Dietro la facciata della compattezza della magistratura provocata dal governo

         L’associazione delle toghe si rassegnerà prima o poi alla fine di ciò che nega a parole di avere mai voluto o volere ma è realtà da almeno una trentina d’anni: il primato del potere giudiziario sugli altri.  

         Più degli strilli dell’associazione, dello sciopero già indetto, con l’impegno di farne altri, e della mobilitazione annunciata per il referendum che concluderà il percorso della riforma Nordio, chiamiamola così, col nome del ministro della Giustizia, conta la maggiore consapevolezza che si avverte fra i magistrati non mobilitati. O hanno smesso di mobilitarsi in attività sindacali dopo averci provato e toccato con mano più danni che altro.

Antonio Di Pietro

         Ha fatto rumore in questi giorni, come al solito, con quella mimica inconfondibile dell’uomo che vuole prendere a calci anche le parole che pronuncia verso la controparte di turno, l’indimenticato ex magistrato ormai Antonio Di Pietro. Che ha condiviso la riforma Nordio e, precedendo persino le domande di Massimo Giletti in televisione, ha criticato l’amico avvocato Luigi Li Gotti, da lui fatto nominare sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo di Romano Prodi, per l’esposto contro il governo per l’affare del rimpatrio del generale libico Asmarsi girato rapidamente al tribunale dei ministri dal capo della Procura della Repubblica di Roma Francesco Lo Voi.

Dal Foglio di oggi

         Ma, pur senza avere la mimica e la notorietà di un Di Pietro riuscito a piacere persino a Giuliano Ferrara, avendo tuttavia il vantaggio di essere un magistrato ancora operativo alla guida della Procura della Repubblica di Padova, Antonello Racanelli, già segretario di Magistratura Indipendente, ha avvertito e denunciato in una intervista al Foglio di ieri la “strategia suicida” dei suoi colleghi ostili alla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e alle altre novità della riforma Nordio.

Dal Foglio di ieri

         “Ci troviamo di fronte a una forte maggioranza parlamentare, legittimata dal voto popolare, che ha un preciso programma politico in tema di giustizia e magistratura”, ha osservato Racanelli.  Che ai colleghi rifiutatisi di ascoltare i rappresentanti del governo uscendo per protesta quando parlavano alle inaugurazione dell’anno giudiziario, ha chiesto: “Cosa avremmo detto noi magistrati se di fronte a presidenti di Corti di appello o a procuratori generali che legittimamente nei loro interventi hanno avanzato argomentate critiche tecniche alla riforma i parlamentari o gli esponenti governativi presenti si fossero alzati per non ascoltarli?”.

         Racanelli ha indicato nel referendum su cui ha scommesso l’associazione nazionale delle toghe l’occasione di una verifica della “fiducia o no nella situazione attuale della giustizia”. Ed ha detto: “E’ facile prevedere la risposta e sappiano tutti che molte sono le cause di questa sfiducia, alcune imputabili alla politica ma altre imputabili a noi magistrati”, “Corrisponde a verità -ha insistito Racanelli- che i peggiori nemici dei magistrati sono alcuni magistrati”.

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La pazienza di Mattarella a dura prova nello scontro fra la magistratura e il governo

Dal Dubbio

Al netto di una certa enfasi apologetica che penso lo abbia più imbarazzato che compiaciuto, Sergio Mattarella si è sicuramente meritate le celebrazioni dei 10 anni dalla sua prima elezione al vertice dello Stato, dei 3 dalla sua seconda elezione, di conferma, e quando ancora ne mancano 4 alla conclusione del suo doppio mandato quirinalizio. Sono stati dieci anni obiettivamente difficili, nei quali a Mattarella è toccato, forse più dei suoi predecessori, gestire un quadro politico a dir poco volubile. Gli toccò già tra la fine del suo primo anno al Quirinale e l’inizio del secondo assistere, a dir poco, se non accelerare la fine degli equilibri politici che lo avevano portato alla Presidenza della Repubblica.

Matteo Renzi, l’artefice della sua prima elezione, bussò inutilmente alla sua porta quando, sconfitto clamorosamente nel referendum sulla riforma costituzionale, la più completa e organica di quelle sino ad allora tentate, più ancora della riforma proposta da Silvio Berlusconi, chiese a Mattarella di consentirgli con le elezioni anticipate di tradurre quel 40 per cento dei voti pur raccolti nelle urne referendarie in una conferma della propria leadership. Mattarella scelse invece la prosecuzione della legislatura. Che costò a Renzi, oltre a Palazzo Chigi, la sconfitta elettorale alla scadenza ordinaria della legislatura come segretario del Pd e, di conseguenza, la segreteria.

Ma soprattutto il residuo anno della legislatura permise a Beppe Grillo di cavalcare l’onda anti-politica portando già nel 2018 il suo movimento a Palazzo Chigi con un avvocato -Giuseppe Conte- che si definì orgogliosamente “del popolo”. Della cui esistenza tuttavia si erano accorti in pochi, senza volergli mancare con ciò  di rispetto. Pure Mattarella, a sentirsene proporre il nome per l’incarico di presidente del Consiglio, si lasciò scappare la sorpresa dicendo che avrebbe preferito quanto meno uno con qualche precedente nelle amministrazioni locali.

Grillo scombussolò con la sua vittoria il campo del cosiddetto centrosinistra, ma Mattarella si trovò nel 2018 anche di fronte ad un centrodestra diverso. In cui Berlusconi aveva dovuto subire il sorpasso della Lega di Matteo Salvini e concederle un sostanziale permesso a governare con le 5 Stelle pur di evitare in elezioni anticipate l’aumento del distacco dall’alleato.

Non furono giorni e mesi facili neppure per Mattarella al Quirinale, oltre che per Berlusconi ad Arcore e per il Pd al Nazareno. Nello spazio di soli quattro anni, fra il 2018 e il 2022, sino all’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi con un governo arrivato quasi a metà del suo percorso ordinario di legislatura, Mattarella ha visto sfilare nella sala del Quirinale dove giurano due governi di Giuseppe Conte e uno, del tutto eccezionale, di Mario Draghi. Cioè tre governi in quattro anni, ad una media da prima Repubblica.

Mattarella e Meloni

Ora con la Meloni, ripeto, da quasi due anni e mezzo a Palazzo Chigi, e con un centrodestra a trazione ancora più a destra di quanto non fosse avvenuto col sorpasso di Salvini sul Berlusconi ancora vivo nel 2018, Mattarella ha un quadro politico decisamente più stabile in cui esercitare il suo ruolo. Che è di garanzia e di rappresentanza dell’unità nazionale sancita dall’articolo 87 della Costituzione. Ma proprio perché si è formata nel frattempo una leadership forte di governo, non aleatoria, non a rischio di fronte ad avversari che si stanno dividendo peraltro sul problema di come affrontare le prossime elezioni, se unite o divise, il rapporto fra il governo e, più in generale, la politica e la giustizia, o la magistratura, si è fatto più caldo. Anzi, più tempestoso.

Napolitano e Mattarella

E’ un fuoco, o una tempesta, che -volente o nolente- chiama in causa anche Mattarella come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che della Repubblica. Un fuoco e una tempesta, a dire il vero, che coinvolse anche il predecessore di Mattarella al Quirinale Giorgio Napolitano, costretto a ricorrere alla Corte Costituzionale per difendere le sue prerogative da una Procura della Repubblica. Ma la situazione oggi è persino più difficile.

Pubblicato sul Dubbio

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