La partita un pò truccata, francamente, della missione di Vance a Roma

Giusto in tempo per Giorgia Meloni  di tornare da Washington a Roma, cambiare abito, da bianco a rosa, e ricevere a Palazzo Chigi il vice presidente americano Vance, pure lui reduce dall’incontro alla Casa Bianca fra la premier italiana e il presidente americano Trump, assistiti dai principali collaboratori. C’è qualcosa che francamente non va. Non torna nella logica del buon senso, o senso comune come Alessandro Manzoni chiamava quello di moda al momento, e quindi variabile.

Immagino che cosa si saranno detti la Meloni e Vance salutandosi alla Casa Bianca all’arrivo e alla partenza dell’ospite italiana. Semplicemente: a domani. Dio mio, perché non sono state evitata queste troppo ravvicinate missioni di Meloni a Roma e di Vance, e famiglia, in Italia? Separate solo dal fuso orario, o quasi.  

La risposta l’ha data quel sornione di Paolo Mieli, due volte direttore del Corriere della Sera e tanto altro, raccontando ieri sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber, con l’aria di chi la sa lunga, che la missione della Meloni alla Casa Bianca era stata anticipata a passo velocissimo per ridurre, con l’aiuto quindi di Trump, la portata di quella di Vance vissuta con un certo imbarazzo dalla premier per l’abilità del suo vice presidente leghista Matteo Salvini di intestarsela in qualche modo, stabilendo un rapporto diretto e sbandierato proprio con Vance. Verosimile, direi.

Contro la missione di Vance a Roma ha giocato anche l’intervento, peraltro programmato, al quale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è sottoposto nell’ospedale Santo Spirito per stabilizzare il suo cuore con un pacemaker. Per quanto dimesso rapidamente, il capo dello Stato si è risparmiato da convalescente di ricevere al Quirinale il vice presidente americano. Di cui Mattarella non aveva condiviso alcune dichiarazioni fatte sull’Europa di recente da Vance parlandone in Germania. Lo ha sottolineato -sornione, informato ed altro come Paolo Mieli dalla Gruber- l’ex segretario generale della Camera dei Deputati Mauro Zampini scrivendone sull’Alto Adige della sua Trento.

L’ossimoro del nazionalismo occidentale per aiutare l’Ucraina

Il “nazionalismo occidentale” che la premier italiana Giorgia Meloni ha tirato fuori dal metaforico uovo di Pasqua aperto alla Casa Bianca, fra l’incontro col presidente americano Donald Trump e la conferenza stampa che ne è seguita, è in natura un ossimoro. L’Occidente è lontano ancora di più dal concetto e dalla pratica della Nazione di quanto non sia l’Europa pur nell’involucro dell’Unione delle 27 Nazioni che la compongono, direbbe la Meloni per il fastidio, o quasi, che avverte parlando o sentendo parlare di Paesi. Nazioni Unite, d’altronde, è anche l’ossimoro dell’omologa, enorme organizzazione mondiale che ha sede a New York.

Ma l’ossimoro adottato dalla Meloni è funzionale alla priorità che costituisce per lei la questione ucraina. Anche rispetto ai dazi che fra minacce, annunci, sospensioni e altro hanno prevalso nella rappresentazione dei rapporti fra l’America a gestione trumpiana e il resto del mondo, oltre all’Europa.

L’Occidente anch’esso “great again”, e “più forte”, che persegue la Meloni, ben oltre gli Stati Uniti promessi da Trump ai suoi elettori, è oggi minacciato dal rischio concretissimo di una pace in Ucraina più favorevole a Putin che a Zelensky. Del quale il presidente americano ha ribadito di non essere “un fan”, senza tuttavia insultarlo, come fece direttamente, sempre alla Casa Bianca., e soprattutto senza contestarne il ruolo di “aggredito” riconosciutogli dall’ospite. Aggredito, in particolare,  dalla Russia di Putin tornata all’imperialismo zarista, dopo il fallimento di quello sovietico. 

Una Ucraina umiliata da una pace più imposta che trattata, non certo garantibile da una forza di interposizione delle Nazioni Unite, con tanto di caschi blu, vista l’esperienza del Libano e dintorni in Medio Oriente, sarebbe una spina troppo grande nel fianco europeo.  

Se ne dovranno, o dovrebbero rendersene conto prima o dopo -speriamo più prima che dopo- i vari esperti o inviati di Trump nelle aeree geografiche e politiche dove gli Stati Uniti hanno incontrato più difficoltà del previsto sulla strada non della pace ma solo di una tregua. Esperti -temo anche per le storie che ne hanno raccontato i giornali- più di affari immobiliari e finanziari che di affari politici, o addirittura geo-politici.

In questa situazione, essendo in programma, dopo l’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Meloni, un viaggio del presidente americano a Roma in cui potere inserire un incontro anche fra lui e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, come la premier italiana sembra avere proposto direttamente a Putin dietro le quinte, la questione ucraina potrebbe trovare finalmente l’occasione e la sede appropriate in cui essere trattata, diciamo pure negoziata, coniugando davvero pace e sicurezza. E mettendo un po’ d’ordine anche in un certo disordine avvertito nel vecchio continente con iniziative sovrapposte e persino concorrenti, alle quali ha partecipato anche la Meloni avvertendone e lamentandone i limiti.

Pubblicato sul Dubbio

Il Colosseo che Giuseppe Conte temeva di perdere….

Superato, per ora, solo da Nicola Fratoianni, al quale il bianco dell’abito indossato nell’occasione da Giorgia Meloni ha ispirato addirittura l’accusa di essere andata e arrivata alla Casa Bianca per fare “la cameriera” del presidente americano, Giuseppe Conte sul fronte delle opposizioni si è improvvisato questa volta arbitro, addirittura. Ed ha assegnato la vittoria della partita con due a zero a favore di Donald Trump. Il vecchio amico Trump, che nel 2019, anche allora alla Casa Bianca, pluralizzandone generosamente il nome, da Giuseppe a Giuseppi, lo aiutò a modo suo a restare a Palazzo Chigi, a Roma, pur cambiando, anzi rovesciando la maggioranza. Col Pd di Nicola Zingaretti, spinto da Matteo Renzi ancora domiciliato politicamente al Nazareno, al posto della Lega di Matteo Salvini. Il cui errore principale fu quello di avere preso sul serio Zingaretti, che si era impegnato fuori e dentro il suo partito a non muoversi dall’opposizione, nei rapporti con Conte, senza passare per le elezioni.

I debiti si pagano, diciamo così. E Conte ha pagato il suo assegnando appunto con un netto risultato la vittoria a Trump nella partita con la Meloni. Che tuttavia non è andata alla Casa Bianca per segnare alla porta del presidente, e in qualche modo ammiratore, americano ma semplicemente e più costruttivamente per preparare altre partite. Soprattutto quella fra lo stesso Trump e l’Unione Europea, magari con un incontro, a Roma o dintorni, fra il presidente degli Stati Uniti e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Dove penso -ad occhio e croce, magari sbagliando, ma spero di no- più ancora dei dazi, pur con tutta l’importanza che hanno, per carità, si possa parlare dell’Ucraina. E del rischio che corre di dovere subire una pace utile più all’imperialismo zarista, o post-sovietica, della Russia di Putin che alla sicurezza dell’Europa. E, più in generale, dell’Occidente che Meloni si è augurata alla Casa Bianca “grande di nuovo” -come Trump si è proposto di fare soprattutto per gli Stati Uniti- e “più forte”.

Sicuro com’è di essere anche spiritoso, oltre che ambizioso, pure di tornare a Palazzo Chigi dove ritiene ancor di essere stato tradito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella mandando al suo posto Mario Draghi; sicuro, dicevo, com’è di essere anche spiritoso, Conte ha riconosciuto alla Meloni solo i merito avere evitato alla Casa Bianca di vendere “un pezzo del Colosseo” a Trump. Magari per lasciarlo tutto in intero a disposizione del presidente del MoVimento 5 Stelle, o di ciò che ne rimane, per altri raduni e comizi contro il governo in carica. Come quelli svoltisi il 5 aprile scorso.

In fondo la politica è fatta anche di qualche piccola soddisfazione, diciamo così, come quella presasi da Conte, appunto, tornando dalle parti del Colosseo non per andare a trovare Beppe Grillo, quando era ancora il garante e insieme fondatore del movimento pentastellato, e riceveva i suoi ospiti in un albergo con vista sui fori imperiali, ma per prenotare da solo e direttamente questa volta Palazzo Chigi, se e quando dovessero riuscire quelli che allo stato delle cose, per ammissione di alcuni anche nel Pd, sono solo i miracoli attesi da un fronte unitario di alternativa al centrodestra e di una sua vittoria in elezioni politiche, anticipate o ordinarie.

Poi, si sa, dal Colosseo alla sede della Presidenza del Consiglio si può anche correre a piedi, senza neppure la macchina, magari sognando anche la soddisfazione di passare davanti alla Meloni che chiede l’elemosina sotto  il balcone fatidico dell’altrettanto fatidico Palazzo Venezia. 

Un sogno, questo, che fa il paio con quello di Stefano Rolli che in una vignetta sul Secolo XIX ha fatto di un corrucciato e riconoscibilissimo Conte, al singolare, che vede e ascolta corrucciatissimo in televisione un Trump che moltiplica questa volta il nome della Meloni: Giorgi…

Pubblicato su Libero

Blog su WordPress.com.

Su ↑