La prima vittima del Ponte di Messina è il magistrato Michele Prestipino

         In attesa del Conclave, o degli sviluppi del “Conclaviccio”, come Il Foglio definisce felicemente il chiacchiericcio -fa pure rima- che ne sta precedendo l’apertura fra indiscrezioni e previsioni, registriamo la prima vittima del Ponte. Non quello delle feste di questo fine mese fortunato per i vacanzieri, ma quello sullo stretto di Messina. Che è finito sotto l’attenzione della magistratura prima ancora di essere costruito davvero, e non solo nella fantasia di Matteo Salvini nella triplice veste di leader della Lega una volta del Nord, di ministro delle Infrastrutture -ex Lavori Pubblici, Trasporti e Marina Mercantile- e vice presidente del Consiglio.

         La prima vittima, pur fisicamente indenne, del Ponte è l’ancora procuratore aggiunto, cioè vice capo, della Direzione Nazionale Amtimafia e Antiterrorismo Michele Prestipino. Che, intercettato indirettamente il primo aprile scorso in un ristorante romano, è finito indagato dalla Procura di Caltanisetta per rivelazione di segreto d’ufficio aggravata dall’agevolazione mafiosa. Indagato a Caltanisetta e ridimensionato a Roma dal suo superiore Giovanni Melillo.

          Notissimo per gli incarichi di rilievo coperti a suo tempo anche alla Procura di Roma, Prestipino è caduto metaforicamente dal Ponte parlando a tavola con l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, in compagnia del consulente Francesco Gratteri, senza sospettare -sorpresa nella sorpresa- che il suo interlocutore fosse intercettato per vecchie vicende di mafia. Riguardanti, in particolare, i depistaggi nelle indagini sull’assassinio di Paolo Borsellino, nel 1992.

         Ora occupato di altro, come la costruzione del Ponte in qualità di presidente del Consorzio che dovrà provvedervi, De Gennaro aveva evidentemente conservato nella immaginazione di Prestipino la potenza dei suoi anni in carriera. Quando era capitato al mio amico Filippo Mancuso, fresco ancora di esperienza difficile, diciamo così, di ministro della Giustizia, di sentirsi interrompere da un guasto tecnico di trasmissione televisiva mentre in un teatro, ospite di un convegno, cominciò a parlare criticamente appunto di De Gennaro.

 Ricordo ancora bene lo sgomento di Mancuso quando mi raccontò personalmente l’accaduto, collegandolo peraltro alla volta in cui da ministro aveva ricevuto nel suo ufficio lo stesso De Gennaro. Egli aveva dovuto lasciarlo solo ad un certo punto per rispondere ad una telefonata nella stanza attigua della segretaria. Al ritorno aveva trovato l’ospite accovacciato sotto la scrivania ministeriale alla ricerca di una penna che gli era caduta, come lo stesso De Gennaro gli aveva subito spiegato, vedendolo sorpreso.  

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La lunga e irriverente vigilia del Conclave per la successione a Francesco

         Il Conclave per l’elezione del successore di Papa Francesco comincerà dunque il 7 maggio. Ma prima che esso si apra chiudendo i cardinali elettori nella Cappella Sistina, cronisti e retroscenisti hanno cominciato a farcelo capire, immaginare, scrutare inseguendone gli attori e raccontandoli nelle loro abitudini a scapito della riservatezza alla quale avrebbero diritto. Li inseguono per le strade, le piazze, i bar, i ristoranti, i negozi   riuscendo anche a strappare racconti più o meno intriganti. Come quello sul cardinale che non riesce a trovare un collega col quale giocare a carte. O quello sul cardinale che ne trova e ne raccoglie numerosi nella sua stanza d’albergo ma per svuotare il frigo di vini e liquori. E sorprendersi poi del costo delle consumazioni che pensava gratuite, o comprensive della tariffa della stanza o appartamentino.

         A rischio di blasfemia, ma provvisto di quella ironia che Papa Francesco soleva raccomandare ai suoi ospiti, compresa la premier italiana Giorgia Meloni che ha voluto raccontarlo, mi sono chiesto se lo Spirito Santo, cui da fedeli siamo stati abituati a pensare come al protagonista vero del Conclave, riuscirà davvero a svolgere il suo ruolo di “influencer”, come Matteo Renzi ha scritto proprio della Meloni nel libro che sta presentando e vendendo in questi giorni.

         Scherzi a parte, tuttavia, e sempre a rischio di blasfemia come credente, non riesco a capire perché dagli elettori del Papa debbano essere esclusi i cardinali al compimento dei loro ottantant’anni. Che non li privano della lucidità necessaria a una celebrazione del Papa defunto, come quella fatta dal decano del Sacro Collegio Giovanni Battista Re sul sagrato della Basilica di San Pietro davanti alla bara di Francesco, ma del diritto di voto sì per l’elezione del nuovo Pontefice.

         Sì, d’accordo, il Conclave non è un corpo elettorale come quello di cui noi ultraottantenni continuiamo a fare parte laicamente per rinnovare le Camere alle loro scadenze, ordinarie o anticipate che siano. E non è neppure il collegio elettorale che diventa il Parlamento in seduta congiunta, più una delegazione di consiglieri regionali, per la scelta del presidente della Repubblica. Il Conclave è appunto il Conclave. Ma questa storia degli ottantenni che perdono l’elettorato attivo, come si direbbe in gergo giuridico, non mi convince. E non solo per la conoscenza che ho personalmente del già ricordato cardinale Re. O, per esempio, dei cardinali Angelo Bagnasco, Tarcisio Bertone e Camillo Ruini, in odine rigorosamente alfabetico.

         Sì, lo so, a questo punto vi aspetterete qualche parola anche sul caso, di casa sulle prime pagine dei giornali, del cardinale sardo Becciu, Angelo di nome ma diavolo di fatto per una vicenda giudiziaria ancora aperta. Ma me ne astengo per il trauma che mi ha procurato la scoperta che i magistrati, pure quelli d’oltre Tevere, possono interferire con un Conclave.

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La segretaria del Pd dice no in altre parole al congresso anticipato

Dopo averne lasciato scrivere per giorni fra cronache e retroscena la segretaria del Pd Elly Schlein ha sgranato gli occhi quando, ospite del salotto televisivo delle “altre parole” di Massimo Gramellini, si è sentita chiedere di confermare il progetto, la tentazione e quant’altro di un congresso del suo partito anticipato all’anno prossimo. Sarebbe quello straordinario proposto nei mesi scorsi da Luigi Zanda, tra i fondatori del Pd, già capogruppo al Senato, tesoriere e per niente defilatosi come ex parlamentare dal dibattito mediatico. Al quale egli è ben lieto di partecipare ogni volta, o quasi, che gliene offrono l’occasione i giornali, come quando appunto lamentò l’assenza di una chiara linea di politica estera al Nazareno e chiese di definirla nel modo più chiaro e vincolante possibile come sarebbe un congresso.

         Lì per lì la segretaria del partito, peraltro spiazzata -a dir poco- dagli europarlamentari piddini divisisi nella votazione a Strasburgo sul piano di “riarmo” -si chiamava ancora così- proposto dalla commissione di Bruxelles presieduta da Ursula von der Leyen, si mostrò imbarazzata dalla sortita di Zanda e dall’interesse suscitato. Poi si lasciò tentare dalla sfida anche direttamente, e non solo attraverso dichiarazioni o sussurri del suo cerchio magico. Di cui ogni segretario di partito o leader dispone già dai tempi della cosiddetta prima Repubblica, senza bisogno di copiare la buonanima di Silvio Berlusconi nella seconda e successive.

         Lo statuto del Pd però prevede per congressi non ordinari le dimissioni vere, non finte e formali, del segretario di turno per sostituirlo con uno di garanzia. Quando i poco esperti evidentemente della materia se ne resero conto gli umori e le disponibilità della segretaria sembrarono cambiare. Ma per poco, perché si è poi tornati a leggerne sui giornali. Sino a quando, appunto, Elly Schlein non ha deciso, o preferito, chiudere la porta allo scenario di un congresso straordinario a doppia mandata, o quasi. Ricordando a   Granellini le scadenze più urgenti  del Pd nell’anno in corso e in quello successivo, tra referendum ed elezioni locali. Nelle  e con le quali la segreteria del Nazareno vorrebbe costruire l’alternativa al centrodestra a sua personale trazione. E ciò per quanto dall’interno del suo stesso partito si siano recentemente levate voci anche di una certa autorevolezza sulla improbabilità di una simile trazione nel quadro di incertezza, se non di confusione, in cui la segretaria è costretta a muoversi sul terreno della politica estera e, a questo punto, anche della difesa.

         Nel prendersi tutto il tempo che vorrebbe per coltivare il suo ambizioso progetto la Schlein ha mostrato nel salotto televisivo di Granellini di non temere le difficoltà che altri invece hanno intravisto nell’ultimo sondaggio della Ipsos di Nando Pagnoncelli pubblicato sul Corriere della Sera. Da cui risulta che da gennaio ad aprile il Pd è sceso dell’1,7 per cento dei voti e il MoVimento 5 Stelle ormai di Giuseppe Conte è aumentato dell’1,4.

Pubblicato sul Dubbio

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La doccia gelata di Putin sull’Ucraina e su Trump

         L’Amleto del Cremlino, come merita forse di essere chiamato Putin, si è smentito in poche ore. Ha smentito, in particolare, una certa disponibilità fatta annunciare dal suo portavoce a trattare anche direttamente con Zelensky una pace in Ucraina, scommettendo forse sulla ragione, a suo avviso, alla quale il presidente ucraino poteva essere stato ridotto da Trump nell’incontro nella Basilica di San Pietro. Che aveva rubato la scena ai funerali di Papa Francesco.

         L’Amleto, ripeto, del Cremlino non solo ha ripreso o continuato la sua “operazione speciale”, cominciata più di tre anni fa per la “denazificazione” addirittura dell’Ucraina. Ma fra gli obiettivi dei suoi droni e delle sue truppe ha incluso Sumy. Non bastandogli evidentemente la strage nella città ucraina ormai nota come quella della domenica delle Palme. Di fronte alla quale anche Trump alla Casa Bianca aveva perso la pazienza e cominciato a dubitare delle troppe aperture e concessioni fatte a Putin nei primi novanta giorni della sua seconda permanenza alla Casa Bianca, sino ad assegnargli il ruolo dell’aggredito, e non dell’aggressore. E ciò dopo avergli concesso anche il famoso strapazzo a Zelenshy in diretta televisiva da Washington.

         Sul Corriere della Sera Paolo Mieli si è posto oggi qualche domanda, di fronte all’improntitudine feroce di Putin, sulle ragioni della “gran fretta” avuta da Trump di lasciare sabato scorso Roma, dove pure era riuscito -ripeto- a rubare la scena ai funerali del Papa e a proporsi come un protagonista assoluto. Ed ha espresso il timore, se non già la convinzione, il mio amico Paolo, di dovere ricordare “come il giorno della grande illusione” quello vissuto sabato scorso anche da lui. Che era corso di sera in uno dei salotti televisivi che lo ospitano come a casa annunciando di avere “personalmente” verificato dalle sue postazioni elettroniche di informazione che in Ucraina non c’erano state in giornata azioni di guerra. Evidentemente si stavano solo programmando.

Trump contende la scena a un Francesco compiaciuto nella sua nuova luce

Donald Trump, lontanissimo- a dir poco- da un Papa che potrebbe diventare da Santo il più aggiornato protettore dei migranti, è riuscito non dico a rubare ma quanto meno a contendere la scena a Francesco e ai suoi funerali, sui quali è piombato come l’aquila dello stemma degli Stati Uniti in una missione lampo a Roma. Ma mai furto, scippo e simili nella storia è stato probabilmente tanto gradito dalla vittima. Esso è stato forse il primo miracolo di Francesco. Che ha lasciato da morto ieri  lun angolo della Basilica di San Pietro, prima di essere tumulato nella Basilica di Santa Maria Maggiore da lui preferita alla protezione delle mura del Vaticano, a disposizione di incontri  -fra lo stesso Trump e Zelensky, ma per un attimo anche col presidente francese Macron e il primo ministro inglese Starmer- che potrebbero rivelarsi decisivi per la pace finalmente nella “martoriata Ucraina”, Come il compianto Pontefice diceva sempre di quel  paese senza mai parlare di una martoriata Russia, per quanto avesse lamentato anche lui, come Putin, l’”abbaiare” della Nato ai suoi confini.

Quella foto di Trump e Zelensky seduti uno di fronte all’altro a San Pietro dopo lo scontro clamoroso avuto alla Casa Bianca in diretta televisiva, e già ridimensionato da successive interlocuzioni a distanza fra i due, riduce obiettivamente gli spazi di manovra di Putin. Che può certamente continuare a boicottare la pace, come anche Trump ha cominciato a rimproverargli dopo averne disinvoltamente rovesciato il ruolo da aggressore ad aggredito. Ma gli sarà a questo punto più difficile prolungare una guerra durata già troppo rispetto ai cinque o quindici giorni previsti della cosiddetta “operazione speciale”, cominciata più di tre anni fa con l’obbiettivo di ammazzare o mettere in fuga Zelensky e di prendersi tutta l’Ucraina per “denazificarla”, come annunciò l’uomo del Cremlino.

Ne è passata di acqua da quei giorni. Anche per Zelensky certo, se avesse davvero pensato di riprendersi la Crimea e qualcosa d’altro. Ma ne è passata ancora di più per Putin considerando il sostegno che Zelensky ha continuato ad avere dall’Europa anche nella crisi intervenuta, dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca, nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Un sostegno, quello europeo, che porta il segno pure  di Giorgia Meloni in un ruolo di tessitrice che ne ha rafforzato il prestigio internazionale, per quanto negato, contestato, indigesto agli avversari “sempre in Resistenza”  contro di Lei, direbbero forse compiaciuti avvolgendosi con la solita disinvoltura nelle parole e nelle celebrazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

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La morte di Alberto Franceschini, il comunista tra i fondatori delle brigate rosse

Fra tutti, e i maggiori esponenti delle brigate rosse, di cui era stato uno dei fondatori, Alberto Franceschini è riuscito ad essere il più emblematico e insieme anche il più misterioso. Persino nei tempi e nelle circostanze della morte. Avvenuta l’11 aprile, all’età di 78 anni, e appresa nel giorno più difficile, diciamo così, in cui conquistarsi un’attenzione adeguata al  sinistro ruolo avuto dall’interessato nella storia del terrorismo italiano: il giorno dei funerali di Papa Francesco.

         Libero dal 1992, e refrattario al palcoscenico nella sua recuperata libertà dopo avere scontato le condanne procuratesi da terrorista, Franceschini conosceva paradossalmente delle brigate rosse più segreti del fondatore più famoso, che è l’ultraottantenne Renato Curcio, e del protagonista dell’operazione più clamorosa -e alla fine suicida- compiuta da quell’organizzazione armata. Mi riferisco naturalmente a Mario Moretti, di un anno meno anziano di Franceschini, e al sequestro di Aldo Moro, la mattina del 16 marzo 1978 fra il sangue della sua scorta, in via Fani, a Roma, in quella che fu definita una mattanza da una terrorista che vi aveva partecipato.

Il sequestro si concluse 55 giorni dopo con l’uccisione dell’ostaggio nel bagagliaio di un’auto parcheggiata nel palazzo dove era finito prigioniero. E dove le forze dell’ordine avevano peraltro individuato il covo, pronte all’assalto ad un comando che mai arrivò non si saprà mai se e per quale preciso motivo, di buona o cattiva fede che fosse.

         Certo è che i terroristi sapevano di essere stati scoperti e accelerarono l’esecuzione della loro sentenza di morte per sfuggire contemporaneamente all’assalto e ad una crisi del loro vertice per la grazia che l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone si accingeva a concedere alla terrorista detenuta Paola Besuschio, Che era stata scelta dal Quirinale fra i tredici con i quali le brigate rosse avevano reclamato lo scambio con Moro.

  Forse al corrente, il prigioniero ebbe l’illusione, confessata nella sua lettera d’addio alla moglie, di poter essere liberato. Leone, dal canto suo, ad esecuzione di Moro avvenuta, quel tentativo di grazia costò l’interruzione del suo mandato presidenziale per le dimissioni impostegli dai suoi colleghi di partito democristiani e dal Pci di Enrico Berlinguer. Dimissioni motivate ipocritamente con ragioni moralistiche, cavalcando voci e notizie di natura giudiziaria. Una vergogna autentica, di cui poi raccolsi personalmente una sola confessione: quella di Giovanni Galloni. In tempo, per fortuna, per rivelarla all’ormai ex presidente.

         Franceschini, di formazione e provenienza comunista, era già stato arrestato da quattro anni all’epoca del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. Era finito in carcere per il sequestro del giudice Mario Sossi e altro. Ma nel suo percorso di dissociazione premiato giudiziariamente egli avrebbe aiutato a intravedere, capire lo zampino, quanto meno, avuto dai servizi segreti forse già nella nascita, sicuramente nella crescita delle brigate rosse arrivate a sfiorare il successo finale, con la sconfitta dello Stato. Un obbiettivo paradossalmente fallito solo grazie a quello riuscito contro il presidente della Dc.   

         Sarebbero state le brigate rosse a finire sconfitte, per quanto si fossero illuse tenendo lo Stato sotto scacco per 55 giorni e uccidendo anche Moro, dopo averne sterminato la scorta. Franceschini dal carcere aveva capito come sarebbe finita davvero. E per fortuna. Il diavolo, si sa, fa le pentole senza  coperchi, per quanto quello dello zampino dei servizi segreti sulla pentola delle brigate rosse qualche altro diavolo sia riuscito metterlo.

Pubblicato su Libero

Fra l’addio e l’arrivederci di fede a Papa Francesco

         Con quel velo di seta bianca calatogli sul volto, la bara chiusa per sempre, i funerali a San Pietro e la tumulazione a Santa Maria Maggiore, da lui preferita al Vaticano, dove già all’appartamento pontificio aveva preferito in vita il rifugio da passeggero a Santa Marta, si può considerare davvero conclusa in questo venerdì dopo Pasqua l’avventura, missione e quant’altro di Jorge Bergoglio in terra. Dalla “fine del mondo” da cui dichiarò, appena eletto al Soglio pontificio, di sentire di essere arrivato, alla Roma della centralità cristiana. Addio davvero, Papa Francesco. O, per chi ha la fortuna della sua fede, arrivederci nelle misteriose dimensioni e luci dell’aldilà.

         Per quanto ci sia abituato da tempo per mestiere, diciamo così, e pur nell’attesa sempre avvincente dell’arrivo del nuovo Papa, e di come deciderà di chiamarsi dopo l’elezione, avverto un disagio maggiore del solito in una giornata come questa a registrare, scrutare, interpretare e quant’altro la quotidiana cronaca politica. Che sarei tentato di definire “di bassa intensità”, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha appena detto della democrazia, minacciata a tal punto evidentemente ch’egli ha proposto la formula della Resistenza continua, celebrando a Genova quella conclusasi 80 anni fa con la liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista.

         Una Resistenza, quella conclusasi nel 1945, ben 32 anni prima che lei nascesse, alla quale la premier Giorgia Meloni ha riconosciuto il merito di avere ristabilito “valori negati dal fascismo”. Finalmente, ha osato commentare da sinistra l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Che, per quanto “parolaio rosso”, come lo definiva l’impietoso Gianpaolo Pansa, ha sottovalutato la sua stessa parte politica. Dove si è continuato e si continua a rimproverare alla Meloni la mancanza del coraggio di definirsi “antifascista”. Come si chiede ormai in Italia di proclamarsi a chiunque aspiri a qualcosa di superiore, per esempio, al bidello o al giardiniere di una scuola provvista appunto di un giardino, o solo di qualche aiuola.  Pure all’ultima edizione del festival canoro di Sanremo è stato chiesto al conduttore e altro ancora di chiarire preliminarmente la sua posizione di fronte al fascismo e all’antifascismo.

         Persino il compianto Papa Francesco fu sospettato dai ricercatori antifascisti di essere un po’ troppo fascista quando si lamentò con i vescovi italiani della “troppa frociaggine” da lui avvertita nei seminari.

         Addio, ripeto, Francesco. O arrivederci.

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La “sobria” celebrazione della festa della Liberazione al Senato

         Il presidente del Senato Ignazio La Russa avrà pure sbagliato, per carità, a tentare di celebrare seduto sul suo scranno nell’aula di Palazzo Madama parlando della festa della Liberazione, al maiuscolo. E interpretando a suo modo la “sobrietà” di questo 25 aprile raccomandata dal ministro della Protezione civile nella coincidenza col lutto nazionale proclamato per la morte di Papa Francesco, sino a procurarsi le proteste che ne sono seguite.

         Ma ancora più sobrio, diciamo così, del discorso del presidente seduto del Senato è stato lo spettacolo, impietosamente documentato dalle fotografie, di un’aula a ranghi così ridotti da potere essere definita vuota, o quasi.

         Prima di prendersela col presidente dell’assemblea, i pochi, pochissimi senatori accorsi alla celebrazione avrebbero dovuto prendersela con loro stessi per non avere saputo convincere gli onorevoli, anzi onorevolissimi colleghi a rinunciare al ponte, più ancora che alla festa della Liberazione, sempre e doverosamente al maiuscolo.

L’occasione offerta a Trump da Papa Francesco con i suoi funerali

         Per quanto lo avesse poco, anzi per niente apprezzato in vita, prendendone corrucciato le distanze anche fisiche  nell’udienza che dovette concedergli in Vaticano dopo la prima elezione alla Casa Bianca, Papa Francesco morendo nell’attuale congiuntura internazionale ha offerto con i suoi funerali al presidente americano Donald Trump un’occasione non dico di riscatto ma almeno di riduzione dei danni della sua politica. Speriamo, cristianamente, ch’egli ne voglia, ne sappia e riesca ad approfittarne con gli incontri che sembra essersi proposto di avere, addirittura “con tutti”, in occasione appunto dei funerali di Francesco. E si sottragga quindi alla tentazione di usare invece anche questa occasione offertagli dal Papa ormai tornato alla casa del Padre per riproporsi nei panni spavaldi ai quali ha abituato il mondo.

         Un’altra occasione di riscatto o di riduzione dei danni è stata offerta da Trump, in questi giorni e in queste ore, paradossalmente da Putin con le stragi che continua a compiere in Ucraina. E che neanche il presidente americano può ormai giustificare, pur avendo concesso all’uomo del Cremlino -nella illusione di predisporlo finalmente alla pace- il rovesciamento dei ruoli nella guerra in corso da più di tre anni con la formula di una “operazione” speciale.

Da aggressore, in particolare, Trump ha dato a Putin dell’aggredito. Così come la buonanima di Francesco gli aveva concesso l’attenuante, la giustificazione e quant’altro della Nato che  da tempo “abbaiava” alla Russia aprendosi all’Ucraina. Il cane atlantico abbaiava ma Putin mordeva. E ha continuato a mordere anche nelle trenta ore di tregua annunciate per la Pasqua una volta tanto comune nella data per ortodossi e cattolici.

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Quel rapporto speciale di Papa Francesco con Giorgia Meloni

Non ho dubbio alcuno, scrivendone peraltro in un giornale che me lo consentirebbe col nome che porta nella testata, sull’interesse politico che può avere avuto la premier Giorgia Meloni a ricordare e sottolineare il rapporto particolare e personale avuto con Papa Francesco, anche commemorandolo a Montecitorio, a Camere riunite insieme. Ma è stato un rapporto reale, non costruito artificialmente, con retroscena, allusioni e quant’altro che il Papa d’altronde non avrebbe tollerato, tanto era spontaneo e diretto il suo umore. Un rapporto a prova di ogni foto e vignetta.

         Impressionante è vedere quel viso inconfondibilmente corrucciato di Francesco nella foto, riproposta in questi giorni, del suo incontro con Trump, consorte e figlia in Vaticano all’epoca della sua prima presidenza degli Stati Uniti.  Un viso contrapposto al sorriso sfacciato, come al solito, dell’ospite che davvero col Papa non aveva nulla da spartire. E ancor meno ne ha avuto tornando qualche mese fa alla Casa Bianca.

         Qualche dubbio invece me lo permetto sul diritto, personale e politico insieme, che la segretaria del Pd Elly Schlein -per parlare della maggiore esponente dello schieramento di opposizione- si è arrogata di dare dell’ipocrita alla Meloni, come premier e come fedele essendo l’una e l’altra, per la sua devozione al Papa scomparso. E per la gratitudine espressa per i consigli ricevuti da lui, fra i quali il più prezioso – e non so francamente se e quanto sarà ascoltato- di non perdere il senso dell’ironia nell’affrontare quel verminaio che riesce ad essere troppo spesso la politica. Per non evocare altro, come face una volta, in senso anche autocritico, l’allora ministro socialista Rino Formica.

         Quel diritto arrogatosi dalla Schlein di certificare sostanzialmente lo stato di fede o di infedeltà, di virtù o di peccato, della sua avversaria politica è in fondo offensivo anche per la figura e la memoria del Papa. Quasi denunciandone e lamentandone l’accondiscendenza avuta in vita nei rapporti con la premier italiana.

         Un esempio, al contrario, di correttezza nell’esercizio della politica lo appena dato il novantenne fresco di compleanno Gennaro Acquaviva parlando della Meloni. Alla quale “la fortuna” non solo personale ma dell’Italia -ha detto in una intervista al Riformista- ha concesso di partecipare alla “centralità” ritrovata da Roma nei e con i funerali del Papa. Di un Papa come Francesco e in un una congiuntura internazionale come questa, fra tanti “pezzi” di guerra   mondiale in corso, per ripetere un termine che adoperava di frequente Jorge Maria Bergoglio, all’anagrafe argentina. 

         Gennaro Acquaviva –“il mio monsignore” diceva di lui  con ironica simpatia e amicizia Bettino Craxi, sempre grato dell’aiuto ricevutone su entrambe le rive del Tevere, fra Palazzo Chigi e il Vaticano, nella storica revisione del Concordato- ha colto un elemento, una circostanza, una occasione che solo in una visione velenosamente partigiana della politica si può negare. O solo ignorare.

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