L’autorete diagnostica di quel “narcisista patologico”

Quel “narcisista patologico” dato al presidente americano Donald Trump già nel titolo della puntata di ieri di Otto e mezzo su la 7 –a conduzione della solita Lilli Gruber col supporto scientifico della psicanalista Claudia Spadazzi, letterario di un ex magistrato, e scrittore di successo dopo una certa esperienza politica a sinistra, e di un giornalista di casa in quel salotto- è stato un assist, spero involontario,  al paziente. O imputato. Ne ha infatti limitato le responsabilità, volendone giudicare le sue decisioni alla Casa Bianca, per l’incidenza di una sua precaria salute mentale nell’azione alquanto contestata  di presidente, per giunta di seconda elezione, degli Stati Uniti.

E’ sempre un errore, sia di analisi sia di lotta politica, scambiare un fenomeno politico appunto -come ha il diritto di essere considerato un presidente eletto in libere elezioni, con tanto di candidati contrapposti e con un risultato non controverso, riconosciuto per primo dallo sconfitto, nel nostro caso una donna- per un fenomeno patologico, da corsia di ospedale. O quasi, visto che come ospedali i manicomi, nel bene e nel male, in Italia sono stati a suo tempo aboliti.

Anche il segretario della Dc Ciriaco De Mita, negli ormai lontani anni Ottanta del secolo scorso, dopo avere dovuto subire come effetto di uno sfortunato passaggio elettorale personale e del suo partito l’arrivo a Palazzo Chigi del suo più scomodo alleato, che era il leader socialista Bettino Craxi, cercò di liberarsene anzitempo dandogli praticamente del malato, oltre che dell’inaffidabile. O dell’inaffidabile perché malato. E facendo risalire i suoi presunti disturbi di comportamento e quant’altro al diabete. Gli capitò anche di succedergli nel 1988 ma durando solo un annetto, contro i quattro dell’altro.  

A cose fatte, e a tragedie politiche di entrambi consumate, in tutti i sensi per Craxi sepolto ad Hammamet, contestai quella circostanza a De Mita, ormai confinatosi nella sua ridotta quasi romantica di sindaco di Nusco. Fu l’unica volta, nel nostro lungo rapporto insieme amichevole e polemico, in cui egli mi diede onestamente ragione.

Le scuse che Giorgia Meloni si meriterebbe alla Casa Bianca da Trump

Lo stile, chiamiamolo così, impresso da Donald Trump alla sua seconda presidenza americana, ancora più spavaldo e ruvido della prima, fa escludere che egli si sia scusato con quella “formidabile” amica che pure è  la premier italiana Giorgia Meloni per averla infilata di fatto tra quelli che hanno già bussato, bussano e busseranno alla sua porta, alla Casa Bianca e dintorni, per baciargli i glutei. Come Massimo Gramellini sul Corriere della Sera ha tradotto al plurale scultoreo quello che volgarmente e al singolare Trump ha evocato parlando del suo deretano. Che pure Dante nella sua Divina Commedia vagando nell’Inferno e scrivendone in versi chiamò “cul fatto trombetta” del diavolo Barbariccia.

Alla Meloni, si sa, salvo improbabili rinunce o rinvii dell’interessata, Trump ha dato appuntamento per giovedì 17 aprile  per parlare anche dei dazi americani disposti sui paesi europei, Italia compresa, per quanto sospesi per 90 giorni fra il sollievo delle borse, almeno quelle continentali. 

Ormai Trump è diventato incontenibile ai danni dei suoi amici, veri o presunti, e anche di certi avversari, ugualmente veri o presunti. Veri, per esempio, come i cinesi o presunti, per consuetudine, come i russi, col cui presidente Putin egli vorrebbe ridefinire confini ed equilibri in occasione, o col pretesto, di una pace in Ucraina dopo più di tre anni di guerra.   

Della Meloni, per quanto in dissenso dichiarato dalla gestione dei dazi, non si può francamente dubitare che sia amica o persino “familiare” di Trump, data la comune e ostentata appartenenza alla famiglia, appunto, internazionale dei conservatori. O della conservazione di cui, al pari tuttavia della sinistra, del progressismo, compresa la variante “indipendente” di Giuseppe Conte, e simili, si può dire come della Libertà o della Patria, al maiuscolo. Nel cui nome è impossibile contare quanti delitti siano stati commessi.

Può essere un paradosso, come tanti altri che solo la politica riesce a produrre con abbondanza, la difficoltà in cui Trump. o più in generale, il trumpismo procura a chi vi si ispira o vi si riconosce. Ma è un paradosso anche la difficoltà degli avversari di Trump e del trumpismo di trarre profitto da questa situazione. Ne è testimonianza la rappresentazione appena fatta del Pd sulla Stampa da Marco Follini, che pure vi è passato nella sua esperienza post-democristiana.

Diviso anch’esso, come il complesso del cosiddetto “campo largo” del progetto di alternativa al centrodestra, sulle opzioni della politica estera e di difesa, il Pd è stato appena descritto nella “palude dell’imbarazzo” da Follini.  “L’ampiezza della base politico-ideologica del Pd, come si sarebbe detto un tempo, finisce per essere più un problema che una risorsa. Questione -ha osservato Follini- che risale alle origini, quando il partito nacque dall’intento di unificare sotto le sue bandiere le grandi correnti di pensiero del dopoguerra. E che ora però si affaccia su un mondo che non è più quello di allora”.

Pubblicato sul Dubbio

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