Quanto spreco di parole nella vicenda del sottosegretario Delmastro imputato “coatto”

La premier Giorgia Meloni col sottosegretario Delmastro

Per avere definito “abnorme” -nel senso anche di inusuale, oltre che esagerato-la condanna del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro alla pena, sospesa, di 8 mesi di reclusione per violazione del segreto d’ufficio, nonostante l’assoluzione chiesta dalla pubblica accusa trasformatasi in questo caso in pubblica difesa, il direttore di Libero Mario Sechi si è guadagnato, diciamo così, una mezza lezione di diritto dall’ex magistrato, ex parlamentare del Pd e ora solo scrittore Gianrico Carofiglio. Che nel salotto televisivo di Lilli Gruber, alle otto e mezzo di sera, ha trovato normale, anzi normalissima, la condanna inflitta in primo grado al sottosegretario in difformità dalla richiesta di assoluzione da parte dell’accusa. E ha condiviso con gravità di parole, gesti e sguardo le dimissioni dell’interessato reclamate dalle opposizioni. Dimissioni che non ci saranno, avendo il sottosegretario ricevuto la solidarietà della premier Giorgia Meloni, “sconcertata” dalla sua condanna, e del ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Anche a costo di essere smentito da qualche ricercatore statistico più o meno improvvisato e attrezzato, ritengo non normale, usuale e simili una condanna, pur simbolica oltre che provvisoria, a 8 mesi sospesi -ripeto- di carcere emessa contro un imputato non accusato ma sostenuto dal pubblico ministero. Che aveva già chiesto l’archiviazione alla fine delle indagini preliminari promosse da un deputato dell’opposizione con un solerte esposto. E, ad imputazione “coatta” disposta dal giudice, non ha trovato nel dibattimento processuale elementi per cambiare idea, chiedendo l’assoluzione.

Gianrico Carofiglio

Carofiglio avrà dimestichezza, per carità, col giuridichese e con le parole comuni nella composizione dei suoi libri di meritato successo, più gratificante rispetto a quello avuto dallo scrittore nelle precedenti esperienze, ma a me la condanna del sottosegretario Delmastro continua -ripeto- ad apparire abnorme, inusuale. E perciò sospetta. Cioè sospettabile di ambientalismo politico, diciamo così. Che mi auguro di non avvertire nei successivi gradi di giudizio, in attesa dei quali vale naturalmente l’articolo 27 della prima parte della Costituzione, sui “doveri e diritti dei cittadini”, precedente alla seconda sull’ordinamento della Repubblica, comprensiva del titolo sulla magistratura, ordinamento giurisdizionale eccetera eccetera. Quel benedetto articolo dice con chiarezza persino stentorea: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Tanto più  l’imputato“coatto”, cioè processato contro il parere, la richiesta e quant’altro della pubblica accusa.

Il fascino perduto del silenzio, cui il politico ha diritto come alla parola

Dal Dubbio

Dio mio, non per cullarmi nostalgicamente nella vecchiaia ma per constatare e cercare di capire meglio l’evoluzione della politica e dei modi di raccontarla, com’è cambiato il trattamento giornalistico del silenzio. Una volta esso veniva rispettato dai cronisti, che ci lavoravano sopra con indiscrezioni, immaginazioni, intuizioni, bufale e quant’altro.

Ora i silenzi dei politici sono vissuti solo come fastidiosi paracarri e dispetti all’informazione, che reagisce processandoli come se fossero reati, dai quali difendersi con tanto di avvocati. Che non sempre riescono a fare bene il loro mestiere improvvisato, come mi è apparso, francamente, Italo Bocchino l’altra sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber. Dove la premier Giorgia Meloni era attaccata dalla conduttrice e dagli altri ospiti per non essersi espressa subito sugli insulti del presidente americano Trump al presidente ucraino Zelensky.

Attilio Piccioni

Quasi 70 anni fa, esattamente nel 1954, Attilio Piccioni, che aveva già rinunciato l’anno prima per l’opposizione dei socialdemocratici all’incarico di presidente del Consiglio conferitogli dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi per succedere ad Alcide Gasperi, sorprese tutti non provandoci neppure quando il Capo dello Stato gli chiese di succedere invece ad Amintore Fanfani. Egli fu  trattenuto dalla paura, non infondata, di vedere coinvolto ingiustamente il figlio Piero nel giallo della morte di Wilma Montesi. Tutti capirono, nessuno infierì.  

Amintore Fanfani

Quattro anni dopo, nel 1958, toccò ad Amintore Fanfani opporre addirittura la sua irreperibilità alle dimissioni multiple da presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e infine segretario della Dc: tutti incarichi che, diavolo di un uomo, egli aveva voluto ricoprire contemporaneamente, riuscendo lo stesso a trovare il tempo di riposare e dipingere.

Aldo Moro

Dieci anni dopo, nel 1968, toccò all’altro “cavallo di razza” della Dc, Aldo Moro, opporre il silenzio ai giornalisti dopo avere praticamente vinto le elezioni politiche da presidente del Consiglio ma perso l’appoggio dei suoi ormai ex colleghi di corrente Mariano Rumor, Flaminio Piccoli ed altri. Che lo accusavano di essere stato troppo paziente con i socialisti, ai quali tuttavia essi offrirono poi un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra ancora col trattino, non più “delimitato” a sinistra nei rapporti col Pci.

Moro non si rese irreperibile, maturando la decisione di accettare la sfida, passare all’opposizione interna e scavalcare gli amici a sinistra. Continuò a frequentare gli stessi posti, a cominciare dalla spiaggia di Terracina, ma con la bocca a lungo cucita.

Carlo Cottarelli

Più recentemente, o meno lontano nel tempo, ricordo il silenzio di Carlo Cottarelli nel 2018 accettando l’incarico di presidente del Consiglio da Sergio Mattarella ma lasciando che il dimissionario Giuseppe Conte continuasse in privato le trattative con i leghisti per formare infine il primo dei suoi due governi. Cottarelli semplicemente rinunciò sorridendo.

Pubblicato sul Dubbio

Il silenzio imbarazzato della Meloni, che preferisce correre dal Papa in ospedale

Da Avvenire

         Dopo gli insulti del presidente americano Donald Trump al presidente ucraino Volodymir Zelenslky- “dittatore mai eletto, comico mediocre” e altro- a chi non sarebbe piaciuto sentire un commento della premier italiana Giorgia Meloni, stretta fra il “rapporto privilegiato” col primo e la simpatia pubblicamente e ripetutamente manifestata al secondo? Invece la Meloni è corsa dal Papa, ricoverato al Policlinico Gemelli, per informarci poi di averlo trovato del solito buon umore, nonostante la polmonite bilaterale.  

Dal Fatto Quotidiano

Al silenzio comprensibilmente imbarazzato della Meloni su Trump e Zelensky che si prendono ormai  “a pesci in faccia”, come hanno titolato al Fatto Quotidiano, è stato fatto ieri sera un processo nel salotto televisivo della solita Lilli Gruber spalleggiata dall’altrettanto solito Massimo Giannini. Ma il silenzio non può diventare una colpa, o persino un reato. E’ un’arma come altre della politica, cui hanno fatto ricorso anche leader della statura di Aldo Moro.

l silenzio è migliore di un giudizio affrettato, come penso sia stato quello espresso da Trump su Zelensky, pur provocato dalla “disinformazione” rimproveratagli dal presidente ucraino.

         Chi del resto può davvero dire di essere bene informato sul conto dell’inquilino del Cremlino?  Che forse è il primo a non conoscersi abbastanza dopo essere stato un comunista, a capo addirittura dei servizi segreti dell’allora Unione Sovietica, e un anticomunista, raccogliendo l’eredità di Boris Nicolaevic Eltsin, il primo presidente della Russia post-sovietica. Poi ha scoperto e stabilito una continuità, al rovescio, fra lui, Pietro il Grande e Stalin. Il quale concluse sì la seconda guerra mondiale alleato con gli americani contro Hitler ma avendola cominciata spalleggiando il dittatore nazista nelle aggressioni in Europa e spartendosi con lui la Polonia. Ah, quanto è scomoda la storia.  

Zelensky e Biden d’archivio

         Diventerà storia, prima o dopo, anche la confusa cronaca di questi giorni, fatta ancor prima che del negoziato per la pace in Ucraina, dei suoi preparativi o dalla sua premessa a Riad, dopo tre anni di guerra cominciata con l’invasione delle truppe russe chiamata “operazione speciale”. Che Putin, disinformatissimo, credeva di concludere in tre giorni, on l’uccisione di Zelensky a Kiev, o con la sua fuga prevedibilmente negli Stati Uniti di Joe Biden. Dove sarebbe stato accolto, credo, se lui avesse voluto davvero andarvi abbandonando, cioè tradendo il suo paese e il suo popolo. Ora Zalensky rischia, con Trump al posto di Biden alla Casa Bianca, di pagare carissimo il suo coraggio, senza neppure essere restituito al teatro, visto che sarebbe “mediocre”, ripeto, anche come attore agli occhi, alle orecchie, alle viscere e ai capelli del presidente americano in sintonia con Putin. Ma non con la Meloni, spero non foss’altro perché non vedo che vantaggio politico potrebbe lei ricavarne, essendo cresciuta alla Garbatella e operando in Europa.

L’accanimento di Macron nella pratica dei vertici europei “informali”

Dal Corriere della Sera

Come il trumpismo “imperiale” lamentato oggi sul Corriere della Sera da Sabino Cassese Trump può appartenere alla serie dei mali che non  vengono tutti per nuocere, se produrrà  in Europa la consapevolezza della pericolosità del suo percorso unitario troppo lento e spesso pasticciato, così l’annuncio del presidente francese Emmanuel Macron di un altro vertice informale e parziale, ma soprattutto al di fuori delle sedi e procedure istituzionali dell’Unione, appartiene alla serie degli errori che sono umani quando compiuti una volta o ogni tanto, ma diabolici se persistenti.

Mario Dragi all’Europarlamento

         Quello di Macron è un accanimento contro l’occasione pur avuta dall’Unione Europea -che ha sede a Bruxelles e istituzioni concordate in tanto di trattati-  di serrare le file e di darsi davvero una comune politica estera e di difesa. Come auspicata, raccomandata e quant’altro dall’ex premier italiano ed ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi parlando non in qualche circolo Rotary ma al Parlamento. E dopo uno studio affidatogli dalla presidente della Commissione dell’Unione presieduta da Ursula von der Leyen. Alla quale Macron ha fatto non la cortesia ma la scorrettezza, di invitarla come ospite al “suo” primo vertice.

Ursula von der Leyen

         Eppure Ursula von der Leyen è al suo primo anno del secondo mandato mentre Macron è al terzo del suo secondo e ultimo mandato quinquennale, debole ormai come una foglia sull’albero d’autunno, in grado di promuovere solo governi di sostanziale minoranza, quasi stagionali. E ciò in un Parlamento fatto rinnovare in anticipo dallo stesso Macron nella presunzione di potervi coltivare maggioranze stabili

La “reggia” di Macron a Parigi

         Che quest’uomo possa promuovere, guidare e portare con le sue iniziative “informali”, ripeto, alla vittoria la resistenza dell’Unione Europea al trumpismo da cui anche lui la sente minacciata, è una prospettiva alquanto incerta. Quella del presidente francese più che una terapia di ripresa è un accanimento. Più che forza, è debolezza decorata di stucchi in quella reggia presidenziale che è  l’Eliseo. Prima o dopo qualcuno glielo dovrà gridare, visto che non basta dirglielo o farglielo capire a bassa voce, o con tatto diplomatico. Come ha cercato di fare, per esempio, ieri nei cinque minuti da Bruno Vespa il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani raccomandando compostezza e non “panico” o vanità. Non è più il tempo in cui Parigi valeva bene una messa.  

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Il vertice europeo a vuoto a Parigi mentre americani e russi si occupano di Ucraina a Riad

La riunione all’Eliseo

         A parte il cerimoniale all’altezza delle abitudini e delle ambizioni del padrone di casa, che ha selezionato gli ospiti fuori e dentro l’Unione Europea facendo torto agli esclusi e non riuscendo neppure ad accontentare i presenti, il vertice di Parigi improvvisato dal presidente francese Emmanuel Macron non ha risolto alcun problema in vista del negoziato per la pace in Ucraina. Di cui Trump e Putin hanno deciso di assumersi la paternità mandando a Riad le proprie delegazioni per prepararlo.

Giorgia Meloni all’arrivo

         Neppure la telefonata che ha voluto fare prima del vertice al presidente americano ha consentito a Macron di offrire agli ospiti qualche spiraglio. Il presidente americano non ha avuto evidentemente la voglia o l’interesse, o né l’una né l’altro, di dargli una mano. Probabilmente compiaciuto, piuttosto, dell’immagine europea ridotta già nella scelta di Parigi, e non di Bruxelles, per l’incontro.

Dalla Stampa

         La delusione di Macron è risultata evidente al termine del vertice sul suo volto terreo mentre accompagnava all’uscita la premier italiana Giorgia Meloni, che non aveva potuto ricevere all’arrivo, come gli altri, perché giunta in ritardo, a riunione già cominciata. E arrivata -temo- più per cortesia che per convinzione, essendole stata attribuita senza alcuna smentita o precisazione la preferenza per un Consiglio straordinario dell’Unione nella sede propria di Bruxelles.

Il cancelliere tedesco Sholz

         Il più contrariato di tutti, oltre che il primo ad allontanarsi, è stato il cancelliere tedesco Olaf Sholz, forse perché diretto ad un appuntamento ancora più scomodo dell’Eliseo. Che è quello con gli elettori della Germania, chiamati alle urne per chiudere anche formalmente col voto anticipato di domenica prossima il cancellierato socialdemocratico succeduto a quello popolare, in senso democristiano per la vecchia anagrafe politica italiana, di Angela Merkel.  

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Le piazze che Conte sogna di riempire di affamati per rovesciare il governo…

Da Libero

Se n’erano perse un po’ le tracce, anche se i telegiornali ogni tanto ce lo propongono nelle immagini di repertorio mentre cammina sempre a passo spedito verso qualcosa, ma l’ex presidente del Consiglio e adesso solo di quel che resta del MoVimento chiamato ancora 5 Stelle, strappato al fondatore Beppe Grillo, è fra noi davvero. E cammina spedito, come al solito, anche leggendone un’intervista rilasciata alla Stampa, verso la piazza intesa in senso largo. Dove egli vorrebbe contestare un governo e, più in particolare, una premier responsabili della miseria in cui starebbero trascinando il paese a furia di scodinzolare, obbedendo sia a Trump sia all’Unione Europea.

L’uno e l’altra, in verità, almeno al momento, non sono proprio allineati, ma Conte li allinea lo stesso pur di proporsi come il guerriero del popolo, dopo avere esordito politicamente come il suo avvocato, ai tempi del primo governo, quando tuttavia interrompeva le sue arringhe in Parlamento chiedendo prudentemente ai suoi due vice presidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, se certe cose le potesse dire o no.

         Anche l’intervistatore Alessandro De Angelis deve essere stato colto da qualche dubbio inseguendo parole e concetti dell’ex premier nella corsa verso la piazza. Sino a  chiedergli prudentemente e al plurale maiestatis delle 5 stelle: “Andate in piazza con i vostri alleati?”. Che sulla carta, pur stropicciata fra veti, distinzioni e simili, dovrebbero essere i partiti dichiaratamente di opposizione: dal Pd di Elly Schlein all’Italia Viva di Matteo Renzi, dalla sinistra radicale di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli ad Azione di Carlo Calenda e a + Europa di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, più altri cespugli di varia anima, denominazione e ambizione.

Giuseppe Conte alla Stampa

         “I nostri primi alleati -ha risposto Conte, sempre a passo sostenuto- sono i cittadini, quell’Italia che non si rassegna al declino, all’impunità di chi sente intoccabile e al di sopra della legge”. Anzichè al di sotto, come una certa magistratura abituata da una trentina d’anni e più a esondare cerca di mettere i politici scomodi o antipatici di turno.

         “I cittadini”, dice Conte con piglio giacobino, appreso a scuola studiando magari la rivoluzione francese. I cittadini che hanno pagato a caro prezzo la “sconfitta della povertà” annunciata dal balcone di Conte a Palazzo Chigi senza paura del ridicolo sformando la prima di una certa serie di misure demagogiche, o semplicemente avventate prima nelle previsioni e poi nella gestione.

        I cittadini affamati e in miseria che Conte sogna sinistramente di trascinare in piazza per travolgere un governo che disporrebbe, nella sua visione, di una forza arbitraria nel Parlamento pur aperto dai grillini come una scatola di tonno, sono magari quelli che lo stesso Conte vede uscire o entrare nei ristoranti davanti ai quali passa ad andatura svelta e non sono ancora consapevoli della loro intima, prenotata miseria. I cittadini in attesa dei quali si sono già consumate altre avventure qualunquistiche nella storia italiana, pur riconoscendo -per carità- che questa che Conte ha ereditato da Beppe Grillo si è rivelata più resistente del solito.

         Ancora oggi le 5 Stelle, pur dopo precipizi locali come quelli dell’anno scorso in Liguria e in Emilia Romagna, vagano nei sondaggi sopra il dieci per cento dei voti. Che forse dà a Conte l’ebbrezza, pur in un sistema elettorale non più proporzionale come una volta, di sentirsi essenziale come lo fu a suo tempo, per esempio, il partito di Bettino Craxi. O di Ghino di Tacco, come lo definì una volta Eugenio Scalfari pensando di ferire a morte l’allora presidente del Consiglio, che invece da allora preferì firmare così i corsivi che mandava al giornale del suo partito da Palazzo Chigi. Dove il leader socialista riuscì a governare per tre anni , e per niente male, pur tra continui preannunci di crisi stampati come manifesti dalla Repubblica di carta di Scalfari, appunto. Altri tempi, altri uomini, altre stelle….

Pubblicato su Libero

Gli effetti collaterali, e provvidenziali, degli attacchi da Mosca a Mattarella

Dal Dubbio

Appartengono alla serie dei mali che non vengono tutti per nuocere, come la frusta di Trump che potrebbe aiutare il processo di integrazione europea, anche i ripetuti attacchi, di venerdì scorso e di ieri, da Mosca al presidente della Repubblica italiano Sergio Mattarella. Che già al primo assalto la premier Giorgia Meloni aveva difeso anche “a nome del governo” per la “blasfemia” contestatagli dalla portavoce del Ministero degli Esteri, avendo egli equiparato l’aggressione di Putin all’Ucraina a quelle di Hitler ai paesi limitrofi, propedeutiche alla seconda guerra mondiale. La portavoce del ministro Lavrov vi è tornata per avvertire, minacciare e quant’altro che il discorso del presidente della Repubblica italiana non rimarrà “senza conseguenze”.

         La solidarietà piena della Meloni  a Mattarella -pure lei, del resto, schierata con l’Ucraina dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale” annunciata a Mosca per “denazificarla”, quando era ancora all’opposizione e a Palazzo Chigi governava Mario Draghi- ha fatto cadere la mannaia sulla rappresentazione delle difficoltà temperamentali e politiche nei rapporti fra la premier e il Capo dello Stato.  Anzi, della “Nazione”, come la presidente del Consiglio preferisce dire parlando dell’Italia.

         La sintonia con Mattarella, che di suo aveva già più volte ammonito le opposizioni a non arruolarlo forzandone parole e silenzi, e chiedendogli di non firmare questa o quella legge ad esse sgradita, è stata ed è ancora di più per la Meloni, di fronte all’offensiva reiterata di Mosca, un elemento di forza nel ruolo che le eccezionali condizioni internazionali le consentono o richiedono. Anche al di là del vertice europeo “informale” improvvisato da Macron a Parigi a scapito dell’autorevolezza di Bruxelles.

         In una Europa che Trump vuole o immagina estranea al processo o negoziato di pace per l’Ucraina, ritenendo prevalenti, se non addirittura esclusivi, gli interessi russi e americani nel conflitto ucraino, la Meloni è quella che ha maggiori spazi di manovra per mediare o ammortizzare i colpi. Li ha per la stabilità del suo governo, maggiore rispetto agli altri nell’Unione europea, e per i rapporti personali col presidente degli Stati Uniti.

         Non c’era solo amicizia e colleganza partitica con la Meloni ma valutazione concreta e realistica della situazione, avvertita come ministro della Difesa, nelle parole spese da Guido Crosetto nei giorni scorsi, fra Corriere della Sera e Repubblica, a proposito della premier.

Guido Crosetto a Repubblica

         “In questo momento se io fossi in loro -ha detto Crosetto, in particolare, a Repubblica, dopo avere rilevato la necessità o opportunità che i 27 paesi dell’Unione trovino “di volta in volta una persona” cui delegare la loro rappresentanza- chiederei a Giorgia Meloni per il rapporto privilegiato che ha da anni con Trump, di provare a svolgere il ruolo di mediatore”. “Il rischio dell’Europa è che invece deflagri”, ha avvertito il ministro della Difesa guardando o pensando a Bruxelles.

Pubblicato sul Dubbio

Dalla vanità di Parigi alla realtà di Riad nel negoziato sulla sorte dell’Ucraina, e non solo

         Il protagonismo del presidente francese Emmanuel Macron, che ha improvvisato -peraltro faticosamente- un vertice europeo soltanto e dichiaratamente informale, allargato alla Gran Bretagna e al segretario generale della Nato, non ha naturalmente fermato o rallentato la ruspa del presidente americano Donald Trump. Che ha mandato i suoi uomini a Riad per procedere nella preparazione dei negoziati con Putin sull’Ucraina.

Dal Fatto Quotidiano

         “A Parigi i piagnistei”, come ha irriso Il Fatto Quotidiano felice della prospettiva di una pace penalizzante per l’Ucraina e per l’Europa, a Riad la forza e la concretezza di un percorso sostanzialmente a due. Che sono naturalmente Trump e Putin, in uno scenario che Macron aveva pensato di scongiurare più di due mesi fa a Parigi, invitando Trump appena eletto ma non ancora insediato alla Casa Bianca e il presidente ucraino Zelensky, in occasione della riapertura della cattedrale Notre Dame, e facendoli incontrare.

Trump, Macron e Zelensky a Parigi…tempo fa

Non mancarono le foto, anche quelle di Macron con Giorgia Meloni e di questa con Trump, ma i fatti veri erano già allora destinati a non svilupparsi fra gli stucchi e gli arazzi dell’Eliseo. Dove Macron è tornato invece a illudersi di poter condizionare gli eventi improvvisando, come ho già scritto, un vertice europeo “informale” accolto per cortesia, più che per convinzione, dagli invitati. O almeno dalla premier italiana, della quale si è saputo che avrebbe preferito giustamente un Consiglio straordinario dell’Unione Europea nella sede propria di Bruxelles perché convinta -lei che pure è considerata una “sovranista”- che le istituzioni comunitarie debbano essere rafforzate anche nella loro fisicità, e non aggirate. O piegate alla vanità di qualcuno.

Anche le riserve della Meloni, che fra i leader dei paesi fondatori dell’Unione europea è peraltro quella che ha i migliori rapporti con Trump, hanno finito per ridimensionare il protagonismo francese di facciata. E far capire che ci vuole ben altro di un vertice informale attrezzato di lustrini, luci e telecamere a Parigi per evitare il rischio che davvero la pace in Ucraina -almeno quella a parole- si raggiunga alle spalle, insieme, di Kiev e di Bruxelles. Con tutto quello che potrebbe conseguire.

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La partita di Macron in quella più vasta dell’Europa con Trump

Dal manifesto

Nel momento forse più rischioso e buio dell’Europa, “sfrattata” -quanto l’alleanza atlantica sulla quale ha preferito titolare invece il manifesto- dal condominio perseguito dal presidente americano Donald Trump col russo Vladimir Putin per un negoziato di pace sull’Ucraina, il vertice comunitario non riesce neppure a tenere la scena della resistenza, o del contrattacco. E se la lascia strappare dal presidente francese Emmanuel Macron con un vertice preannunciato a Parigi dal ministro degli Esteri polacco. Il Consiglio europeo, la Commissione di Bruxelles, i loro presidenti e affini evidentemente sono niente, o addirittura meno di niente.

Da Repubblica

         E’ un altro tributo, o peggio, fornito a Trump, che tocca con mano così anche la debolezza delle istituzioni unitarie dell’Europa, Che gli dà  un altro argomento, o pretesto, per continuare a gestire l’affare ucraino praticamente da solo con Putin, inseguendo quella che Ezio Mauro non a torto ha definito su Repubblica “una pace imperiale” piuttosto che la “pace giusta” reclamata dal presidente ucraino Volodymir Zelensky e promessagli, garantita e quant’altro un po’ da tutti gli interlocutori da lui avuti nei suoi viaggi durante i tre anni ormai della guerra inflittagli da Putin.  Che lo considera un ebreo rinnegato e un nazista.

         Macron, che ha voluto assumere l’iniziativa, è fra tutti i presidenti o leader europei il più ambizioso o vanitoso di certo, ma quello messo peggio nell’Unione. Peggio persino del cancelliere tedesco alla vigilia di elezioni che ne sanciranno la sconfitta nazionale dopo quelle locali accumulate nei mesi scorsi. Macron non ha elezioni su cui tentare di riprendersi perché non ne può convocare di anticipate dopo quelle dell’anno scorso, volute per una riscossa che gli è mancata. Dall’Eliseo egli è in grado di produrre solo governi effimeri per forza e durata, forse propedeutici alla prima  vittoria della destra nelle prossime elezioni presidenziali.

Zelensky e Meloni

         Il presidente francese dall’alto della sua supponenza avrà probabilmente riso se qualcuno gli ha fatto leggere una intervista del ministro della Difesa italiano Guido Crosetto. Che ieri ha detto a Repubblica, parlando della situazione dell’Unione: “L’Europa deve restare unita, ma avrebbe bisogno che i 27, nei momenti di scelte storiche, sapessero delegare di volta in volta una persona a rappresentarli tutti. In questo momento, se io fossi in loro, chiederei a Giorgia Meloni, per il rapporto privilegiato che ha da anni con Trump, di provare a svolgere il ruolo di mediatore. Il rischio dell’Europa è che invece deflagri. Meloni potrebbe essere un canale per parlare su questo tema, Forse è l’unica che può farlo. E, mi creda, questa affermazione non la sto facendo per simpatia (anche perché non le sto facendo un regalo), o per calcolo politico, ma perché vorrei che superassimo al meglio questo momento”. Macron si ammazzerebbe piuttosto che dargli ragione.

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Nella matrioska di Mattarella a Mosca c’è la premier Meloni

Da Repubblica

         La notizia non è tanto nell’attacco da Mosca al presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella per il “blasfemo” paragone da lui ribadito la settimana scorsa, in un discorso all’Università di Marsiglia, fra la Russia di Putin nei rapporti con l’Ucraina, sotto invasione da quasi tre anni, e la Germania di Hitler. La notizia sta nei nove giorni che a Mosca hanno lasciato passare dal discorso di Mattarella a Marsiglia per contestarlo con quello che Repubblica ha definito “sfregio”.

         Un’altra notizia ancora, nello stile di una matrioska molto di casa in Russia, sta nella decisione che credo sia stata presa al Cremlino di fare rispondere a Mattarella, che come capo dello Stato avrebbe forse meritato come interlocutore Putin direttamente, piuttosto che la portavoce del Ministero degli Esteri di Sergey Viktorovic Lavrov. Che ha voluto rinfrescare, diciamo così, la memoria a Mattarella ricordando l’Italia fascista alleata della Germania nazista, dimenticando a sua volta che a fare esplodere la seconda guerra mondiale fu l’accordo di Hitler con Stalin  per spartirsi la Polonia. La storia andrebbe raccontata per intero, non a metà o a un terzo.

Roberto Benigni al festival di Sanremo

         Perché -dicevo, e per andare all’osso del problema- Putin ha lasciato trascorrere nove giorni dal discorso di Mattarella a Marsiglia per ordinare o autorizzare una reazione? E perché è stato scelto Mattarella piuttosto che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni -non la presidente del coniglio di marca piddina- che con l’Ucraina aggredita dalla Russia si era già schierata prima di insediarsi a Palazzo Chigi, nell’autunno del 2023. E conseguentemente ha solidarizzato con l’”offeso” Mattarella in un coro conclusosi al festival di Sanremo in una ovazione all’elogio dell’ospite Roberto Benigni.

         La risposta alla domanda sui tempi e modi dell’attacco da Mosca al capo “della Nazione” italiana, come ha precisato la premier, sta nella paura che si avverte al Cremlino per il rapporto speciale, chiamiamolo così, che la Meloni ha col presidente americano Donald Trump.  Un rapporto che Putin non ha ritenuto opportuno sfidare esplicitamente temendo ch’esso possa complicare maggiormente quell’altro rapporto, anch’esso speciale, che lui coltiva col ritrovato presidente degli Stati Uniti nel negoziato della cosiddetta pace sulla testa della Ucraina e anche dell’Europa.

Trump e Meloni

Il diavolo, si sa, fa le pentole senza i coperchi.  E chissà che non sia proprio la premier italiana il coperchio che manca alla pentola contro l’Ucraina “nazista” -ha detto la portavoce di Lavrov- allestita da Putin. Che, non potendo o avendo paura di sparare contro la Meloni ammirata da Trump, ha cominciato a sparacchiare e fare sparacchiare contro Mattarella. Che a Trump, in coppia non certamente silenziosa con Elon Musk,  sta molto meno simpatico, diciamo così, della Meloni. Ne vedremo presto delle belle, credo e spero, nello spettacolo del negoziato sull’Ucraina.

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