Più che di Zelensky che “apre a Trump”, come hanno titolato il Corriere della Sera ed altri giornali riferendo delle ultime dichiarazioni del presidente ucraino, pur reduce da un duro scontro col presidente americano alla Casa Bianca, si dovrebbe scrivere e titolare che Zelensky si fida degli europei, aderenti e non all’Unione, e degli altri occidentali. Che gli hanno confermato solidarietà e appoggio, in incontri bilaterali o vertici sulla sicurezza, e chiesto, a loro volta, di continuare o tornare a fidarsi di Trump. Anche dopo essere stato trattato a Washington in un modo che ha sorpreso tutto il mondo, compreso Putin, che pure dallo spettacolo in diretta televisiva dall’ufficio ovale della Casa Bianca ha tratto vantaggio politico e mediatico in vista delle trattative sulla pace da restituire, augurabilmente con la sicurezza e la integrità della più grande parte del territorio di un paese che ha l’unica colpa, o inconveniente, di confinare con la Russia.
Dalla Stampa
Solo in questi termini si può capire e spiegare l’interlocuzione con gli Stati Uniti, scambiata dalla Stampa addirittura per “resa”, che il presidente ucraino ha deciso di non compromettere pur dopo l’agguato -come in molti lo hanno definito-tesogli alla Casa Bianca soprattutto dal vice presidente americano Vance. Che ha finito per prendere la mano, e fortunatamente non anche i piedi, a Trump.
E’ augurabile ora che europei, interni ed esterni all’Unione, a cominciare naturalmente dalla prenier italiana Giorgia Meloni, non facciano pentire Zelensky della fiducia ch’egli ha riposto in loro. Sarebbe un guaio anche per l’Europa, che non sono è separata dall’Ucraina dall’oceano che separa la stessa Europa dagli Stati Uniti.
Non so da chi possa o debba sentirsi disturbata, o minacciata, di più sul filo dell’equilibrista dove molti la indicano in questi giorni di grande esposizione sul piano internazionale. Un’esposizione superiore a quella del suo ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani.
Non so, in particolare, se su quel filo le diano più fastidio, o le procurino più distrazioni, le intemperanze del presidente americano Donald Trump. Col quale pure vanta un rapporto “speciale”, servitole molto nella vicenda della liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala dal carcere iraniano dove era stata rinchiusa per scambiarla di fatto con un trafficante e altro di droni finito in manette in Italia su richiesta americana, ma protetto da Teheran. O quelle -parlo sempre delle intemperanze- dell’ancora amico e leader della Lega Matteo Salvini, che è l’altro dei suoi due vice presidenti del Consiglio. Quello più trumpiano forse dello stesso Trump, della moglie ogni tanto defilata, del vice Jean David Vance, dell’animatore, finanziatore e quant’altro Elon Musk e del presidente argentino Javier Milei. Che non porta ma indossa la pur ingombrantissima e lucida motosega d’ordinanza.
Giorgia Meloni al vertice di Londra sulla sicurezza
Potrebbero disturbare l’”equilibrista” Meloni -nel Circo internazionale e interno della crisi ucraina, paradossalmente aggravatasi sulla strada della pace dopo tre anni e più di guerra scatenata dalla Russia di Putin- anche le intemperanze di un altro suo amico che è Volodymir Zelensky. Che la settimana scorsa -come gli hanno rimproverato anche estimatori suoi e della Meloni in Italia- è andato alla Casa Bianca per firmare un accordo con Trump e ne è uscito cacciato per averne contestato troppo la troppa fiducia riposta in Putin, sin quasi a scambiarlo da aggressore ad aggredito nella cosiddetta “operazione speciale” ordinata per la “denazificazione”, addirittura, dell’Ucraina.
Per sua fortuna politica la Meloni sul filo, ripeto, dell’equilibrista attribuitole a torto o a ragione non deve guardarsi dalle urla e dagli attacchi delle opposizioni in Italia. Che sono ancora più divise della maggioranza di centrodestra: divise fra sostenitori di Zelensky, sostenitori di Trump e sostenitori del nulla, o quasi. Opposizioni aspiranti ad un’alternativa al centrodestra che si dissolve ogni volta che deve affrontare un problema spinoso, di genere prevalente fra quelli di un governo reale o potenziale.
Meloni e Zelensky a Londra
La Meloni rischierebbe di cadere dal filo su cui si muove a braccia aperte se si mettesse a ridere, come forse avrebbe il diritto di fare, contemplando sotto i suoi piedi la povera segretaria del Pd Elly Schlein. Che le dà della fuggiasca e del coniglio anche nello scontro fra Trump e Zelensky ma non è riuscita, nel suo ufficio al Nazareno, a individuare una piazza dove farsi vedere, quanto meno, tra cartelli e grida a favore del presidente ucraino. E tutto per non perdere la ricerca “testarda” di un rapporto “unitario” col Conte, Giuseppe, del pacifismo senza se e senza ma.
Quello della Schlein è un po’ uno spettacolo esoterico, aggravato dalla impossibilità della segretaria del Pd in un eventuale dibattito parlamentare, che pure reclama un giorno sì e l’altro pure, di affrontarne la conclusione con un voto comune di tutte le opposizioni su un documento alternativo a quello della maggioranza. Sul quale invece la premier può contare, come è sempre avvenuto sinora nei passaggi parlamentari difficili, nonostante le intemperanze verbali di Salvini o di Tajani, o di entrambi.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere e frequentare Francesco Cossiga non si stupirà del racconto fattone da Marco Follini in un capitolo del suo “Beneficio d’inventario” appena pubblicato dall’editore Neri Possa. Un capitolo che il mio amico Marco ha dedicato appunto a Cossiga cogliendo lo spunto dal ricordo di una telefonata natalizia nella quale l’ormai presidente emerito, cioè ex presidente della Repubblica, gli fece un po’ per inorgoglirlo -contando su una loro comunione di idee, sentimenti e umori- e un po’ per divertirsi all’idea di poterlo amichevolmente mettere in imbarazzo.
Il libro di Marco Follini fresco di stampa
Cossiga rivelò in quell’occasione al democristianissimo Marco Follini- graduato già con i pantaloni corti, o quasi, capeggiando il movimento giovanile dello scudocrociato- che suo padre, scomparso da poco, era stato “uno dei capi di Gladio”. Così si chiamava l’organizzazione segreta allestita in Italia, d’intesa con gli americani, per tenere il paese preparato, al di là delle strutture militari ufficiali, ad una invasione sovietica. Un’organizzazione della quale l’ultratlantista Cossiga, informatone già quando gli era capitato di fare il sottosegretario al Ministero della Difesa, era fiero. A differenza di altri che ai vertici o sottovertici governativi e istituzionali finsero di non sapere, e non gradire, quando ne fu rivelata l’esistenza.
Con la notizia del padre fra i “capi” di Gladio l’ormai ex presidente della Repubblica rivelò a Marco Follini un segreto ulteriore del già ex segreto ormai di quell’organizzazione giustificata dalle contingenze post-belliche, dovendosi prevedere anche la violazione degli accordi spartitori dell’Europa raggiunti a Yalta fra i vincitori della seconda guerra mondiale, La cosa -disse Cossiga a Follini, prima di fargli gli auguri di Natale- “forse non ti piacerà o forse magari sì”.
In un’intervista al Corriere della Sera Follini ha dato ieri l’impressione, a torto o a ragione, di una sorpresa scomoda. Ma leggendo il capitolo del suo libro pubblicato sulla Stanpa, sempre di ieri, ho avuto un’impressione diversa. Quella di un figlio sorpreso sì delle notizie ricevute sul padre, ma senza disappunto, incredulità e quant’altro. Del resto, idee, frequentazioni e ambienti del padre di Follini non potevano limitarne la figura ad un giornalista scientifico con lunga e meritata carriera alla Rai. La sua appartenenza ai vertici di Gladio era compatibile con la sua storia personale.
Aldo Moro e Francesco Cossiga
“Il presidente -ha scritto Follini di Cossiga dopo averne raccontato la confidenza familiare- era sempre stato per me un piccolo mistero. Perennemente in bilico tra la solennità della sua carriera e la compiaciuta ma tragica complessità del suo carattere”. Tragica come molte delle vicende da lui vissute nella sua attività politica, a cominciare dal sequestro e dalla lunga prigionia dell’amico e maestro Aldo Moro, ucciso dalle brigate rosse 55 giorni dopo l’agguato in via Fani tra il sangue della scorta che aveva fallito in quella rivelatasi come la sua ultima missione: il trasporto del presidente della Dc da casa alla Camera per la presentazione del secondo governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti a maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”, comprensiva del partito comunista di Enrico Berlinguer.
Cossiga, ministro dell’Interno in quel periodo forse anche più misterioso della Repubblica, portato al Viminale dallo stesso Moro qualche anno prima, è stato descritto efficacemente da Follini nel suo libro come un uomo che “poteva essere inappuntabile come un cadetto asburgico o scherzoso come un fool shakesperiano”. “Una parte di lui, quella che aveva lungamente determinato le sue fortune, era ufficiale, istituzionale, notabilare, pienamente aderente a tutti gli aulici codici del protocollo, alle volte anche con qualche enfasi di troppo….” ma poi incline a “evasioni” per arrivare “laddove nessuno avrebbe mai immaginato che si fosse potuto rintanare”. A Cossiga sarebbe piaciuto – credo- riconoscersi in questa descrizione.