L’assist di Trump ricambiato da Meloni contro la Corte penale internazionale

Da Repubblica

         Se è stato anche un assist all’Italia l’ordine annunciato dal presidente americano Donald Trump di sanzionare la Corte penale internazionale dell’Aia, peraltro non riconosciuta dagli Stati Uniti, come dalla Russia e dalla Cina, il governo di Giorgia Meloni ha ricambiato. Non ha fatto sottoscrivere dal suo rappresentante una dichiarazione di sostegno alla Corte depositata alle Nazioni Unite per conto di 79 Paesi, fra i quali quasi tutti quelli dell’Unione Europea.

Dal Messaggero

“Una follia vergognosa”, ha reagito a Roma il presidente del MoVimento 5 Stelle ed ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che aveva già criticato con le altre opposizioni in Parlamento i rilievi mossi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Corte dell’Aia per i documenti “pasticciati”, e poi corretti, relativi al mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità emesso contro il generale libico Almarsi al suo arrivo in Italia, dopo essere stato lasciato viaggiare libero per giorni fra la Gran Bretagna, il Belgio e la Germania, limitandosi a farne controllare  i movimenti, particolarmente in territorio tedesco.

Dall’Unità

  Quella scelta di tempi e di luoghi è apparsa sospetta al governo per la particolare esposizione dell’Italia nei rapporti con la Libia considerando le forniture energetiche, la presenza di molti italiani in quelle terre e la provenienza dalle loro coste di buona parte dell’immigrazione clandestina gestita dagli scafisti. Tutte circostanze che hanno indotto, in particolare, il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani a prospettare un’inchiesta a carico della Corte dell’Aia, visto che essa non ha ritenuto opportuno fornire chiarimenti sui tempi del suo intervento contro il generale responsabile della polizia giudiziaria libica. E quindi sostenuto, protetto e quant’altro in Libia, dove non a caso è stato accolto festosamente al rimpatrio disposto per ragioni di sicurezza dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

  Eppure i gravissimi delitti contestati dalla Corte dell’Aia sono stati compiuti da Almarsi nel suo Paese controllandone prigioni e simili, per cui il mandato di cattura avrebbe dovuto riguardare anche quelli che li hanno quanto meno permessi o comunque coperti.

L’asse critico Trump-Meloni verso la Corte penale internazionale è stato tradotto in una Italia che “tradisce l‘Europa” dalla Repubblica, in una “sfida all’Aia” dal Messaggero, in una “Italia fuori dall’Europa?” dall’Unità di Piero Sansonetti. Arguto e canzonatorio, come al solito. il titolo del manifesto –“L’Aja che tira”- su una foto d’archivio di Trump e Meloni compiaciuti l’uno  dell’altra.

Ripreso da http://www.startmag.it

Le critiche convergenti alla Corte penale internazionale dell’Aia

Dal Dubbio

“Il triangolo no. Non l’avevo considerato”, cantava nel 1978 Renato Zero sommerso dagli applausi del suo pubblico. Che nel 1981 sarebbe diventato “dei sorcini” per un’altra canzone dello stesso artista sui “figli della topa”

         Ridiamoci pure sopra, come farebbe per primo proprio lui, Renato Zero, se gli chiedessi di poter usare le sue parole di fronte alla triangolazione galeotta, a dir poco, che si è realizzata nelle ultime 24 ore fra Washington, Roma e l’Aia..

La sede della Corte penale internazionale all’Aia

         Da Washington è partito l’ordine del presidente americano Donald Trump di sanzionare la Corte penale internazionale per un mandato di cattura contro il premier israeliano Benjamin Netanyauh. Difeso dal presidente americano come “alleato” dall’accusa di genocidio mossagli per la guerra a Gaza, provocata dal podrom del 7 ottobre 2023 dei terroristi palestinesi di Hamas. Che avevano fatto strage di bambini, giovani e anziani in territorio israeliano catturandone altri per usarli come ostaggi. Quali d’altronde sono diventati anche i palestinesi abitanti a Gaza avendo sotto le loro case, le loro scuole, i loro ospedali, i loro mercati gli arsenali militari della loro guerra agli ebrei.

         L’Aia è la sede di quella Corte, cui aderisce l’Italia, diversamente dagli Stati Uniti e da molti altri paesi fra i quali la Russia e la Cina, che ha scelto  nei giorni scorsi il nostro Paese per chiedere l’arresto di un generale libico accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, dopo essere stato lasciato viaggiare libero fra la Gran Bretagna, il Belgio e la Germania. Ne è nato un caso che ha terremotato la politica italiana per le accuse di complicità con quel generale che il governo si è procurato nelle aule parlamentari e nel teatro mediatico avendolo rimandato in Libia con un aereo di Stato, per ragioni di sicurezza e di urgenza, dopo una scarcerazione disposta dalla Corte d’Appello di Roma.

         Il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha reclamato un’inchiesta contro la Corte penale internazionale per avere scelto per l’arresto del generale il paese più esposto nei rapporti con la Libia com’è l’Italia. Che ne dipende per le forniture energetiche, per la presenza di molti italiani che vi lavorano in proprio o alle dipendenze di imprese di rilievo come l’Eni e per il controllo delle coste da cui partono molti degli mmigrati clandestini gestiti da criminali.

         All’inchiesta reclamata da Tajani si sono aggiunte, questa volta davanti al Parlamento, i rilievi mossi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio ai documenti della Corte penale internazionale, tanto “pasticciati” da dover essere corretti e sostituiti alla fonte.

         All’Aia, infine, per tornarvi, si sta cercando in questi giorni, con mezzi palesi come una denuncia privata e sotterranei, di fare promuovere un’azione giudiziaria contro il governo italiano per avere rimpatriato il generale libo Almasri.

         Washington, Roma e l’Aia. Una triangolazione, dicevo, galeotta. E nel  contesto di uno scenario internazionale dagli imprevedibili sviluppi, anche se formalmente è in corso una tregua a Gaza e se ne insegue un’altra, o ancora di più, nell’Ucraina messa a ferro e fuoco dalla Russia di Putin con una invasione cominciata quasi due anni fa.

Pubblicato sul Dubbio

Vanno bene i Fratelli di chat, ma di tutti colori. Sennò è solo spionaggio di parte

Da Libero

Vorrei complimentarmi anch’io, davvero e non per scherzo, col giovane collega Giacomo Salvini, come ha fatto Monica Guerzoni nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su la 7, per i “fratelli di chat”. Che egli ha saputo ricavare -non gli chiedo come, bastandomi la generica “fonte interna” da lui indicata- con le incursioni fra le conversazioni elettroniche di cento e più esponenti del partito della premier Giorgia Meloni. Compresa naturalmente la stessa Meloni, che altrettanto naturalmente non ha gradito.

         Giacomo Salvini, per carità, ha fatto il suo mestiere. Non hanno saputo fare il loro quelli che gli hanno fornito il materiale, diciamo così, su cui lavorare, e anche divertirsi. Che è il massimo che possa desiderare chi lavora appunto: stancarsi divertendosi.

Il libro di Giacomo Salvini

         Sì, lo so. L’articolo 15 della prima parte della Costituzione italiana, sui diritti e doveri dei cittadini, dice che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. E “la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.

         So anche dell’articolo 49 della Costituzione che dà a tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, senza per questo dovere rinunciare alla già ricordata e tutelata segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione.

         Ma se sono gli stessi interessati, nell’uso peraltro di strumenti neppure immaginati dai costituenti un’ottantina d’anni fa come i telefonini e simili che sono diventati prolunghe dei nostri sensi, ora addirittura col supporto dell’intelligenza artificiale; se sono, dicevo, gli stessi interessati a non sapere o non volere custodire la loro riservatezza, è ridicolo prendersela col giornalista che fa il suo mestiere, anche di intrigante.

         Riconosciuto tuttavia a Giacomo Salvini tutto quello che gli spetta, debbo dire che ora da collega anziano, e di una certa esperienza, diciamo così, di cronaca politica, anche a costo di incorrere qualche volta in supplementi di fatica come imputato, per esempio, di violazione di segreto di Stato o di diffamazione, mi aspetto da lui ben più del libro che ha appena prodotto sui “fratelli di chat”. Mi aspetto uguale curiosità, e capacità di soddisfare quella dei lettori, sul conto di altri che popolano la foresta politica italiana. Dove crescono, spesso loro malgrado, i funghi non solo della destra meloniana, ma anche di altri partiti o aree. Se curiosità, attenzione, dovere di cronaca, o di retroscena, come ormai si spaccia anche ciò che viene semplicemente inventato, o desiderato, si limitano solo a una parte, il gioco cambia. La partita si fa diversa. E cambiano naturalmente i voti, pure quelli che ho appena assegnato a Giacomo Salvini, specie considerando la sua meritoria decisione, appresa navigando in internet, di ispirarsi alla scuola del compianto Walter Tobagi. Che ho avuto la fortuna di conoscere e di frequentare fino a quando i terroristi non lo ammazzarono sotto casa, a Milano, nel 1980. Quando egli aveva solo 33 anni e si era già guadagnato l’invidia dei colleghi e l’odio irriducibile dei brigatisti rossi, o solo aspiranti, come fu il caso dei suoi assassini.

Walter Tobagi, del Corriere della Sera

Ciò che Walter non sopportava del nostro mestiere, come anche l’indimenticabile Giampaolo Pansa, è quando lo avvertiva preso da una curiosità a senso unico, come la chiamava quando ci incontravamo a Roma e parlavamo, appunto, del nostro lavoro.

Pubblicato su Libero

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