A parte il cerimoniale all’altezza delle abitudini e delle ambizioni del padrone di casa, che ha selezionato gli ospiti fuori e dentro l’Unione Europea facendo torto agli esclusi e non riuscendo neppure ad accontentare i presenti, il vertice di Parigi improvvisato dal presidente francese Emmanuel Macron non ha risolto alcun problema in vista del negoziato per la pace in Ucraina. Di cui Trump e Putin hanno deciso di assumersi la paternità mandando a Riad le proprie delegazioni per prepararlo.
Giorgia Meloni all’arrivo
Neppure la telefonata che ha voluto fare prima del vertice al presidente americano ha consentito a Macron di offrire agli ospiti qualche spiraglio. Il presidente americano non ha avuto evidentemente la voglia o l’interesse, o né l’una né l’altro, di dargli una mano. Probabilmente compiaciuto, piuttosto, dell’immagine europea ridotta già nella scelta di Parigi, e non di Bruxelles, per l’incontro.
Dalla Stampa
La delusione di Macron è risultata evidente al termine del vertice sul suo volto terreo mentre accompagnava all’uscita la premier italiana Giorgia Meloni, che non aveva potuto ricevere all’arrivo, come gli altri, perché giunta in ritardo, a riunione già cominciata. E arrivata -temo- più per cortesia che per convinzione, essendole stata attribuita senza alcuna smentita o precisazione la preferenza per un Consiglio straordinario dell’Unione nella sede propria di Bruxelles.
Il cancelliere tedesco Sholz
Il più contrariato di tutti, oltre che il primo ad allontanarsi, è stato il cancelliere tedesco Olaf Sholz, forse perché diretto ad un appuntamento ancora più scomodo dell’Eliseo. Che è quello con gli elettori della Germania, chiamati alle urne per chiudere anche formalmente col voto anticipato di domenica prossima il cancellierato socialdemocratico succeduto a quello popolare, in senso democristiano per la vecchia anagrafe politica italiana, di Angela Merkel.
Se n’erano perse un po’ le tracce, anche se i telegiornali ogni tanto ce lo propongono nelle immagini di repertorio mentre cammina sempre a passo spedito verso qualcosa, ma l’ex presidente del Consiglio e adesso solo di quel che resta del MoVimento chiamato ancora 5 Stelle, strappato al fondatore Beppe Grillo, è fra noi davvero. E cammina spedito, come al solito, anche leggendone un’intervista rilasciata alla Stampa, verso la piazza intesa in senso largo. Dove egli vorrebbe contestare un governo e, più in particolare, una premier responsabili della miseria in cui starebbero trascinando il paese a furia di scodinzolare, obbedendo sia a Trump sia all’Unione Europea.
L’uno e l’altra, in verità, almeno al momento, non sono proprio allineati, ma Conte li allinea lo stesso pur di proporsi come il guerriero del popolo, dopo avere esordito politicamente come il suo avvocato, ai tempi del primo governo, quando tuttavia interrompeva le sue arringhe in Parlamento chiedendo prudentemente ai suoi due vice presidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, se certe cose le potesse dire o no.
Anche l’intervistatore Alessandro De Angelis deve essere stato colto da qualche dubbio inseguendo parole e concetti dell’ex premier nella corsa verso la piazza. Sino a chiedergli prudentemente e al plurale maiestatis delle 5 stelle: “Andate in piazza con i vostri alleati?”. Che sulla carta, pur stropicciata fra veti, distinzioni e simili, dovrebbero essere i partiti dichiaratamente di opposizione: dal Pd di Elly Schlein all’Italia Viva di Matteo Renzi, dalla sinistra radicale di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli ad Azione di Carlo Calenda e a + Europa di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, più altri cespugli di varia anima, denominazione e ambizione.
Giuseppe Conte alla Stampa
“I nostri primi alleati -ha risposto Conte, sempre a passo sostenuto- sono i cittadini, quell’Italia che non si rassegna al declino, all’impunità di chi sente intoccabile e al di sopra della legge”. Anzichè al di sotto, come una certa magistratura abituata da una trentina d’anni e più a esondare cerca di mettere i politici scomodi o antipatici di turno.
“I cittadini”, dice Conte con piglio giacobino, appreso a scuola studiando magari la rivoluzione francese. I cittadini che hanno pagato a caro prezzo la “sconfitta della povertà” annunciata dal balcone di Conte a Palazzo Chigi senza paura del ridicolo sformando la prima di una certa serie di misure demagogiche, o semplicemente avventate prima nelle previsioni e poi nella gestione.
I cittadini affamati e in miseria che Conte sogna sinistramente di trascinare in piazza per travolgere un governo che disporrebbe, nella sua visione, di una forza arbitraria nel Parlamento pur aperto dai grillini come una scatola di tonno, sono magari quelli che lo stesso Conte vede uscire o entrare nei ristoranti davanti ai quali passa ad andatura svelta e non sono ancora consapevoli della loro intima, prenotata miseria. I cittadini in attesa dei quali si sono già consumate altre avventure qualunquistiche nella storia italiana, pur riconoscendo -per carità- che questa che Conte ha ereditato da Beppe Grillo si è rivelata più resistente del solito.
Ancora oggi le 5 Stelle, pur dopo precipizi locali come quelli dell’anno scorso in Liguria e in Emilia Romagna, vagano nei sondaggi sopra il dieci per cento dei voti. Che forse dà a Conte l’ebbrezza, pur in un sistema elettorale non più proporzionale come una volta, di sentirsi essenziale come lo fu a suo tempo, per esempio, il partito di Bettino Craxi. O di Ghino di Tacco, come lo definì una volta Eugenio Scalfari pensando di ferire a morte l’allora presidente del Consiglio, che invece da allora preferì firmare così i corsivi che mandava al giornale del suo partito da Palazzo Chigi. Dove il leader socialista riuscì a governare per tre anni , e per niente male, pur tra continui preannunci di crisi stampati come manifesti dalla Repubblica di carta di Scalfari, appunto. Altri tempi, altri uomini, altre stelle….
Appartengono alla serie dei mali che non vengono tutti per nuocere, come la frusta di Trump che potrebbe aiutare il processo di integrazione europea, anche i ripetuti attacchi, di venerdì scorso e di ieri, da Mosca al presidente della Repubblica italiano Sergio Mattarella. Che già al primo assalto la premier Giorgia Meloni aveva difeso anche “a nome del governo” per la “blasfemia” contestatagli dalla portavoce del Ministero degli Esteri, avendo egli equiparato l’aggressione di Putin all’Ucraina a quelle di Hitler ai paesi limitrofi, propedeutiche alla seconda guerra mondiale. La portavoce del ministro Lavrov vi è tornata per avvertire, minacciare e quant’altro che il discorso del presidente della Repubblica italiana non rimarrà “senza conseguenze”.
La solidarietà piena della Meloni a Mattarella -pure lei, del resto, schierata con l’Ucraina dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale” annunciata a Mosca per “denazificarla”, quando era ancora all’opposizione e a Palazzo Chigi governava Mario Draghi- ha fatto cadere la mannaia sulla rappresentazione delle difficoltà temperamentali e politiche nei rapporti fra la premier e il Capo dello Stato. Anzi, della “Nazione”, come la presidente del Consiglio preferisce dire parlando dell’Italia.
La sintonia con Mattarella, che di suo aveva già più volte ammonito le opposizioni a non arruolarlo forzandone parole e silenzi, e chiedendogli di non firmare questa o quella legge ad esse sgradita, è stata ed è ancora di più per la Meloni, di fronte all’offensiva reiterata di Mosca, un elemento di forza nel ruolo che le eccezionali condizioni internazionali le consentono o richiedono. Anche al di là del vertice europeo “informale” improvvisato da Macron a Parigi a scapito dell’autorevolezza di Bruxelles.
In una Europa che Trump vuole o immagina estranea al processo o negoziato di pace per l’Ucraina, ritenendo prevalenti, se non addirittura esclusivi, gli interessi russi e americani nel conflitto ucraino, la Meloni è quella che ha maggiori spazi di manovra per mediare o ammortizzare i colpi. Li ha per la stabilità del suo governo, maggiore rispetto agli altri nell’Unione europea, e per i rapporti personali col presidente degli Stati Uniti.
Non c’era solo amicizia e colleganza partitica con la Meloni ma valutazione concreta e realistica della situazione, avvertita come ministro della Difesa, nelle parole spese da Guido Crosetto nei giorni scorsi, fra Corriere della Sera e Repubblica, a proposito della premier.
Guido Crosetto a Repubblica
“In questo momento se io fossi in loro -ha detto Crosetto, in particolare, a Repubblica, dopo avere rilevato la necessità o opportunità che i 27 paesi dell’Unione trovino “di volta in volta una persona” cui delegare la loro rappresentanza- chiederei a Giorgia Meloni per il rapporto privilegiato che ha da anni con Trump, di provare a svolgere il ruolo di mediatore”. “Il rischio dell’Europa è che invece deflagri”, ha avvertito il ministro della Difesa guardando o pensando a Bruxelles.