Emma Bonino batte tutti nel ricordo celebrativo di Papa Francesco

Tocca il cuore ancora più della mente, come sanno fare solo i radicali nel loro rifiuto di ogni catena ideologica, e in fondo anche politica, il racconto che Emma Bonino ha appena fatto sulla Stampa dei rapporti avuti da Papa Francesco con lei personalmente e col compianto Marco Pannella. Ma, più in particolare, il racconto del commiato che ebbe da lei sul terrazzo di casa a conclusione della visita fattale dopo che l’ex ministra degli Esteri era uscita dall’ospedale, e lui si apprestava inconsapevolmente a tornarvi per uscirne solo per qualche giorno.

         “Tu sei giovane”, con i suoi 77 anni contro gli 88 che il Papa avrebbe compiuto il mese dopo, a dicembre, disse Francesco aggiungendo: “Sbrigati a guarire e a portare avanti le nostre idee”, per quanto diverse sui temi, per esempio, dell’aborto e dell’eutanasia, ma comuni sugli “ultimi”, direi anche i penultimi, da aiutare. Idee, concluse il Papa, sulle quali “alla fine c’è sempre un punto d’incontro”.        

E’ meglio ricordare, celebrare e -per chi ha fede- pregare per Papa Francesco condividendone queste parole che trascinarne anche la memoria nella solita polvere, spesso fango, dell’arena politica per tirarlo dove fa più comodo agli specialisti delle corride continue. Per quanti argomenti sembrino avere chi vuole spingere la memoria e la lezione di vita del Papa scomparso da una parte o da quella opposta. E già reclama dallo Spirito Santo l’aiuto nella Cappella Sistina del Conclave al candidato preferito alla successione. Un toto Conclave come un toto Rai qualsiasi.

Quel rapporto speciale anche di Francesco con Giorgia Meloni

A ogni morte di Papa, si diceva una volta per contrassegnarne l’eccezionalità in senso soprattutto temporale, tanto lunghi erano di solito i Pontificati. E quanto brevi i governi che dall’altra parte del Tevere si susseguivano per le loro precarie condizioni di salute politica. Alcuni dei quali nascevano o morivano appesi anche ai rosari, diciamo così, del Papa di turno.

Del Pontefice bastava un sopracciglio soltanto mormorato nei palazzi romani di pasoliniana memoria per accelerare o scongiurare una delle crisi cicliche di cui vivevano i partiti. E non solo quelli di governo, ma anche di opposizione, perché spesso fra pezzi degli uni e degli altri si intrecciavano dialoghi, manovre e persino intrighi dei quali il presidente del Consiglio di turno spesso era uno degli ultimi ad accorgersi, e finirne travolto.

La prima morte di Papa che io ricordo intrecciata in qualche modo con le cronache politiche di cui mi occupavo già da tempo fu quella di Giovanni XXIII, all’anagrafe Angelo Roncalli, avvenuta il 3 giugno 1963, dopo meno di cinque anni di Pontificato però intenso di novità, e meno di due mesi dopo le elezioni politiche ordinarie del 28 e 29 aprile. Alle quali la Dc, il partito cattolico guidato da Aldo Moro, si era presentato avendo già tracciato per la nuova legislatura il completamento del percorso del centro-sinistra, col trattino, lasciato dallo stesso Moro sperimentare da Amintore Fanfani alla guida governativa delle cosiddette “convergenze parallele”, senza spingersi ad un’alleanza “organica” con i socialisti al posto dei liberali. Che Moro si era riservata per sé.

Giovanni XXIII aveva abbastanza pubblicamente incoraggiato sia Fanfani che Moro, spintosi dal canto suo a promuovere una specie di consultazione di tutti i vescovi italiani per coprirsi, diciamo così, le spalle. Alla morte del Papa i settori ancora contrari della Dc, e ma anche di altri partiti, a quella svolta politica sperarono di trovare qualche sponda oltre Tevere con l’arrivo di un altro Pontefice. Ma Paolo VI, all’anagrafe Giovanni Battista Montini, peraltro legato da un’amicizia personale con Moro, di cui era stato negli anni giovanili anche uno dei confessori, deluse aspettative di quel senso.

Il pontificato di Paolo VI durò più di 15 anni, interrompendosi il 6 agosto 1978 per una specie di colpo di grazia inferto alle sue condizioni di salute dalla morte orrenda di Moro nelle mani delle brigate rosse. Alle quali il Papa si era inginocchiato in un pubblico messaggio per sollecitarne il rilascio, dopo il tragico sequestro compiuto il 16 marzo fra il sangue della sua scorta. E, non avendolo ottenuto, anche perché  chiesto “senza condizioni”, con una formula criticata dallo stesso Moro nel covo dove era rinchiuso ma presumibilmente concordata con l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il Papa ne celebrò la solenne messa funebre, nella Basilica di San Giovanni, prendendosela con Dio che non aveva ascoltato le sue preghiere.

Giovanni Parolo II, il papa polacco venerato come santo, sulla cui statua al Policlinico Gemelli si affacciano le stanze dove i suoi successori sono stati ricoverati al bisogno, morì nel 2005 governando Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. In difesa della cui esperienza politica dal primo momento, nel 1994, il papa “straniero” aveva lasciato carta bianca al cardinale Camillo Ruini, arrivato ad uno scontro diretto nel 1994 con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro in azione contro il primo governo Berlusconi, già pochi mesi dopo la formazione.

Papa Francesco, ancor più di Giovanni Paolo II e poi del tedesco Benedetto XVI, ha cercato di tenersi alla larga, diciamo così, dalla politica italiana, ma non abbastanza per nascondere e trattenere una simpatia ricambiata con Giorgia Meloni, la prima donna, e di destra, a Palazzo Chigi. Una simpatia della quale la sinistra italiana, o quel che ne è rimasto dopo il suicidio giustizialista di una trentina d’anni fa, ha naturalmente sofferto, sino a farsene un altro motivo di ossessione nella pratica della sua opposizione.   

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it

Quella sala del Campidoglio sognata europeisticamente dalla Meloni

Pur nella penombra, chiamiamola così, imposta dalla scomparsa di Papa Francescoalle cronache politiche italiane, dalle quali peraltro questo Pontefice aveva cercato di tenersi estraneo o lontano, come i suoi più diretti successori Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, si continua a lavorare dietro le quinte per la realizzazione dell’ambizioso progetto della premier Giorgia Meloni di fare svolgere a Roma l’incontro fra i vertici europei e il presidente americano Donald Trump.

Le opposizioni, o almeno quelle più consistenti e rumorose, riconducibili al Pd di Elly Schlein e al MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, non condividono questa prospettiva. Esse sono unite dalla convinzione che dell’Europa e dei suoi rapporti con gli Stati Uniti, su uno sfondo che ormai non è più solo quello dei dazi, essendo in gioco ben altro e di più, la sede più idonea sia quella di Bruxelles. “A casa mia”, ha aggiunto con sarcasmo Pier Luigi Bersani, come per esprimere la banalità, addirittura, di una simile precisazione.

Ma Roma non è solo la Capitale d’Italia dove ha sede il suo governo guidato dalla Meloni, come a Bruxelles la Commissione europea presieduta nel suo secondo mandato dalla tedesca Ursula von ver Leyen. Roma, dove probabilmente la stessa von der Leyen verrebbe volentieri per un vertice e una circostanza così eccezionale se proposto da un’amica com’è la Meloni, peraltro affettatasi a tenerla al corrente prima e dopo la sua recente missione alla Casa Bianca; Roma, dicevo, è la citta dove il 25 marzo 1957 furono firmati i trattati istitutivi della Comunità europea e dell’Euratom. “I trattati europei”, sono ormai definiti.

La cerimonia della firma, conclusiva di una trattativa fra i sei paesi fondatori di quella che sarebbe poi diventata l’Unione attuale di ventisette paesi, si svolse esattamente nella Sala capitolina degli Orazi e Curiazi. Il governo italiano era rappresentato dal presidente democristiano del Consiglio Antonio Segni e dal ministro liberale degli Esteri Gaetano Martino, personalmente orgoglioso di avere fatto partire i negoziati due anni prima nella sua Messina.

E’ proprio in quella sala che – con l’ospitalità anche del sindaco della città Roberto Gualtieri, non credo disposto a rinunciarvi solo per non mettere di cattivo umore la segretaria del suo partito- la Meloni, secondo indiscrezioni di buona fonte, vorrebbe fare svolgere un evento così importante in questi tempi con un vertice euro-americano.  Mentre, ripeto, si gioca non solo e non tanto la partita intestata ai dazi, ma anche o soprattutto quella di un nuovo equilibrio geopolitico dopo le carte, diciamo così, disegnata a Jalta ottant’anni fa dai vincitori della seconda guerra mondiale.

L’Europa non è più riconoscibile in quelle carte. E probabilmente non sarà neppure quella che persegue la Russia post-sovietica di Putin non solo e non tanto dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale” contro L’Ucraina, annunciata poco più di tre anni fa, ma ancora prima con l’annessione della Crimea, nel 2014.

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑