Al netto delle guerre che l’uno deplora ogni volta che ne ha l’occasione e l’altro ha inutilmente promesso di fare terminare, conducendone peraltro una sua a livello commerciale, due uomini abbastanza avanti negli anni, di 88 l’uno e 79 l’altro, si contendono l’attenzione del mondo. L’uno è il Papa, che si fa chiamare Francesco, l’altro è il presidente americano Donald Trump, che ostenta la sua firma come un’ostia davanti alle telecamere.
Il primo già era riuscito a superare il secondo nei giorni del lungo ricovero in ospedale, a Roma, mentre l’altro giocava ancora a parole con i dazi annunciandone e infine ordinandone gli aumenti. Tutti pregavano per Francesco, sotto le sue finestre, a San Pietro e ovunque nel mondo dove è ancora permesso di andare in chiesa senza rischiare la morte o il carcere, perché accade anche questo, non dimentichiamolo, in questo terzo millennio, o secondo dopo Cristo.
Ma ancora più clamorosamente ed efficacemente, senza sprecare una sola parola, e lasciare la sua carrozzina, il Papa ha surclassato Trump, ancora intento a vantarsi dei suoi glutei offerti al bacio del mondo, con quei simpatici, rivoluzionari pantaloni neri e poncho chiaro indossati al posto della tunica bianca di ordinanza.
Sarà pure il “treno” al quale lo ha paragonato con ammirazione e generosità Flavio Briatore, che difficilmente peraltro me prende uno per spostarsi fra residenze e affari, ma Trump mi sembra sceso al minimo livello della popolarità cui dovrebbe aspirare un politico. Anche i suoi elettori negli Stati Uniti lo stanno abbandonando, visto che continuano a perdere i loro risparmi in borsa pure dopo la ritirata dei 90 giorni di sospensione dei nuovi dazi che hanno invece ridato fiato e denari alle borse europee. E un treno, quello di Trump, destinato forse più al deragliamento che ad altro. Buon viaggio, mister president. E ben tornata, Sua Santità.