Carlo Nordio batte le opposizioni alla Camera e le ammonisce

Più del risultato, scontatissimo, della votazione di sfiducia promossa alla Camera dalle opposizioni, neppure tutte, contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio – prevalso con 215 voti contro 119, una cinquantina in meno della maggioranza che sarebbe stata necessaria per bocciarlo- vale forse quella specie di massimario che il guardasigilli ha dispensato nel discorso col quale si è difeso.

Carlo Nordio alla Camera

“La spada della giustizia -ha detto- è senza impugnatura” per cui ferisce anche “chi la usa in modo improprio”: per esempio, cercando di “giurisdizionalizzare qualsiasi scontro politico”. Come quello consumatosi attorno alla vicenda del generale libico Almasri, raggiunto da un mandato di cattura della Corte penale internazionale mentre era in Italia, dopo avere girato libero per mezza Europa, liberato non dal ministro ma dalla magistratura ordinaria esaminando gli atti e rimpatriato come persona pericolosa.

Riccardo Magi alla Camera

Fra le dichiarazioni di voto contro Nordio, più che lo scontato -anch’esso- intervento della segretaria del Pd Elly Schlein, ossessionata dall’assenza di Giorgia Meloni in aula accanto al suo ministro della Giustizia, la più paradossale mi è sembrata quella del radicale Riccardo Magi. Che ha accusato Nordio, nella cui lettura egli è cresciuto politicamente, di essere ormai prigioniero del governo, e perciò irriconoscibile come garantista. Una specie di autoanalisi, perché anche di Magi si potrebbe parlare come di un garantista prigioniero del fronte delle opposizioni in cui è finito da segretario di +Europa.

Nordio non si è lasciata naturalmente scappare l’occasione per attribuire la ragione principale di tanta avversione politica contro di lui alla riforma della giustizia all’esame delle Camere sulla separazione, fra l’altro, delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e sul sorteggio per le rappresentanze delle toghe negli organismi di autogoverno della magistratura. Ed ha avvertito che il governo andrà avanti su questa strada, senza lasciarsi intimidire da scioperi, campagne referendarie esasperate e altro.  “Fate pure del vostro peggio, noi faremo del nostro meglio”, ha concluso il ministro con stile un po’ ciurcelliano, dal mitico Winston Churchill di cui egli è notoriamente esegeta.

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Il kit europeo della paura più espressivo del piano di riarmo

Dal Corriere della Sera

Più che kit della emergenza o della resilienza, come se lo sta intestando a Bruxelles la belga Hadja Lahbib, commissaria europea per la gestione delle crisi, con medicinali, viveri, batterie elettriche ed altro in grado di garantire tre giorni di sopravvivenza, lo chiamerei il kit della paura. Forse ancora più espressivo e diretto del piano di “riarmo” o “Prontezza 2030” intestatosi dalla presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen. E passato in Parlamento a Strasburgo spaccando trasversalmente le rappresentanze italiane, di maggioranza e di opposizioni, doverosamente al plurale perché divise fra di loro, e persino al loro interno, nella prospettiva un po’ velleitaria, almeno sinora, di un’alternativa al centrodestra guidato da Giorgia Meloni.

In attesa della pace che Trump e Putin si sono quanto meno proposti di imporre perseguendo nuovi equilibri internazionali, dopo quelli superati definiti 80 anni fa a Yalta dai vincitori della seconda guerra mondiale, compresi i russi che ne avevano favorito l’esplosione o l’avvio accordandosi con la Germania di Hitler per spartirsi la Polonia; in attesa, dicevo, di una pace confezionata da Trump e Putin, l’Europa cerca di non essere, o di non essere solo quella dei “parassiti” avvertiti dal presidente americano, stanco -si dice- della difesa fornita loro dall’America dei suoi predecessori.

Zelensky con Trump alla Casa Bianca

La paura è una “emozione primaria, intensamente spiacevole”, dicono i dizionari della lingua italiana. Spiacevole ma non inutile, per quanto spesso cavalcata da malintenzionati che ne vorrebbero approfittare per ricavarne voti, potere e quant’altro. Non inutile, anzi necessaria per non lasciarsi sorprendere da pericoli reali, non inventati. E la Russia di Putin  è un pericolo per l’Europa, non solo per l’Ucraina, anche se Trump non l’avverte. O l’avverte con l’indifferenza che gli procura quell’oceano la cui insufficienza il presidente ucraino Zelensky ebbe il coraggio di sottolineare parlandogli alla Casa Bianca in una specie di diretta televisiva, mandando il padrone di casa su tutte le furie. Ma poi arretrando anche lui dalle sue posizioni e scommettendo, forse, in qualche errore di Putin che faccia anch’esso perdere la pazienza al presidente americano.

Se leghisti e forzisti, o viceversa, fanno rima ma solo a parole

Dal Dubbio

Anche al netto delle smentite, precisazioni e simili, quando ci sono, nel racconto delle tensioni nel condominio del centrodestra prevalgono generalmente i problemi fra la premier Giorgia Meloni e il suo vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini.

Matteo Salvini e Antonio Tajani

I problemi esistono, per carità, ed hanno un rilievo istituzionale importante perché vi è coinvolta la pur sicura di sé presidente del Consiglio. Ma mi sembrano secondari rispetto a quelli, pur meno rilevanti nell’apparenza, fra i due vice presidenti del Consiglio. Che sono il già ricordato leghista Salvini e il segretario forzista Antonio Tajani, immaginato da Emilio Giannelli nella vignetta di ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera sulle gambe della premier alla quale chiede di “legare” un Salvini in versione animalesca che abbaia e ringhia forse ad entrambi.

Sui problemi fra la Meloni e Salvini, che si contendono addirittura un rapporto più o meno privilegiato con la Casa Bianca di Donald Trump, scommette ogni tanto la segretaria del Pd Elly Schlein sperando, in particolare, di ricavarne prima o dopo una crisi di governo. E magari anche una sua gestione “appropriata” da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Dario Franceschini

Ma, sempre nel Pd, il più esperto e consumato Dario Franceschini, chiuso nella sua officina romana all’Esquilino, mi sembra scommetta di più sull’esplosione dei rapporti fra i due vice presidenti del Consiglio direttamente, forse confortato da qualche analogia galeotta fra la situazione politica di queste settimane e quella pur tanto diversa dell’estate 1994. Quando cominciarono a scricchiolare i rapporti tra forzisti e leghisti, o più direttamente fra un Silvio Berlusconi ancora fresco, o quasi, di nomina a presidente del Consiglio, e un Umberto Bossi in canottiera, pigiama e altro già insofferente dell’alleanza che aveva stretto col Cavaliere per vincere le elezioni anticipate.

Franceschini, in particolare, fra le varie interviste rilasciate da quando ha rinunciato a sostenere l’intesa pre-elettorale del Nazareno con Giuseppe Conte, ha mostrato di confidare che prima o poi Antonio Tajani si accorga di quel biglietto della lotteria che avrebbe in tasca e gli permetterebbe già in questa legislatura, o nella prossima, di essere l’arbitro di qualsiasi governo, accordandosi col Pd piuttosto che con la Meloni e Salvini.

“La carne è debole”, diceva il mio amico Giulio Andreotti quando scherzavamo sulla politica “dei due forni” che avversari ma anche amici, piuttosto compiaciuti, gli attribuivano per consentire allo scudo crociato di non dipendere solo dal Psi o dal Pci nella formazione delle maggioranze e dei relativi governi, che peraltro con l’appoggio dei comunisti riuscivano ad essere monocolori democristiani.

Umberto Bossi e Silvio Berlusconi

Forse Franceschini sarà rimasto troppo democristiano, ma la sua scommessa sulla pazienza esauribile di Tajani, peraltro tallonato da figli ed eredi di Silvio Berlusconi ogni tanto tentati dalla politica, si basa forse sul ricordo proprio dei rapporti, già accennati, fra lo stesso Berlusconi e Bossi. Che ad un certo punto, nell’autunno del 1994, allertato anche da Oscar Luigi Scalfaro che lo riceveva al Quirinale, si accorse che il presidente del Consiglio si difendeva dalle sue incursioni su nomine, riforma delle pensioni e altro facendo opera di persuasione e simili fra i parlamentari leghisti timorosi di una crisi e di rovinose elezioni anticipate, compreso il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi

Fu anche o soprattutto per interrompere quella che gli sembrava una tresca che Bossi, rassicurato da uno Scalfaro contrario in quel momento alle elezioni anticipate, decise di staccare la spina al governo e di provocarne la caduta.

Bossi e Berlusconi

Ora, fatte -ripeto- tutte le debite distinzioni fra il 1994 e oggi, è Tajani che ha cominciato ad aprire le porte di casa a parlamentari e amministratori leghisti poco convinti della concorrenza del loro capitano alla Meloni sul versante elettorale di destra.

Pubblicato sul Dubbio

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