La lunga passione di Pasquale Laurito per il giornalismo e la politica

Da Libero

Conobbi Pasquale Laurito, il decano dell’associazione della stampa parlamentare appena scomparso a 98 anni, più di mezzo secolo fa, Dio mio. Collaboravamo insieme al Globo, un quotidiano della Confindustriadiretto da Remigio Rispo, conservatore in tutto, a cominciare dall’abbigliamento, e da quel “Lei” che dava a tutti, dall’autista al redattore capo. Ciò mi lasciò pensare che anche Laurito in qualche modo lo fosse, anche se lo sapevo, anzi lo immaginavo, per le sue origini calabresi, spintosi sino a simpatizzare per il socialista Giacomo Mancini. Che nel Psi era un autonomista tosto, superato poi negli anni solo da Bettino Craxi, col quale peraltro non sarebbe andato d’accordo per questioni di carattere più che di politica.

Giacomo Mancini

Fu proprio Rispo a rivelarmi invece, e con un certo compiacimento, l’appartenenza di Pasquale, del quale ero diventato intanto amico, al partito comunista. E me lo disse contentissimo di sorprendermi, compiaciuto di averlo nella squadra degli informatori anche per la possibilità che gli dava in privato di sapere del Pci, e delle sue intriganti vicende interne, più di quelli che Fortebraccio sull’Unità chiamava “lor signori”.

Aldo Moro

L’amicizia con Pasquale si strinse ulteriormente nel 1968, quando ci trovammo insieme, pur non più nello stesso giornale, scambiandoci notizie e segreti, a difendere Aldo Moro dallo sfratto da Palazzo Chigi deciso dai cosiddetti “amici” di corrente della Dc, che si chiamavano “dorotei”. Essi gli avevano contestato troppa pazienza nei rapporti col Psi che aveva portato al governo nel 1963, salvo offrirgliene ancora di più pur di portare Mariano Rumor alla guida d una edizione dichiaratamente “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra“ a “maggioranza delimitata” permessa cinque anni prima a Moro.  

Ma mentre io solidarizzavo con Moro, peraltro pugliese come me, non condividendo quella che ritenevo una porcata fattagli nel partito pur di sostituirlo, Pasquale godeva, diciamo così, dell’occasione offerta a Moro dai suoi colleghi di partito per spostarsi reattivamente a sinistra, scavalcandoli. Il centrosinistra, ripeto, “più incisivo e coraggioso” di Rumor impallidì rapidamente di fronte alla sopraggiunta “strategia dell’attenzione” di Moro verso il Pci.  E persino verso la contestazione giovanile dalla quale i dirigenti comunisti cercavano di tenersi ad una certa distanza, avendo avvertito di non poterla controllare o convogliare come erano abituati a fare con tutto ciò che era protesta.

Sapevamo entrambi della diversa angolatura delle nostre comuni simpatie per Moro, ma costituimmo con Pasquale uno strano connubio politico a livello giornalistico, confezionando anche un’agenzia di stampa chiamata Ipe -da “informazioni politiche ed economiche”- che cessò le pubblicazioni dopo il fallimento della scalata tentata da Moro alla Presidenza della Repubblica alla scadenza del mandato di Giuseppe Saragat. Che lo stesso Moro nel 1964 aveva aiutato ad essere eletto al Quirinale, tra le resistenze e le paure dei democristiani, succedendo all’ormai impedito Antonio Segni.

Da allora, da quella nostra curiosa esperienza di “convergenze parallele”, secondo una formula propedeutica al centro-sinistra attribuita proprio a Moro ancora segretario della Dc, fra il 1959 e il 1963, il mio rapporto con Pasquale fu solo di amicizia e simpatia personale. Le assonanze politiche furono ancora più di carattere e di stile, a proposito dei leader succedutisi tra prima e seconda Repubblica, che di linea o di progetti.

Massimo D’Alema

Ci scontravamo amichevolmente, per esempio, io con le mie simpatie per Bettino Craxi e lui per Massimo D’Alema, mai lasciato indifeso in qualsiasi polemica in quella nota informativa, prevalentemente breve, che egli confezionava lasciandola chiamare “velina rossa”. Contrapposta a quella “bianca”, di ben più largo e remunerativo mercato, del compianto Vittorio Orefice. Che aveva sempre un occhio di riguardo, diciamo così, per la Dc.

Addio, Pasquale. E grazie dell’amicizia che mi hai ricambiato così a lungo.

Pubblicato su Libero

Le fughe nominalistiche dai problemi drammatici della politica

Dal Dubbio

Ci sono parole non magiche, come le definiva la buonanima di Amintore Fanfani irridendo ai benefici effetti che venivano ad esse attribuite dagli ottimisti, ma tragiche. Che fanno paura al solo pronunciarle, come la morte, il cancro, pur con tutti i progressi compiuti nel combatterlo, la guerra e il riarmo. Con cui la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha voluto impavidamente titolare il piano portato al Consiglio europeo per mettere maggiormente in sicurezza il nostro vecchio continente. E ciò nello scenario internazionale che va creandosi attorno alle sfide, provocazioni e quant’altro del presidente americano Donald Trump, pur all’ombra della pace da ristabilire in Ucraina con le buone o le cattive.

Anche alla premier italiana Giorgia Meloni, pur avendo contribuito ad approvare il piano a Bruxelles, quel “riarmo” messo nel titolo è piaciuto poco, o per niente. E lo ha detto quasi per scusarsene, forse agli occhi o alle orecchie del suo vice presidente leghista del Consiglio a Roma, Matteo Salvini. Che ormai quando si occupa di politica estera, sconfinando dalle competenze assegnategli dalla presidente del Consiglio, finisce per trovarsi, o ritrovarsi con Giuseppe Conte, di cui pure è stato vice fra il 2018 e il 2019, e con la segretaria del Pd Elly Schlein.

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni

Bisogna tuttavia stare attenti, secondo me, ad avere troppa paura della realtà, sino ad esorcizzarla con questioni nominalistiche. Sulla cui strada si rischia di imitare o di confondersi con l’inimmaginabile. Per esempio, essendo in gioco la partita della pace in Ucraina, con quell’ineffabile Putin che più di tre anni fa, progettando e infine ordinando una guerra lampo che pensava di concludere in tre giorni uccidendo o facendo scappare Zelensky da Kiev, la chiamò “operazione speciale”. E fece una legge, in quattro e quattr’otto, per mandare in galera dissidenti, cronisti e congiunti dei militari partiti per il fronte che chiamavano quella “operazione”, ripeto, col nome più pertinente di guerra.

Vorrei andare un po’ più indietro negli anni per ricordare quella mattina del 1980, o poco più avanti, in cui alla Camera  in cui Giancarlo Pajetta mi rispose beffardo  quando gli feci notare che i cortei di sinistra contro i missili che dovevano essere installati a Comiso per contrastare gli SS 20 installati nel blocco sovietico contro le capitali dell’Europa occidentale contrastavano con l’accettazione della Nato da parte del Pci all’epoca della “solidarietà nazionale”. Quando Enrico Berlinguer si spinse a sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello della Nato”, appunto, nella sua politica di autonomia da Mosca.

Giancarlo Pajetta

Pajetta nella rudezza che lo contraddistingueva nello stesso Pci e fuori mi squadrò e disse, anzi chiese: “Ma come si fa ad aspettarsi il nostro silenzio, la nostra accondiscendenza di fronte al dichiarato riarmo missilistico della Nato ?”. Che doveva pertanto rimanere un ombrello bucato o bloccato. E che, invece, adeguatamente attrezzato, causò il collasso del comunismo senza bisogno di far partire un solo missile dalla base italiana di Comiso, o altrove.

Pubblicato sul Dubbio

Eccesso di soccorso giudiziario agli immigrati clandestini per legge

Da Repubblica

Ho sfilato dalla mia libreria un dizionario della lingua italiana appena appresa la notizia della decisione della Cassazione a sezioni unite che, smentendo una sentenza d’appello, ha riconosciuto il diritto al riconoscimento dei danni ai clandestini soccorsi nel 2018 dalla nave Diciotti, della Guardia Costiera. Ma trattenuti per nove giorni, prima dello sbarco, nel tentativo del governo allora in carica di ottenere una loro distribuzione fra i paesi dell’Unione europea, i cui confini marittimi sono italiani.  

Ho sfilato, in particolare,  il dizionario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, alquanto malmesso dopo tanto uso, anche in epoca elettronica. E sono andato a consultarlo ala voce “provocazione”, a pagina 1501, trovando parole dalle quali mi sento autorizzato a questo modestissimo commento.  Che è di critica a quello che il dizionario definisce “un atto diretto a provocare una reazione irritata o violenta”.

La nave Diciotti della Guardia Costiera

Irritata è sicuramente stata la reazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dichiaratamente “frustrata”,  e di tutti gli altri esponenti del governo espressisi contro una decisione nella quale hanno avvertito l’ennesima invasione giudiziaria di campo in tema di lotta all’immigrazione clandestina. Una invasione peraltro aggravata da almeno due circostanze. La prima delle quali è il riferimento della Corte di Cassazione all’obbligo del soccorso in mare che il governo, in particolare l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, avrebbe disatteso. Eppure quei migranti erano sulla nave della Guardia Costiera proprio perché soccorsi. E non rischiavano certamente l’affogamento in mare stando su quella nave.

La nave Open Arms

La seconda circostanza è la recente assoluzione con formula piena di Matteo Salvini in primo grado dall’accusa di sequestro di persona per un caso analogo accaduto nell’anno successivo, sfociato in un processo penale per l’autorizzazione data dal Parlamento dove era intervenuto un cambiamento di maggioranza. Per cui i grillini che avevano evitato a Salvini il processo per la vicenda della nave Diciotti lo permisero per l’analoga- ripeto- vicenda della nave Open arms, braccia aperte in italiano.

Questa seconda circostanza espone peraltro maggiormente Salvini al rischio di un ricorso contro la sua assoluzione con argomenti appesi anche alla decisione della Cassazione, sia pure a sezioni civili unificate, di considerare i pur immigrati clandestini trattenuti sulla nave Diciotti danneggiati tanto da meritare un risarcimento.

Dal Giornale

Di fronte a questo ennesimo prodotto dei rapporti anomali, a dir poco, fra giustizia e politica penso che la cosiddetta popolarità della magistratura abbia poco da guadagnare e molto da perdere ancora. Se ne vedranno gli effetti, credo, nel referendum sulla riforma costituzionale della giustizia all’esame delle Camere e contestata dal sindacato delle toghe. Cui la Cassazione non ha fatto un grande piacere con la sua provocazione, ai sensi – come si dice in gergo giuridico- del dizionario della lingua italiana.   

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