Quel riarmo europeo che non si vorrebbe chiamare col proprio nome

La vignetta di ItaliaOggi

Questa storia, condivisa anche dalla premier Giorgia Meloni parlandone ai giornalisti dopo il Consiglio europeo a Bruxelles, di volere sì riamarsi per potenziare la sicurezza dell’Unione ma senza parlare di riarmo, come ha fatto invece la presidente della Commissione Ursula von der Leyen formulando la sua proposta di piano regolarmente approvata, è un altro dei paradossi prodotti dallo scossone del presidente americano Donald Trump ai rapporti internazionali. Uno scossone che ha obiettivamente complicato il percorso della pace in Ucraina che lo stesso Trump ha voluto avviare dubitando, diciamo così, della volontà del presidente ucraino Volodymir Zelenski, “dittatore non eletto e comico mediocre”, di porre fine davvero alla guerra nel suo paese.

Titolo della Ragione

Dai dubbi di Trump sono derivati il bisticcio suo e del vice Vance con Zelensky nell’ufficio ovale della Casa Bianca affollato per un incontro alla presenza un po’ anomala di troppi ospiti, compresi giornalisti e teleoperatori, e poi la solidarietà riparatrice ottenuta dal presidente ucraino in varie sedi. Che sono stati il vertice internazionale promosso a Londra dal premier britannico e il Consiglio europeo ieri  a Bruxelles, dove Zelensky ha raccolto strette di mano e abbracci da tutti i partecipanti.  Convinti tuttavia, come lo stesso Zelensky scrivendo al presidente americano che se n’è vantato davanti al Congresso, che Trump ha sbagliato approcci, toni e quant’altro, anche nei riguardi dell’Unione europea concepita, secondo lui, per fregare gli alleati americani, ma ha la “forza” e l’autorevolezza di giocare la partita in corso con Putin. Che per sentirsi meglio a suo agio nella trattativa sulla pace in Ucraina ha ottenuto dal presidente americano il riconoscimento, non falso ma falsissimo, di non avere aggredito l’Ucraina con una dichiarata e vantata “operazione speciale”, bensì di essere stato aggredito dal paese limitrofo, evidentemente con la complicità di tutti quelli che lo hanno aiutato con soldi e armi, a cominciare dagli Stati Uniti dei tempi di Joe Biden alla Casa Bianca.

Vi ho raccontato, anzi vi sto raccontando non un film comico o tragicomico, con un comico di professione prestato alla politica come Zelensky e un politico ormai professionale prestato allo spettacolo come Trump, ma semplicemente e banalmente lo stato delle cose. E degli altri attori o comparse che partecipano allo spettacolo.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov

Vedremo se, quando e come tutto questo si tradurrà davvero in una pace in Ucraina, nell’Europa cui essa ha chiesto di aderire e, ancora più in generale, in un mondo ridisegnato dopo le carte scritte a Yalta a conclusione della seconda guerra mondiale. Vasto programma, avrebbe detto la buonanima del generale Charles De Gaulle, di cui ha raccolto la successione dopo tanti anni a Parigi il presidente Emmanuel Macron, appena paragonato a Mosca da Putin e ancor più dal suo ministro degli Esteri Lavrov a   Napoleone e a Hitler, in ordine anagrafico o storico.

Giuliano Amato tra rimpianti e ammissioni sul progressismo tradito dalla sinistra

Da Libero

“Ce la siamo meritata”, ha confessato, ammesso e quant’altro il mio amico e coetaneo Giuliano Amato in una intervista a Repubblica riflettendo e sfogandosi sul mondo rovesciato dal presidente americano Donald Trump agli occhi dei progressisti. Nei quali il due volte ex presidente del Consiglio, l’ex presidente della Corte Costituzionale, l’ex braccio destro di Bettino Craxi a Palazzo Chigi fra il 1983 e il 1987 si riconosce parlandone al plurale. E dicendo anche che “il tempo lungo” della loro storia “ce l’ho tutta dentro di me”.

Sono parole amare quelle di Giuliano e, in parte, anche di un’autocritica esagerata. Perché il progressismo sul quale egli si batte il petto, finito da noi nei salotti delle zone cittadine a traffico limitato e negli Stati Uniti negli “attici di Manhattan”, magari costruiti da Trump, non è quello in cui lui si è fatto le ossa sino alla prima scalata a Palazzo Chigi, Dove arrivò nel 1992 spinto da un Craxi messo ormai fuori gioco dal combinato disposto della Procura di Milano, col capo consultato in una crisi di governo, del Pci di Achille Occhetto e del Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro.

Giorgia Meloni

Il progressismo suicida, che ha fatto le fortune politiche in Italia prima di Silvio Berlusconi e ora di Giorgia Meloni, e di Trump in America, è quello di molte parole e pochi fatti, anzi pochissimi, se non niente in assoluto, che ha avuto la presunzione di vivere o addirittura di rigenerarsi nel deserto, come vedremo, del giustizialismo e dintorni. Un progressismo al quale Amato, a costo di rompere con un Craxi che gli diede del “professionista a contratto”, diede una mano nella sua seconda esperienza a Palazzo Chigi e altrove. Pur conservando -gli va riconosciuto- il merito e il coraggio di distinguersene. Come ha fatto nell’intervista a Repubblica difendendo la premier Meloni dal tentativo della sinistra di liquidarla come estranea alla liberaldemocrazia. E riconoscendole il merito di difendere in questa congiuntura internazionale terremotata l’Ucraina di Zelensky. “Non sembra -ha detto, sempre parlando della Meloni- che sia nelle condizioni di potersi sottrarre all’impegno comune europeo. E bisogna darle atto, nel suo intervento alla convention dei conservatori americani, di avere parlato di “aggressione russa”, formula scomparsa dal loro vocabolario”.

E’ la sinistra piuttosto, arrivatavi del resto col solito ritardo, che non riesce a stare al passo di quello che Amato ha chiamato – ripeto- “impegno comune europeo”. E’ bastata la parola “riarmo” usata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per parlare di come garantire maggiore sicurezza per fare venire le convulsioni a buona parte della sinistra, nel Pd di Elly Schlein e fuori.

La sinistra rimane quella di una cinquantina d’anni fa, che Amato dovrebbe ricordare bene. Quella che si tirò indietro dalla cosiddetta solidarietà nazionale -in qualche modo riproposta ora da Amato con un patto bipartisan di politica internazionale- non tanto per la morte di Aldo Moro, o per i voti che il Pci aveva paura di perdere, quanto per sottrarsi alla prospettiva che cominciava a delinearsi del riarmo missilistico della Nato. Sotto il cui “ombrello”, alquanto bucato o malmesso per gli SS 20 schierati dal blocco sovietico contro le capitali dell’Europa occidentale, Enrico Berlinguer era arrivato a dire di sentirsi “più al sicuro” nel perseguimento di un’autonomia dei comunisti italiani da Mosca.

Per non ammettere una realtà che smascherava la sua vera collocazione o linea Berlinguer si inventò, fra l’altro, la famosa “questione morale”, cavalcando la “diversità” della sua comunità politica da tutte le altre e seminando quel campo poi intitolato alle “Mani pulite”. Vi dice nulla questa formula, all’ombra del quale i comunisti italiani avrebbero poi cercato, solo in parte riuscendovi, di sopravvivere alla caduta del muro di Berlino e di tutto il resto? A me dice tutto, ancora. E dovrebbe dirlo anche a Giuliano Amato.

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