla vetrina di una banca, nel contesto della solita manifestazione a favore della Palestina di Hamas e contro le forze dell’ordine, quanto nella solidarietà alla premier giunta solo dalla sua maggioranza politica e dai vertici parlamentari ma non dalle opposizioni, fatta eccezione per Matteo Renzi. Neppure da Elly Schlein, la segretaria del Pd accomunata dai dimostranti con le sue mani insanguinate ai politici ostili alla Palestina e, più in generale alla pace.

Un’altra notizia sta nel contributo particolare che l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella sua veste attuale di presidente del Movimento 5 Stelle e di “pilastro dell’alternativa”, fornisce ormai, volente o nolente, al clima d’odio che si diffonde fra strade e piazze d’Italia. E persino in Parlamento sparando contro la premier e il governo parole come proiettili.

Della Meloni l’aspirante alla sua successione ha appena parlato in modo incendiario come della “beniamina dei poteri transnazionali”. Gli manca ormai solo di evocare pure lui, come le brigate rosse ai loro tempi nei deliranti documenti delle loro campagne di morte, il famigerato acronimo Sim, inteso come Stato imperialista delle multinazionali. Conte allora aveva poco più di dieci anni nella sua Volturara Appula, neppure dodici all’epoca del sequestro di Aldo Moro fra il sangue della scorta, come in un mattatoio, e poi anche del suo assassinio.

Mi chiedo sommessamente, e con tutto il rispetto personale e istituzionale dovutogli, se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ritenga di dovere spendere qualche parola di fronte anche a tanto scempio. Commesso a Milano e altrove in nome addirittura della pace e della libertà. Uno scempio che sulle prime pagine dei maggiori giornali arriva con l’evidenza di qualche incidente stradale. E su altre ormai neppure si affaccia, come oggi sulla Stampa, sul Fatto Quotidiano, sul Messaggero, sul Mattino, su Avvenire, su Domani, sul manifesto e addirittura sul Tempo di area governativa e sul Secolo d’Italia leggendo e diffondendo il quale è cresciuta la premier.

I 3 colori della maggioranza e gli 8 delle opposizioni, più dell’arcobaleno

Sono tre i colori nei quali una vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera ha raccolto, come nella bandiera italiana, la maggioranza e il suo governo. Assegnando il verde al vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini con l’indice contro il riarmo europeo, o come diavolo lo chiamano anche a Bruxelles, il bianco alla rassegnata e centrale premier Giorgia Meloni e il rosso al vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani. Un rosso, in verità, di tonalità particolare, oltre che inedito per il successore di Silvio Berlusconi al vertice di quello il fondatore preferiva tingere o immaginare d’azzurro quando doveva parlarne cromaticamente.
Dell’opposizione, anziché del governo, il vignettista del Corriere si occuperà magari in un altro giorno o occasione. Ma i colori ai quali dovrà ricorrere sono, come vedremo, più del doppio di quelli applicati alla maggioranza. Sono sei, il doppio, quanti i documenti proposti alla Camera sui temi della difesa e della sicurezza. Ma fra le sei componenti dell’opposizione, parlandone generosamente al singolare e fingendo di prendere sul serio l’alternativa che perseguono al centrodestra, c’è un partito -naturalmente il Pd ora guidato da Elly Schlein- che fra Strasburgo e Roma, fra Parlamento europeo e Parlamento nazionale, si divide sino a tre quando vota, ripeto, sulla difesa e sicurezza. Esso vaga fra l’astensione, il sì e il no.
Così i colori dell’opposizione, presa sempre generosamente nel suo complesso, salgono ancora e superano persino i sette dell’arcobaleno. Che sono notoriamente rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Più che alla pace, generalmente associata ad essi, bandiere e striscioni dell’arcobaleno sono sventolati o stesi nelle piazze e nelle strade, dimostrando contro il governo, per contenervi neppure tutti i colori dell’opposizione. Un po’ come quelli delle maggioranze ai tempi prodiani dell’Ulivo e dell’Unione. E dei loro programmi che entravano nelle officine, nelle tipografie ed altro, sempre di memoria prodiana, con la sola copertina e ne uscivano con centinaia di pagine. Che servivano più a fare volume che a raccogliere impegni e progetti.
Non poteva finire diversamente da come finì l’avventura di Prodi: con quella che Clemente Mastella dalla sua attuale postazione di sindaco di Benevento ha ricordato come l’ultima vittoria del cosiddetto centrosinistra conseguita nel 2006 grazie ai suoi voti campani orgogliosamente di centro. Che gli valsero la nomina a ministro della Giustizia, sino a quando i soliti magistrati ne provocarono le dimissioni e, con esse, la fine della legislatura e dello stesso, presunto centrosinistra. La ciliegina sulla torta di Prodi, oggi più o meno conteso nostalgicamente dai salotti televisivi di tendenza di sinistra, fu messa nel 2013 dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani candidandolo al Quirinale in modo tale da procurargli una rivolta di “franchi tiratori” e la bocciatura.
In questo rapido sorvolo ricognitivo della politica italiana degli ultimi vent’anni e più non deve sorprendere la leggerezza, la disinvoltura, la comicità -diciamolo pure- di una sinistra che non sa analizzare sul piano politico il fenomeno mondiale di Donald Trump, tornato alla Casa Bianca non assaltandola ma spintovi dagli elettori con un risultato riconosciuto per prima dalla sua concorrente. E, non sapendo fare analisi politica, essa ricorre alla psicanalisi dando praticamente del matto, o disturbato, o del “narcisista patologico” al 47.mo presidente degli Stati Uniti. Che è appena al terzo mese, poco meno, del suo mandato quadriennale, al netto di quelli trascorsi fra l’elezione e l’insediamento.
Di dibattiti televisivi a partecipazione di psicanalisti titolati e non, professionisti o dilettanti, donne e uomini, giovani e anziani, faremo alla fine un’autentica indigestione.

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