Carlo Nordio batte le opposizioni alla Camera e le ammonisce

Più del risultato, scontatissimo, della votazione di sfiducia promossa alla Camera dalle opposizioni, neppure tutte, contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio – prevalso con 215 voti contro 119, una cinquantina in meno della maggioranza che sarebbe stata necessaria per bocciarlo- vale forse quella specie di massimario che il guardasigilli ha dispensato nel discorso col quale si è difeso.

Carlo Nordio alla Camera

“La spada della giustizia -ha detto- è senza impugnatura” per cui ferisce anche “chi la usa in modo improprio”: per esempio, cercando di “giurisdizionalizzare qualsiasi scontro politico”. Come quello consumatosi attorno alla vicenda del generale libico Almasri, raggiunto da un mandato di cattura della Corte penale internazionale mentre era in Italia, dopo avere girato libero per mezza Europa, liberato non dal ministro ma dalla magistratura ordinaria esaminando gli atti e rimpatriato come persona pericolosa.

Riccardo Magi alla Camera

Fra le dichiarazioni di voto contro Nordio, più che lo scontato -anch’esso- intervento della segretaria del Pd Elly Schlein, ossessionata dall’assenza di Giorgia Meloni in aula accanto al suo ministro della Giustizia, la più paradossale mi è sembrata quella del radicale Riccardo Magi. Che ha accusato Nordio, nella cui lettura egli è cresciuto politicamente, di essere ormai prigioniero del governo, e perciò irriconoscibile come garantista. Una specie di autoanalisi, perché anche di Magi si potrebbe parlare come di un garantista prigioniero del fronte delle opposizioni in cui è finito da segretario di +Europa.

Nordio non si è lasciata naturalmente scappare l’occasione per attribuire la ragione principale di tanta avversione politica contro di lui alla riforma della giustizia all’esame delle Camere sulla separazione, fra l’altro, delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e sul sorteggio per le rappresentanze delle toghe negli organismi di autogoverno della magistratura. Ed ha avvertito che il governo andrà avanti su questa strada, senza lasciarsi intimidire da scioperi, campagne referendarie esasperate e altro.  “Fate pure del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio”, ha concluso il ministro con stile un po’ ciurcelliano, dal mitico Winston Churchill di cui egli è notoriamente esegeta.

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Il kit europeo della paura più espressivo del piano di riarmo

Dal Corriere della Sera

Più che kit della emergenza o della resilienza, come se lo sta intestando a Bruxelles la belga Hadja Lahbib, commissaria europea per la gestione delle crisi, con medicinali, viveri, batterie elettriche ed altro in grado di garantire tre giorni di sopravvivenza, lo chiamerei il kit della paura. Forse ancora più espressivo e diretto del piano di “riarmo” o “Prontezza 2030” intestatosi dalla presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen. E passato in Parlamento a Strasburgo spaccando trasversalmente le rappresentanze italiane, di maggioranza e di opposizioni, doverosamente al plurale perché divise fra di loro, e persino al loro interno, nella prospettiva un po’ velleitaria, almeno sinora, di un’alternativa al centrodestra guidato da Giorgia Meloni.

In attesa della pace che Trump e Putin si sono quanto meno proposti di imporre perseguendo nuovi equilibri internazionali, dopo quelli superati definiti 80 anni fa a Yalta dai vincitori della seconda guerra mondiale, compresi i russi che ne avevano favorito l’esplosione o l’avvio accordandosi con la Germania di Hitler per spartirsi la Polonia; in attesa, dicevo, di una pace confezionata da Trump e Putin, l’Europa cerca di non essere, o di non essere solo quella dei “parassiti” avvertiti dal presidente americano, stanco -si dice- della difesa fornita loro dall’America dei suoi predecessori.

Zelensky con Trump alla Casa Bianca

La paura è una “emozione primaria, intensamente spiacevole”, dicono i dizionari della lingua italiana. Spiacevole ma non inutile, per quanto spesso cavalcata da malintenzionati che ne vorrebbero approfittare per ricavarne voti, potere e quant’altro. Non inutile, anzi necessaria per non lasciarsi sorprendere da pericoli reali, non inventati. E la Russia di Putin  è un pericolo per l’Europa, non solo per l’Ucraina, anche se Trump non l’avverte. O l’avverte con l’indifferenza che gli procura quell’oceano la cui insufficienza il presidente ucraino Zelensky ebbe il coraggio di sottolineare parlandogli alla Casa Bianca in una specie di diretta televisiva, mandando il padrone di casa su tutte le furie. Ma poi arretrando anche lui dalle sue posizioni e scommettendo, forse, in qualche errore di Putin che faccia anch’esso perdere la pazienza al presidente americano.

Se leghisti e forzisti, o viceversa, fanno rima ma solo a parole

Dal Dubbio

Anche al netto delle smentite, precisazioni e simili, quando ci sono, nel racconto delle tensioni nel condominio del centrodestra prevalgono generalmente i problemi fra la premier Giorgia Meloni e il suo vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini.

Matteo Salvini e Antonio Tajani

I problemi esistono, per carità, ed hanno un rilievo istituzionale importante perché vi è coinvolta la pur sicura di sé presidente del Consiglio. Ma mi sembrano secondari rispetto a quelli, pur meno rilevanti nell’apparenza, fra i due vice presidenti del Consiglio. Che sono il già ricordato leghista Salvini e il segretario forzista Antonio Tajani, immaginato da Emilio Giannelli nella vignetta di ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera sulle gambe della premier alla quale chiede di “legare” un Salvini in versione animalesca che abbaia e ringhia forse ad entrambi.

Sui problemi fra la Meloni e Salvini, che si contendono addirittura un rapporto più o meno privilegiato con la Casa Bianca di Donald Trump, scommette ogni tanto la segretaria del Pd Elly Schlein sperando, in particolare, di ricavarne prima o dopo una crisi di governo. E magari anche una sua gestione “appropriata” da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Dario Franceschini

Ma, sempre nel Pd, il più esperto e consumato Dario Franceschini, chiuso nella sua officina romana all’Esquilino, mi sembra scommetta di più sull’esplosione dei rapporti fra i due vice presidenti del Consiglio direttamente, forse confortato da qualche analogia galeotta fra la situazione politica di queste settimane e quella pur tanto diversa dell’estate 1994. Quando cominciarono a scricchiolare i rapporti tra forzisti e leghisti, o più direttamente fra un Silvio Berlusconi ancora fresco, o quasi, di nomina a presidente del Consiglio, e un Umberto Bossi in canottiera, pigiama e altro già insofferente dell’alleanza che aveva stretto col Cavaliere per vincere le elezioni anticipate.

Franceschini, in particolare, fra le varie interviste rilasciate da quando ha rinunciato a sostenere l’intesa pre-elettorale del Nazareno con Giuseppe Conte, ha mostrato di confidare che prima o poi Antonio Tajani si accorga di quel biglietto della lotteria che avrebbe in tasca e gli permetterebbe già in questa legislatura, o nella prossima, di essere l’arbitro di qualsiasi governo, accordandosi col Pd piuttosto che con la Meloni e Salvini.

“La carne è debole”, diceva il mio amico Giulio Andreotti quando scherzavamo sulla politica “dei due forni” che avversari ma anche amici, piuttosto compiaciuti, gli attribuivano per consentire allo scudo crociato di non dipendere solo dal Psi o dal Pci nella formazione delle maggioranze e dei relativi governi, che peraltro con l’appoggio dei comunisti riuscivano ad essere monocolori democristiani.

Umberto Bossi e Silvio Berlusconi

Forse Franceschini sarà rimasto troppo democristiano, ma la sua scommessa sulla pazienza esauribile di Tajani, peraltro tallonato da figli ed eredi di Silvio Berlusconi ogni tanto tentati dalla politica, si basa forse sul ricordo proprio dei rapporti, già accennati, fra lo stesso Berlusconi e Bossi. Che ad un certo punto, nell’autunno del 1994, allertato anche da Oscar Luigi Scalfaro che lo riceveva al Quirinale, si accorse che il presidente del Consiglio si difendeva dalle sue incursioni su nomine, riforma delle pensioni e altro facendo opera di persuasione e simili fra i parlamentari leghisti timorosi di una crisi e di rovinose elezioni anticipate, compreso il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi

Fu anche o soprattutto per interrompere quella che gli sembrava una tresca che Bossi, rassicurato da uno Scalfaro contrario in quel momento alle elezioni anticipate, decise di staccare la spina al governo e di provocarne la caduta.

Bossi e Berlusconi

Ora, fatte -ripeto- tutte le debite distinzioni fra il 1994 e oggi, è Tajani che ha cominciato ad aprire le porte di casa a parlamentari e amministratori leghisti poco convinti della concorrenza del loro capitano alla Meloni sul versante elettorale di destra.

Pubblicato sul Dubbio

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Il solito strattonamento mediatico e politico di Mattarella

A chi ha davvero voluto riferirsi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando -a 68 anni di distanza dai trattati europei, firmati a Roma esattamente il 25 marzo 1957- di “alcuni statisti lungimiranti e coraggiosi” che avvertirono la necessità di “capovolgere il modo di rappresentarsi tra i paesi europei”?

Marzio Breda sul Corriere della Sera

Marzio Breda, il quirinalista del Corriere della Sera maggiormente di casa sul colle più alto di Roma, ha scritto di “un cenno che allude a De Gasperi, Schuman e Adenauer, ma anche a quanti altri un po’ dovunque coltivarono quell’utopia, come a Ventotene, che il presidente non nomina per non farsi inghiottire dai recenti battibecchi politici”. Che comprendono purtroppo anche la vivace, a dir poco, reazione di Romano Prodi alla domanda di una giornalista televisiva proprio sul contributo giunto da Ventotene all’unità europea col noto manifesto di Altiero Spinelli, Enrico Rossi ed Eugenio Colorni. Nel quale la Meloni non si è riconosciuta, parlandone alla Camera, nella parte che prevedeva sul percorso dell’unità una sospensione della democrazia in nome della rivoluzione e un riconoscimento del diritto di proprietà caso per caso.

Romano Prodi furioso

Prodi -si sa ormai anche col supporto registrato e trasmesso da Rete 4, per la quale lavora la giornalista incorsa nel suo malumore-  è arrivato a prendere fra le mani una ciocca dei capelli della interlocutrice, senza spingersi -ha poi scherzato cercando di minimizzare le proteste- a “struparla”. La premier è riuscita invece a irritare le opposizioni di sinistra sino fare sospendere la seduta dal presidente della Camera.

Da Domani

Non si può dire che sia stato molto avvertito o apprezzato il proposito attribuito al Capo dello Stato da Breda sul Corriere di “non farsi inghiottire- ripeto- dai recenti battibecchi politici”. Mentre la Repubblica di carta, per esempio, ha prudentemente titolato su “l’elogio di Mattarella ai fondatori dell’Europa”, il giornale che ne ha preso il posto nel cuore e nelle tasche di Carlo De Benedetti, Domani, ha voluto interpretare Mattarella titolando, sia pure con evidenza minore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, sul Colle che “corregge Meloni”. E presupponendo quindi che il presidente della Repubblica abbia voluto smentire la premier includendo Spinelli ed amici o compagni -dell’altro ieri, di ieri e di oggi,-fra “gli statisti coraggiosi” ai quali si deve il pur lungo, accidentato e non ancora concluso processo d’integrazione europea.

Il tavolo dei trattati europei a Roma nel 1957

Se poi all’inizio di questo processo, o percorso, la sinistra oggi insorta contro le critiche della Meloni, come hanno ricordato Rocco Buttiglione in una intervista ad Avvenire e Paolo Cirino Pomicino scrivendone sul Foglio, preferì opporsi in Parlamento, pazienza. Nel senso che lo si può pure ignorare. Anzi, si deve ignorarlo per non guastare giochi e giochetti, mosse e sgambetti, della politica tutta tatticista di oggi, per quanto l’Europa rischi l’isolamento, o peggio, nella ricerca in corso di nuovi equilibri internazionali.

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Il ritorno di Virginia Raggi all’ovile di Giuseppe Conte

Dal Fatto Quotidiano

Anche Virginia Raggi, metaforicamente e nel suo piccolo, è tornata a casa, sotto il tetto di Giuseppe Conte di cui è sembrata ad un certo punto volesse o potesse diventare l’antagonista per vendicare Beppe Grillo. Di cui “è un grande peccato” -ha ribadito in una intervista al Fatto Quotidiano- la defenestrazione. Ma -ha riconosciuto l’ex sindaca di Roma- “i sondaggi dicono che siamo in salute”, non nel furgone mortuario esibito dal fondatore, al volante, nel pieno dello scontro con Conte.

“Grazie alla Costituente” voluta dall’ex presidente del Consiglio e ora presidente solo di ciò che è rimasto elettoralmente delle 5 Stelle, “siano tornati -ha detto al plurale la Raggi- a confrontarci su argomenti concreti, che riguardano le persone e i nostri valori”: dalle bollette della luce alla pace a qualsiasi costo in Ucraina e ovunque si combatta ancora. Il Conte pacifista piace insomma un sacco all’ex sindaca della Capitale, che gli ha perdonato anche i passi compiuti da presidente del Consiglio sula strada dell’aumento progressivo delle spese militari, prima ancora che ne maturasse il bisogno a livello europeo col piano di riarmo – o “Prontezza 2030”- contro cui i parlamentari delle 5 Stelle hanno votato a Strasburgo. Mentre quelli del Pd di Elly Schlein si sono divisi fra dieci favorevoli e undici obbedienti all’astensione critica ordinata dalla segretaria del partito. E considerata dalla Raggi, come da Conte, una quasi miserevole fuga.

Virginia Raggi d’archivio in Campidoglio

“Come sono i rapporti tra Lei e Conte?”, le ha chiesto pleonasticamente l’intervistatore del Fatto, dove l’ex premier continua ad essere considerato il migliore presidente del Consiglio avuto dall’Italia dopo Camillo Benso conte (al minuscolo) di Cavour. “Buoni, glielo assicuro”, ha risposto la Raggi pur continuando a ritemere Alessandro Di Battista quello che forse Conte non considera più: “un valore aggiunto”, da recuperare perché “per portare avanti le nostre idee servono i migliori”. “E lui è tra questi”, ha insistito l’ex sindaca. Alla quale le sarà forse venuto da piangere come da esordiente, a suo tempo, sul balcone del suo ufficio in Campidoglio, con la fascia tricolore addosso, fresca di insediamento a sindaca.  O sindaco, al maschile neutro .

Buttiglione controcorrente, come al solito, sfida Prodi a distanza

Da Libero

Rocco Buttiglione, il filosofo di cultura e religione cattolica prestatosi per un po’ alla politica negli anni della transizione fra la prima e la seconda Repubblica, senza mai barattare o nascondere le sue convinzioni per mantenere un posto, non ha perso il gusto di andare controcorrente. Come fece parlando dell’omosessualità agli esaminatori del Parlamento di Strasburgo e rimediando la bocciatura come commissario designato da uno dei governi Berlusconi. 

Berlusconi e Buttiglione d’archivio

Intervistato da Avvenire per parlare, fra l’altro, del rischio dell’irrilevanza che l’Europa corre nella tenaglia di una difficilissima congiuntura internazionale, Buttiglione  ha forse sorpreso anche alcuni dei vescovi italiani editori del giornale affidandosi alla premier Giorgia Meloni. “Chi può battere un colpo?”, gli ha chiesto Arturo Celletti a proposito della “scossa” necessaria perché l’Europa non sia “tagliata fuori” da un gioco a tre fra America, Russia e Cina per ridisegnare confini e influenze  dopo gli accordi conclusivi della seconda guerra mondiale, raggiunti a Yalta nel 1945, ottant’ani fa. E lui, pronto: “La voglio sorprendere: dico Giorgia Meloni. Oggi è il leader più forte che c’è in Europa”. Leader al maschile come notoriamente  preferisce  la Meloni  intestando le lettere e firmandosi come presidente del Consiglio. “Macron in Francia – ha spiegato Buttiglione- è debolissimo: resiste solo perché i suoi avversari sono divisi. Sanchez in Spagna ha una popolarità in caduta libera. La Germania non ha un governo. E Merz per ora è solo una bella speranza…Meloni ha un’occasione unica, irripetibile”.

Giorgia Meloni alla Camera

“Ma purtroppo oscilla, purtroppo esita”, ha tuttavia aggiunto Buttiglione. Che però non l’ha insultata come Romano Prodi, che la vede e indica ogni volta che ne parla come una versione femminile e irrimediabile dell’”Arlecchino servo dei due padroni”. Al contrario, memore del voto favorevole fatto dare suoi fratelli d’Italia al Parlamento di Strasburgo al piano di riarmo europeo, Buttiglione ha incitato positivamente la Meloni a “dire con forza e con nettezza che per la difesa europea serve un debito comune. Ridia all’Italia -ha aggiunto- un ruolo da protagonista. Lavori a un grande trattato per mandare al macero tutte le armi nucleari”. E non solo quelle detenute in Europa, al di qua e al di là della Manica, dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

Non credo che di fronte a questa scommessa o incitazione alla Meloni l’antimeloniano a prescindere Romano Prodi possa improvvisare contro Buttiglione una replica della sceneggiata dell’altro ieri contro una giornalista che gli aveva fatto una domanda scomoda.

Rocco Buttiglione ad Avvenire

A proposito di questa sceneggiata, accesa dalle polemiche sul manifesto europeo di Ventotene scritto nel 1941 dai confinati antifascisti disposti a barattare l’unità continentale con la sospensione della democrazia e una limitazione indefinita della proprietà privata, sentite che cosa Buttiglione ha risposto ad una analoga, o quasi, domanda dell’intervistatore di Avvenire: “L’Europa non nasce da Ventotene e da Spinelli. Nasce da Schuman, da De Gasperi, da Adenauer. La sinistra guardava con diffidenza l’Europa. I cattolici costruirono le basi di un grande Progetto che oggi rischia di morire”. Non ha avuto quindi torto la premier italiana a non riconoscersi- peraltro in Parlamento, non in un comiziaccio elettorale- nelle parole certamente datate ma sicure di Spinelli, Rossi e Colorni.

Per fortuna Buttiglione è un uomo e non ha ciocche di capelli sulle spalle che Prodi possa toccare in un eccesso di reazione mimica che ha avvertito, lamentandosene, la giornalista di Rete 4 incorsa l’altro ieri nel cattivo umore dell’ex premier, ex presidente della Commissione europea, ex professore e via spulciando la sua biografia. Peraltro Prodi avrebbe anche qualche problema fisico a raggiungere le spalle del suo ormai lontano ex collega di partito o di area. Gli si dovrebbe arrampicare addosso.

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Un Prodi furioso in soccorso a sorpresa della Schlein assente da Ventotene

Più che di un’analisi ha bisogno forse di una psicanalisi politica la scenata alla quale Romano Prodi, reduce da un’intervista al Corriere della Sera non proprio esaltante per la segretaria del Pd Elly Schlein, si è abbandonato contro la giornalista di Rete 4 Lavinia Orefici. Un Prodi più furioso del celebre Orlando di Ludovico Ariosto, al limite della scurrilità -con quel “cavolo” gridato contro la domanda della giornalista sulle polemiche intorno al manifesto europeista di Ventotene- e persino dell’incidente fisico. Almeno quello avvertito dalla giornalista, che ha lamentato di essersi sentita toccare una ciocca di capelli, fortunatamente senza perderla. Ne sono seguiti comunicati di protesta, appelli all’Ordine, dichiarazioni di solidarietà alla Orefici o a Prodi e via sguazzando in quello che si potrebbe definire un supplemento di uno spettacolo recente nell’aula di Montecitorio. Dove si è dovuta interrompere più volte la seduta per le proteste delle opposizioni contro la premier Giorgia Meloni che aveva citato un passaggio proprio del manifesto di Ventotene per non condividerlo, essendovi ipotizzata un’Europa “libera e unita” sì, ma a democrazia sospesa e con il diritto di proprietà messo a dura prova, diciamo così.

Screenshot

“Ha mai sentito dirmi cose del genere?”, ha chiesto stizzito Prodi alla giornalista cercando poi di giustificare gli autori del manifesto per averlo scritto da confinati antifascisti a Ventotene nel 1941, in piena guerra dall’esito ancora tragicamente imprevedibile.  Ma oltre alla difesa dei compianti Altiero Spinelli, Enrico Rossi ed Eugenio Colorni premeva forse a Prodi la implicita difesa della segretaria del Pd Elly Schlein nelle proteste contro le critiche della Meloni al manifesto. Una difesa compensativa, riparatrice e quant’altro del dissenso, appena ribadito nell’intervista di Prodi al Corriere della Sera ancora fresca di stampa, rispetto alle scelte della Schlein alla guida del partito del Nazareno: dal mancato sì al piano europeo di riarmo alla evanescente alternativa al centrodestra.

La politica, si sa, è fatta di questi tatticismi. Poi ognuno, fuori e dentro il partito che vi è maggiormente interessato o coinvolto, usa ciò che ritiene più utile per analizzare persone e situazioni.

Da Libero

Di clamoroso o davvero sorprendente in questa storia c’è forse soltanto una certa scompostezza di Prodi, impostosi o distintosi in altre occasioni per una certa olimpica disinvoltura che ad altri sarebbe forse costata seri guai giudiziari. Penso naturalmente anche io alla vicenda, impietosamente ricordata dal direttore Mario Sechi su Libero, della seduta spiritica nella quale nel 1978 Prodi raccontò di avere sentito durante il sequestro di Aldo Moro una parola chiave di quella tragedia. Che era Gradoli, il nome non di un paesino dove furono inutilmente cercate poi tracce di Moro e dei suoi carcerieri, ma di una strada di Roma dove si trovava il covo delle brigate rosse usato da registi e autori  del sequestro. 

La segretaria del Pd come la Mariettina della ricotta perduta per strada

Da Libero

Vi ricordate la fiaba di Marietta, anzi Mariettina, la contadinotta che immaginava le fortune che avrebbe potuto fare vendendo al mercato la ricotta avuta in regalo da un pastore e sistemata in un cestello che portava baldanzosamente sulla testa? In un inchino mimato, pensando agli omaggi che avrebbe potuto ricevere standosene sul balcone di una bella casetta in campagna acquistata con i suoi guadagni, la poveretta perse la ricotta. Che non potette neppure mangiare per il fango nel quale era finita.

Chissà se Elly Schlein conosce questa fiaba, in una qualunque delle lingue che sa parlare, e che alterna come i passaporti dei quali è dotata. Ho tuttavia la sensazione che la stia vivendo nella sua esperienza di segretaria del Pd, eletta due anni fa grazie ai pastori grillini, chiamiamoli così, infilatisi nei gazebo per farla prevalere sul prescelto dagli iscritti, che era Stefano Bonaccini.

Presasi molto sul serio, come la Marietta con la ricotta, la segretaria del Pd ha immaginato fra qualche successo locale o sondaggistico di potere allestire in tempo per le prossime elezioni politiche un’alternativa vincente al centrodestra di Giorgia Meloni, estesa da Matteo Renzi a Giuseppe Conte.

Dario Franceschini

Non so se più stanco, deluso o preoccupato di averla a suo tempo aiutata nella scalata al Nazareno, un uomo come Dario Franceschini, di cultura e formazione democristiana che conosce il Pd come le sue tasche, ha recentemente consigliato alla Schlein dalla sua officina all’Esquilino, promossa eccentricamente ad ufficio, di togliersi dalla testa la ricotta. Cioè l’idea di potere affrontare e vincere le elezioni politiche con un’Armata Brancaleone come quella che lei “testardamente” persegue. Meglio andare alle elezioni separati, per fare ciascun partito il pieno dei voti, e tentare poi di mettersi insieme per governare.

Prodi e Schlein d’archivio

Manco per sogno, ha subito reagito un altro democristiano di origine controllata come Romano Prodi. Che, autore peraltro sfortunato di programmi di coalizione di più di 300 pagine, vista la brevità dei suoi due governi, ha detto alla Schlein -pur cresciuta nel Pd come una sua sostenitrice, insorta contro i franchi tiratori del partito che gli avevano impedito nel 2013 l’elezione al Quirinale- che quella di Franceschini è una strada quasi moralmente impraticabile in un sistema elettorale non più proporzionale.

Prodi, pur al netto dei soliti attacchi anche di villania gratuita alla Meloni, è appena tornato a tirare le orecchie alla Schlein in una intervista al Corriere della Sera contestandole la linea adottata sul riarmo dell’Europa. Il cui piano pure o soprattutto nella versione aggiornata di “Protezione 2030” sarebbe secondo lui “troppo prudente”. Altro che l’imprudenza avvertita dalla segretaria del Pd ordinando agli eurodeputati del Nazareno, anche a costo di spaccarne la delegazione, un’astensione critica.

Non parliamo poi, in tema dì Europa, i guai in cui la Schlein si è infilata contestando la contestazione, a sua volta, della premier Giorgia Meloni della parte del famoso manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 dai confinati antifascisti Altiero Spinelli, Enrico Rossi ed Eugenio Colorni, in cui l’”Europa libera e unita” viene immaginata in sospensione della democrazia e in regime sostanzialmente collettivistico.

La delegazione del Pd ieri alla tomba di Altiero Spinelli, a Ventotene

Se Elly …Mariettina Schlein ha davvero avuto la tentazione di raggiungere gli amici e compagni di partito a Formia per imbarcarsi con loro ieri per un pellegrinaggio politico riparatore alla tomba di Spinelli a Ventotene, prima ancora del maltempo è stata forse trattenuta dalle interviste del sindaco dell’isola Carmine Caputo, prima al Foglio e ancor più poi a Libero. Da buon, risoluto, orgogliosamente democristiano, pur senza avere la notorietà di Franceschini e di Prodi, e dell’ornai veterano del Parlamento Pier Ferdinando Casini, egli ha condiviso la contestazione della Meloni. Sino a dichiararsi pronto ad invitarla e ospitarla in una trasferta politica a Ventotene, a opinione naturalmente invariata sull’omonimo manifesto.

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Romano Prodi affonda il coltello nel burro di Elly Schlein

Dal Corriere della Sera

Che schiaffo a Elly Schlein, per quanto metaforico, l’intervista al Corriere della Sera nella quale Romano Prodi ha liquidato come “troppo prudente” il piano di riarmo europeo che la segretaria del Pd ritiene invece troppo imprudente, proponendone un “radicale cambiamento” nei giorni scorsi alla Camera. E ciò dopo avergli fatto negare dalla maggioranza del gruppo piddino nel Parlamento europeo -undici contro dieci- l’approvazione con la formula, peraltro poco coraggiosa, dell’astensione.

Neppure nella formulazione non più di “riarmo” ma di “Prontezza 2030”, appena uscita dal Consiglio europeo raccogliendo i disagi semantici anche della premier italiana Giorgia Meloni, e del premier socialista spagnolo Pedro Sanchez, il piano europeo è stato considerato da Prodi inadeguato alla situazione di pericolo, rischio e quant’altro in cui si trova il vecchio continente dopo la svolta nei rapporti fra gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin.

Romano Prodi al Corriere della Sera

“Mi ha fatto un po’ sorridere -ha detto testualmente l’ex presidente del Consiglio, ma anche della Commissione di Bruxelles- la dichiarazione di essere pronti a cooperare nel 2030. E arrivati a quella data, che cosa succede? Non è solo una data lontana, ma manca totalmente l’indicazione di una volontà precisa sulla comune difesa. Sono passi ancora troppo prudenti. Una maggiore cooperazione senza contenuti non basta”. Parole, queste, destinate in Europa soprattutto a Ursula von der Leyen, l’ex ministra tedesca della Difesa al suo secondo mandato al vertice della Commissione europea, e in Italia alla Schlein. Nei cui riguardi l’ex premier, criticandone la linea, non si lascia distrarre più di tanto dal fatto che nel 2013, dodici anni fa, fu la più lesta e vivace nel difenderlo dai franchi tiratori del Pd che ne avevano impedito l’elezione al Quirinale. La Schlein allora promosse reclamò e quant’altro l’occupazione delle sezioni e sedi del partito.

Ancora Prodi al Corriere della Sera

Pagatole il tributo, diciamo così, di un altro attacco a Giorgia Meloni, da lui considerata una versione femminile di “Arlecchino servo dei due padroni”, che sarebbero Trump e la von der Leyen, Prodi ha contestato alla Schlein anche la gestione del partito, pur cercando di apparire estraneo alle beghe interne del Nazareno. “Io non entro -ha risposto ad una domanda sull’aria un po’ da congresso che spira al Nazareno, appunto- nel dibattito interno del partito. Ma dico che è urgente costruire un’alleanza che vinca alle prossime elezioni, un’alleanza progressista”. Di cui ha convenuto che non esistono i presupposti. “E’ per questo -ha insistito Prodi- che il governo non è caduto, nonostante lo stato in cui si trova. Perché esistono opposizioni, ma non un’alternativa di governo”.

Anche il sindaco moroforlaniano ha qualcosa da ridire sul manifesto di Ventotene

Da Libero

Carmine Caputo, già segretario del Comune di Ventotene, ne è sindaco da tre anni, eletto con 274 voti contro i 223 del notaio Gennaro Santomauro, il suo principale concorrente distanziato di “soli” 51 voti, dirà qualcuno leggendomi. Ma 51 voti sono tanti in un’isola di meno di 700 abitanti. non tutti elettori naturalmente perché al di sotto dei 18 anni non si vota. O non si vota ancora, per quanto a suo tempo Enrico Letta avesse proposto di far votare anche i sedicenni.

Civico di elezione, nel senso della lista nella quale si è proposto e ha vinto, il sindaco di Ventotene si è orgogliosamente confessato “democristiano” a Ginevra Leganza, del Foglio, che l’ha chiamato per saggiarne gli umori in vista dello sbarco, oggi nell’isola, della segretaria del Pd Elly Schlein e amici e compagni in trasferta politica. Per omaggiare la tomba di Altiero Spinelli oltraggiata, secondo loro, sia pure a distanza, dalla premier Giorgia Meloni citando un passaggio del manifesto suo e di Ernesto Rossi, scritto da antifascisti confinati nell’isola nel 1941, per un’Europa libera e unita sì, ma a democrazia sospesa e a regime sostanzialmente collettivistico. Dove la proprietà privata sarebbe stata o vietata o consentita solo entro limiti angusti.

D’altronde, ancora negli anni Settanta l’allora segretario del Psi Francesco De Martino, non ancora sostituito da Bettino Craxi armato di forbici per tagliare la barba a Marx, come gli rimproverò Eugenio Scalfari sulla Repubblica di carta, immaginava di privata per l’Italia solo la bottega del barbiere.

Democristiano dichiarato, dicevo del sindaco di Ventotene. “Io -ha detto, in particolare- sono nato democristiano, con Aldo Moro e Arnaldo Forlani, e morirò democristiano”. Un democristiano del tipo da me immaginato scrivendo giovanissimo di un Forlani che stava “con Fanfani nel cuore e con Moro nel cervello”. Forlani apprezzò avviando con me un rapporto di amicizia durato sino alla sua morte. Fanfani, allora presidente del Senato, apprezzò molto meno invitandomi ad una colazione di prima mattina per dirmi -o mandare a dire all’ancora formalmente numero due della sua corrente – che se avesse voluto accordarsi con Moro avrebbe potuto e saputo farlo direttamente. E così fece in effetti col famoso “patto di Palazzo Giustiniani” nel 1973 ponendo fine alla prima segreteria Forlani nella Dc e tornando lui al vertice del partito. Peraltro sparatissimo verso il referendum contro il divorzio che nel 1974 perse rovinosamente. Forlani invece se n’era tenuto lontano facendolo rinviare due anni prima, ricorrendo persino alle elezioni anticipate.

Elly Schlein d’archivio a Ventotene

Abituato a suo tempo a un partito complesso come la Dc, il sindaco di Ventotene, anche a costo di deludere l’ospite più illustre di oggi nella sua isola, si è ben stretta metaforicamente la fascia di sindaco addosso per omaggiare sì la memoria di Spinelli, apprezzare anche il soffietto televisivo di Roberto Benigni ma confessare anche  alla giornalista del Foglio di essersi riconosciuto nella dissociazione della premier Giorgia Meloni da un passaggio del manifesto di una Europa “libera e unita” solo a parole, dovendo convivere con la sospensione della democrazia e la proprietà confinata nelle botteghe dei barbieri, come ho divagato scrivendo del Psi di Francesco De Martino. 

Lacrime alla Camera

“Io non penso -ha convenuto il sindaco di Ventotene con la Meloni pensando al raduno romano del 15 marzo scorso- che tutti quelli che brandiscono il Manifesto in piazza l’abbiano letto”. E ancora, invitato a commentare il pianto del deputato del Pd Federico Fornaro nell’aula di Montecitorio dopo avere invitato la premier a “vergognarsi” della sua parziale lettura del manifesto di Aliero Spinelli, e di Enrico Rossi, e di Eugenio Colorni, il sindaco ha detto: “Penso che il dibattito parlamentare sia ipocrita”. A destra, secondo Carmine Caputo, ma anche a sinistra.

Onore al sindaco di Ventotene, un po’ meno, o per niente, ai suoi ospiti di oggi

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