Quanto spreco di parole nella vicenda del sottosegretario Delmastro imputato “coatto”

La premier Giorgia Meloni col sottosegretario Delmastro

Per avere definito “abnorme” -nel senso anche di inusuale, oltre che esagerato-la condanna del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro alla pena, sospesa, di 8 mesi di reclusione per violazione del segreto d’ufficio, nonostante l’assoluzione chiesta dalla pubblica accusa trasformatasi in questo caso in pubblica difesa, il direttore di Libero Mario Sechi si è guadagnato, diciamo così, una mezza lezione di diritto dall’ex magistrato, ex parlamentare del Pd e ora solo scrittore Gianrico Carofiglio. Che nel salotto televisivo di Lilli Gruber, alle otto e mezzo di sera, ha trovato normale, anzi normalissima, la condanna inflitta in primo grado al sottosegretario in difformità dalla richiesta di assoluzione da parte dell’accusa. E ha condiviso con gravità di parole, gesti e sguardo le dimissioni dell’interessato reclamate dalle opposizioni. Dimissioni che non ci saranno, avendo il sottosegretario ricevuto la solidarietà della premier Giorgia Meloni, “sconcertata” dalla sua condanna, e del ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Anche a costo di essere smentito da qualche ricercatore statistico più o meno improvvisato e attrezzato, ritengo non normale, usuale e simili una condanna, pur simbolica oltre che provvisoria, a 8 mesi sospesi -ripeto- di carcere emessa contro un imputato non accusato ma sostenuto dal pubblico ministero. Che aveva già chiesto l’archiviazione alla fine delle indagini preliminari promosse da un deputato dell’opposizione con un solerte esposto. E, ad imputazione “coatta” disposta dal giudice, non ha trovato nel dibattimento processuale elementi per cambiare idea, chiedendo l’assoluzione.

Gianrico Carofiglio

Carofiglio avrà dimestichezza, per carità, col giuridichese e con le parole comuni nella composizione dei suoi libri di meritato successo, più gratificante rispetto a quello avuto dallo scrittore nelle precedenti esperienze, ma a me la condanna del sottosegretario Delmastro continua -ripeto- ad apparire abnorme, inusuale. E perciò sospetta. Cioè sospettabile di ambientalismo politico, diciamo così. Che mi auguro di non avvertire nei successivi gradi di giudizio, in attesa dei quali vale naturalmente l’articolo 27 della prima parte della Costituzione, sui “doveri e diritti dei cittadini”, precedente alla seconda sull’ordinamento della Repubblica, comprensiva del titolo sulla magistratura, ordinamento giurisdizionale eccetera eccetera. Quel benedetto articolo dice con chiarezza persino stentorea: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Tanto più  l’imputato“coatto”, cioè processato contro il parere, la richiesta e quant’altro della pubblica accusa.

Il fascino perduto del silenzio, cui il politico ha diritto come alla parola

Dal Dubbio

Dio mio, non per cullarmi nostalgicamente nella vecchiaia ma per constatare e cercare di capire meglio l’evoluzione della politica e dei modi di raccontarla, com’è cambiato il trattamento giornalistico del silenzio. Una volta esso veniva rispettato dai cronisti, che ci lavoravano sopra con indiscrezioni, immaginazioni, intuizioni, bufale e quant’altro.

Ora i silenzi dei politici sono vissuti solo come fastidiosi paracarri e dispetti all’informazione, che reagisce processandoli come se fossero reati, dai quali difendersi con tanto di avvocati. Che non sempre riescono a fare bene il loro mestiere improvvisato, come mi è apparso, francamente, Italo Bocchino l’altra sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber. Dove la premier Giorgia Meloni era attaccata dalla conduttrice e dagli altri ospiti per non essersi espressa subito sugli insulti del presidente americano Trump al presidente ucraino Zelensky.

Attilio Piccioni

Quasi 70 anni fa, esattamente nel 1954, Attilio Piccioni, che aveva già rinunciato l’anno prima per l’opposizione dei socialdemocratici all’incarico di presidente del Consiglio conferitogli dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi per succedere ad Alcide Gasperi, sorprese tutti non provandoci neppure quando il Capo dello Stato gli chiese di succedere invece ad Amintore Fanfani. Egli fu  trattenuto dalla paura, non infondata, di vedere coinvolto ingiustamente il figlio Piero nel giallo della morte di Wilma Montesi. Tutti capirono, nessuno infierì.  

Amintore Fanfani

Quattro anni dopo, nel 1958, toccò ad Amintore Fanfani opporre addirittura la sua irreperibilità alle dimissioni multiple da presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e infine segretario della Dc: tutti incarichi che, diavolo di un uomo, egli aveva voluto ricoprire contemporaneamente, riuscendo lo stesso a trovare il tempo di riposare e dipingere.

Aldo Moro

Dieci anni dopo, nel 1968, toccò all’altro “cavallo di razza” della Dc, Aldo Moro, opporre il silenzio ai giornalisti dopo avere praticamente vinto le elezioni politiche da presidente del Consiglio ma perso l’appoggio dei suoi ormai ex colleghi di corrente Mariano Rumor, Flaminio Piccoli ed altri. Che lo accusavano di essere stato troppo paziente con i socialisti, ai quali tuttavia essi offrirono poi un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra ancora col trattino, non più “delimitato” a sinistra nei rapporti col Pci.

Moro non si rese irreperibile, maturando la decisione di accettare la sfida, passare all’opposizione interna e scavalcare gli amici a sinistra. Continuò a frequentare gli stessi posti, a cominciare dalla spiaggia di Terracina, ma con la bocca a lungo cucita.

Carlo Cottarelli

Più recentemente, o meno lontano nel tempo, ricordo il silenzio di Carlo Cottarelli nel 2018 accettando l’incarico di presidente del Consiglio da Sergio Mattarella ma lasciando che il dimissionario Giuseppe Conte continuasse in privato le trattative con i leghisti per formare infine il primo dei suoi due governi. Cottarelli semplicemente rinunciò sorridendo.

Pubblicato sul Dubbio

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