Zelensky battuto e cacciato dal ring allestito da Trump alla Casa Bianca

Le due torri gemelle di New York nel 2001

Le immagini televisive della lite alla Casa Bianca fra Donald Trump e Volodymir Zelensky mi hanno procurato la stessa, devastante impressione delle due torri gemelle di New York l’11 settembre del 2001 sotto l’attacco terroristico. Oriana Fallaci le vide e descrisse dalla sua casa come due fiammiferi che ardevano.

Come mai avrei immaginato lo spettacolo di quelle due torri, tanto da scambiarle a prima vista per un film, così mai avrei immaginato che Trump e Zelensky, in ordine non solo alfabetico, se le sarebbero dette e metaforicamente date così tanto davanti alle telecamere in un incontro o “agguato” -secondo Repubblica- in un cui le parole sono volate come schiaffi o pugni. Uno spettacolo del quale porta le maggiori responsabilità Trump non solo come padrone di casa ma anche come un attore dichiaratamente compiaciuto, alla fine, della sua prestazione, nel massimo della trasparenza. Che non è sempre una virtù, come dimostra la necessità della diplomazia avvertita e praticata da tempo, almeno sino a un momento prima dell’incontro di ieri.

Alle rovine dell’Ucraina dopo più di tre anni di guerra cominciata dalla Russia di Putin fra la distrazione di Trump, che prima ancora di riceverlo aveva attribuita a Zelensky l’attacco per compiacere lo zar o lo Stalin di turno. Che temo non glielo avessero neppure chiesto, tanto pubblicamente e orgogliosamente il Cremlino aveva annunciato il 24 febbraio 2022 l’invasione dell’Ucraina considerandola una “operazione speciale” di “denazificazione” da concludere in tre giorni. E non nei quindici indicati da Trump all’ospite, diciamo così, ucraino come il termine entro il quale i russi avrebbero portato a termine il loro progetto se non fossero stati sorpresi dagli aiuti occidentali all’Ucraina. Con i quali Zelensky, secondo Trump, avrebbe “giocato con la terza guerra mondiale”.

Trump -ho sentito dire ieri in televisione da Italo Bocchino, ospite del salotto di Lilli Gruber su La 7- è stato con Zelensky come gli americani lo hanno voluto e lo vorrebbero ancora. Si tratta però dello stesso Zelensky col quale la premier italiana Giorgia Meloni, di cui Bocchino è abitualmente invitato a prendere le difese solo contro tutti, ha un rapporto speciale quanto con Trump.

Dal Foglio

 Siano solo agli inizi di un film giallo di cui temo che gli stessi protagonisti, attori e comparse non conoscono la fine, pur fingendo di averla in testa o di poterla condizionare. Non si può neppure augurare una buona visione, tanto pauroso e tragico è il contesto dello spettacolo, anche se Giuliano Ferrara sul Foglio è riuscito ad avvertire “il lato comico dell’Apocalisse”.  

Ripreso da http://www.startmag.it

La caccia, anzi la corte dei magistrati ai “grandi avvocati” nella lotta al governo

Da Libero

Evidentemente consapevoli della scarsa attendibilità, diciamo così, di quel vantato 80 per cento di adesioni dei magistrati allo sciopero contro il governo e la sua riforma della giustizia-  -cui molti hanno aderito virtualmente, senza in realtà parteciparvi per non subire trattenute sullo stipendio- i tifosi dell’associazione nazionale delle toghe hanno improvvisato una caccia. Anzi una corte ai “grandi avvocati” che, in dissenso dai loro colleghi meno famosi ma largamente maggioritari, hanno criticato anch’essi la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Nella quale il sindacato delle toghe vede un disegno di asservimento delle Procure al governo. E liquida come bugie o truffe le smentite opposte da un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, di lunga esperienza maturata nella pubblica accusa quando faceva il magistrato.

Toghe in sciopero

La caccia -o la corte, ripeto- ai “grandi avvocati” solidali con le preoccupazioni e le proteste del sindacato delle toghe, anche nella nuova gestione del presidente Cesare Parodi e del segretario Rocco Manuotti, ha portato al quasi arruolamento di Guido Alpa e di Franco Coppi.

Di Franco Coppi, invece, mi sento di dire qualcosa, nonostante egli abbia mandato in brodo di giuggiole i compiaciuti dello sciopero dichiarando di non avere avvertito l’influenza delle carriere non separate fra giudici e pubblici ministeri in nessuna delle cause che è gli toccato di perdere.

Di Guido Alpa, pur di simpatie notoriamente socialiste, non dico nulla.  Può darsi che l’ex premier Giuseppe Conte, uscito un po’ dalla sua scuderia universitaria e legale, abbia preso da lui anche la preferenza per la carriera unica, sostenuta dal MoVimento 5 Stelle di cui lo stesso Conte è presidente. E forse persino imperatore, dopo tutti gli strappi col fondatore “sopraelevato” Beppe Grillo.

L’avvocato e senatrice Giulia Bongiorno

Di Franco Coppi è abbastanza nota non solo l’assistenza legale ma anche la simpatia maturata nei rapporti con Silvio Berlusconi. Di cui basta il nome ormai per capire l’opinione che aveva dei magistrati. Altrettanto noto è il fatto che sia uscita dalla scuderia forense di Coppi addirittura Giulia Bongiorno. Che unisce adesso la sua esperienza di avvocato a quella politica, di presidente della Commissione Giustizia del Senato, nella convinzione che la separazione delle carriere giudiziarie sia la naturale conseguenza del “giusto processo”. Esso “si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Parole che non si è inventate Giulia Bongiorno ma si trovano nell’articolo 111 della Costituzione aggiornato nel 1999, e stampato nelle copie curiosamente sventolate dai magistrati nei tribunali e fuori scioperando contro la riforma all’esame del Parlamento, E’ passato abbastanza tempo, credo, per garantirne davvero, e finalmente, l’applicazione.

L’aggiornamento costituzionale del 1999 non fu introdotto per capriccio o distrazione, peraltro a larga maggioranza. Ma per il combinato disposto del processo riformato, da inquisitorio ad accusatorio, ai tempi del ministro socialista della Giustizia Giuliano Vassalli, nel 1989, e dell’aggiramento subito dopo qualche anno con la pratica dei processi targati Tangentopoli. O “Mani pulite”, come i magistrati vollero chiamare con enfasi igienica le loro indagini sul finanziamento illegale dei partiti. Allora- con la certificazione, che non mi stancherò mai di ricordare, di Giorgio Napolitano in una lettera scritta e pubblicamente diffusa dal Quirinale alla vedova di Bettino Craxi nel decimo anniversario della morte del marito in terra tunisina- si verificò un “brusco spostamento degli equilibri nel rapporto fra politica e giustizia”.  Cioè uno squilibrio, al quale in troppi si sono abituati, nei tribunali e fuori. E’ questa la verità alla quale vogliono sfuggire con i loro scioperi i magistrati scambiando per “vendetta” ogni tentativo davvero riformatore per riequilibrare ciò che è stato “bruscamente” -ripeto- oltre che surrettiziamente cambiato una trentina d’anni fa.

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