Fallito l’assalto delle toghe alle prime pagine con lo sciopero nei tribunali

Pur con l’annunciato 80 per cento di adesioni, comprese però quelle solo virtuali di magistrati rimasti al lavoro per evitare le trattenute dallo stipendio, le toghe coccardate e guidate anche fisicamente dal presidente e dal segretario della loro associazione sindacale, Cesare Parodi e Rocco Manuotti, hanno sostanzialmente fallito l’assalto alle prime pagine dei giornali.

Da Libero

Lo sciopero è finito sopra gli altri titoli -come su Libero di Mario Sechi e sull’Unità di Piero Sansonetti- solo in chiave critica per gli “insulti” alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e all’articolo 111 della stessa Costituzione. Che che nel testo aggiornata nel 1999 sul cosiddetto giusto processo ne ha spianato la strada. Sulla quale il governo di Giorgia Meloni è deciso a proseguire in migliori condizioni politiche dei precedenti, pur aperto -come è emerso  ieri da un vertice- a quale modifica  sulle modalità  del ricorso al sorteggio per la composizione  degli organi di rappresentanza istituzionale dei magistrati.

Dall’Unità

Sulle altre prime pagine dei giornali hanno continuato a prevalere Trump con i suoi rapporti rovesciati contro l’Europa e a favore della Russia di Putin, la Brexit un po’ rientrata di fronte alle prospettive di una pace ingiusta in Ucraina, il Papa col suo ricovero al Policlinico Gemelli, il caro-bollette e, fresca di agenzie, la morte misteriosa del famoso attore americano Gene Hachman, della moglie e del loro cane.

Dal Fatto Quotidiano

Persino Il Fatto Quotidiano, pur mettendo in rilievo la partecipazione -taroccata, ripeto- dell’80 per cento delle toghe allo sciopero ha ammesso le difficoltà dei magistrati nella lotta alla separazione delle carriere. Esso ha cercato, in particolare, di amplificare riserve e simili dei “grandi avvocati”. Fra i quali il giornale di Travagli ha scelto, per appendervisi come a una stampella, Franco Coppi. Che ha dichiarato di non avere perso una sola causa per le carriere non ancora separate dei giudici e dei pubblici ministeri. Non sembra pensarla così però, in materia di carriere separate, il più famoso e riuscito avvocato uscito dalla scuderia di Coppi: Giulia Bongiorno, anche presidente della Commissione Giustizia del Senato.  

L’assalto dei magistrati alle prime pagine dei giornali…di domani

Dal Tempo

Con lo sciopero di oggi nei tribunali, che i nuovi vertici dell’associazione nazionale dei magistrati hanno ereditato dai precedenti, e confermato pur in pendenza di un incontro a breve col governo, le toghe tentano l’assalto più che allo stesso governo per la riforma della giustizia all’esame delle Camere, alle prime pagine dei giornali di domani. Dove sperano di sottrarre più spazio di quello modesto di oggi al Papa in ospedale, a Trump che sogna di replicare Las Vegas o Miami, o la Costa Smeralda, o tutte insieme, nella striscia di Gaza, alla Brexit felicemente tradita, o aggirata, a Londra per una risposta unitaria e militare dell’Europa al presidente americano che l’ha praticamente esautorata nel negoziato con Putin per la pace nell’Ucraina aggredita tre anni fa dalla Russia con un’operazione che doveva concludersi in tre giorni. E altro ancora.

Dall’Unità

Per poter vantare la partecipazione più larga possibile a questo sciopero impietosamente definito “eversivo” dall’Unità di Piero Sansonetti, davvero nuova rispetto a quella dove i magistrati erano solo eroi nella lotta al male costituito dai partiti e dintorni, i sindacalisti delle toghe hanno deciso di considerare aderenti alla protesta anche quelli che non vi aderiscono per dichiarata indisponibilità a perdere la paga, diciamo così. Che è un po’ il modo di ingannare il sindacato. O di rifilare borsette contraffatte come una Santanchè qualsiasi.

Dal Foglio

Pur in questo contesto alquanto goffo, a dir poco, qualcuno fra i magistrati -per esempio, il giudice Giuseppe Cioffi del tribunale di Napoli nord- ha annunciato il suo no allo sciopero con condividendo la contestazione ch’esso sottende delle competenze del governo di proporre e del Parlamento di esaminare una qualsiasi legge, anche quella costituzionale che prevede la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Chissà se Cioffi arriverà ad appendere l’annuncio del suo no allo sciopero sulla porta del proprio ufficio, come fece a suo tempo a Milano l’allora sostituito procuratore Antonio Di Pietro per uno sciopero indetto addirittura contro il presidente della Repubblica. Che era Francesco Cossiga, sdebitatos poi in qualche nodo scrivendo la prefazione ad un libro dello stesso Di Pietro, salvo revocargliela nelle edizioni successive, quando “Tonino” diventò qualcosa d’altro di un pur noto e ruspante sostituto procuratore.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio

Una cosa comunque è sicura dello sciopero in corso. Anche per la carnevalesca ammissione dei non scioperanti all’elenco delle adesioni, la popolarità dei magistrati continuerà a scendere, in una curva  ripetutamente ricordata ai suoi ex colleghi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che si è guadagnata anche per questo un’avversione di carattere anche personale in quello che fu, in senso lato, il suo ambiente di lavoro. 

La Santanchè con le dimissioni nella borsetta, pur avendo evitato la sfiducia

La ministra Santanchè a Montecitorio

Da Lascia o raddoppia? dell’indimenticato Mike Bongiorno a Raddoppia e lascia!- si potrebbe diredello spettacolo di Daniela Santanchè alla Camera. Dove la ministra del Turismo si è guadagnata la seconda fiducia parlamentare derivante dalla bocciatura della sfiducia promossa dalle opposizioni, ma promettendo praticamente e generosamente le dimissioni agli amici di partito e di maggioranza, se dovesse essere rinviata a giudizio anche per truffa all’Inps, oltre per il falso in bilancio contestatole in un altro processo.

Le parole di Santanchè

“A breve -ha detto la ministra al termine di un discorso estremamente polemico e interrotto dalle proteste delle opposizioni- ci sarà un’udienza preliminare e finora abbiamo solo sentito l’accusa. In quell’occasione farò una riflessione per poter anche valutare le dimissioni. Sarò guidata solo dal rispetto del mio premier, del governo, della maggioranza ma soprattutto per l’amore per il mio partito, dove certo io non vorrò mai diventare un problema ma continuare a essere una risorsa”.  

Dasl tabellone della Camera

La premier Giorgia Meloni, che “non ha risposto” all’appello nominale sulla sfiducia, come ha registrato il tabellone elettronico dell’aula di Montecitorio, deve avere molto apprezzato seguendo la seduta altrove. Sicuramente hanno apprezzato i colleghi di partito e di maggioranza applaudendo calorosamente le parole della ministra, che li hanno liberati dal rischio di un altro passaggio parlamentare scomodo, a dir poco, come in un’arena da combattimento più che nell’aula di una Camera.

Santanchè all’uscita dall’aula di Montecitorio

Per l’insistenza con la quale le opposizioni l’hanno voluta processare chiedendo la sfiducia individuale -e non risparmiandole neppure l’accusa di taroccatrice per l’abitudine di regalare borse contraffatte contestatale di recente dalla penultima fidanzata del compianto Silvio Berlusconi- la Santanchè si è sentita vittima di un “ergastolo mediatico”. E di una lotta demagogica “non alla povertà ma alla ricchezza”. O a una certa avvenenza o eleganza da lei stessa orgogliosamente indicata nei suoi tacchi a spillo. Tutte cose, naturalmente, che hanno infiammato le opposizioni in una giornata parlamentare super-eccitata, essendosi impegnati i deputati, prima di votare sulla Santanchè, nella discussione sulla sfiducia promossa dagli avversari del governo contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio per l’affare del generale libico Almasri. Che è stato rimpatriato, anziché essere trattenuto in carcere per essere consegnato alla Corte penale internazionale, che ne aveva chiesto l’arresto, una volta in Italia proveniente dalla Gram Bretagna, dal Belgio e dalla Germania, per crimini di guerra o contro l’umanità.

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Il rapporto di Calenda con la Schlein finisce tra le macerie dell’Ucraina

Dal Dubbio

In linea del resto col nome che porta, andava calando già da tempo l’interesse di Carlo Calenda, appunto, per il campo che con spirito “testardamente unitario” la segretaria del Pd Elly Schlein cercava, e cerca ancora, di organizzare, arare, coltivare e quant’altro per realizzare l’alternativa al centrodestra. Andava calando, quell’interesse, specie dopo che alla porta del Nazareno aveva cominciato a bussare anche Matteo Renzi. I due, come si sono accorti ormai anche i più distratti nella lettura della cronaca politica, soffrono di una incompatibilità di caratteri, ambizioni e visioni esplosa dopo lo sforzo sovrumano di nasconderla o attenuarla nelle elezioni politiche di due anni e mezzo fa. Quando essi si proposero come il terzo polo dell’Italia bipolare sognata nel 1993 con la riforma elettorale di senso o spirito maggioritario. Su cui addirittura nacque la cosiddetta seconda Repubblica, pur con la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e non di Achille Occhetto.

Calenda e Santanchè d’archivio

L’incompatibilità lungo la strada della comune ricerca dell’alternativa al centrodestra è stata scoperta da Calenda anche nei rapporti con la Schlein, deflagrati col ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e l’approccio del presidente americano al problema della pace in Ucraina, da imporre più al “dittatore non eletto e comico mediocre” Zelensky che all’aggressore Putin.

Calenda a Odessa

Il fatto che, mentre lui correva a Odessa per rafforzarsi nella convinzione delle buone ragioni dell’Ucraina nel terzo anniversario dell’invasione russa la Schlein non avesse trovato la voglia, il tempo di scegliere una delle piazze italiane solidali con Zelensky ha spinto Calenda a chiudere praticamente la sua partita col Nazareno.

Calenda al Foglio

Già soddisfatto delle buone ragioni dell’Ucraina ribadite pubblicamente dalla Meloni, accusata invece dalla Schlein di essere anche su questo versante più una presidente del consiglio che del Consiglio, timorosa di perdere la stima e l’amicizia del presidente americano, Calenda ha detto al Foglio, testualmente. “Tra Conte che loda Trump, Renzi che va a Miami a fare la claque del presidente americano pagato dall’Arabia Saudita e Schlein che parla d’altro, questo mi sembra il triste destino del campo largo. No, non ne farò mai parte. Siamo su un crinale per cui passa la Storia. A queste condizioni Azione non ci sarà neppure per collaborazioni parlamentari e locali”.

Una volta insieme….

Al macero, quindi, tutte le fotografie lasciate scattare da Calenda con la Schlein, da solo, o con altri aspiranti all’alternativa al centrodestra. Del resto, le foto di opportunità, come vengono chiamate quelle che vorrebbero rappresentare eventi e situazioni particolari, cominciano a non avere bisogno neppure di qualche ora per essere metaforicamente smentite, superate, stracciate. Guardate quelle alla Casa Bianca scattate ai festosi e compiaciuti Trump e Macron mentre i delegati dei rispettivi paesi all’Onu non riuscivano a votare nello stesso modo sul problema al centro del loro “vertice”, cioè la questione della pace in Ucraina.

Pubblicato sul Dubbio

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Che cosa non si riesce a fare davanti al fotografo o a una telecamera…

Già compromessa di suo e da tempo per le frequenti smentite o evaporazioni, la foto “opportunity” -destinata nelle intenzioni di chi la scatta e di chi si fa riprendere, o ne è sorpreso, a dimostrazione o testimonianza del significato di un evento- ha appena avuto alla Casa Bianca un altro colpo micidiale, di inattendibilità o falso. Un po’ come le borse taroccate contestate in Italia alla ministra del Turismo Daniela Santanchè da amiche che le hanno ricevute. O almeno da una -Francesca Pascale, la penultima fidanzata di Silvio Berlusconi- che con le sue rivelazioni ha un pò aumentato le difficoltà d’immagine dell’esponente del governo sottoposta a mozione di sfiducia individuale in Parlamento per le sue vicende giudiziarie.

Ma torniamo alla Casa Bianca, dove si sono persino sprecate le foto dell’incontro del presidente Donald Trump col presidente francese Emmanuel Macron prima, durante e dopo, tra sorrisi, risate, ammiccamenti.

Trump e Macron ala Casa Bianca

A dispetto di questa rappresentazione entusiastica dei rapporti fra le due personalità e i rispettivi paesi o governi, Trump ha rifilato all’ospite durante la conferenza stampa congiunta un elogio all’assente Giorgia Meloni –“una grande leader”, ha detto- che da solo riduceva o smentiva la presunzione dell’ospite di avere fregato tutti in Europa correndo a rappresentarla alla Casa Bianca, mentre il presidente americano tesse con Putin la tela della pace in Ucraina. Dalla stessa Meloni il presidente francese aveva raccolto nei giorni scorsi a Parigi il dissenso, a dir poco, dalla strada da lui scelta, con vertici improvvisati al di fuori delle sedi istituzionali dell’Unione, per rappresentare in questa difficilissima congiuntura internazionale il vecchio continente. O lasciarvi sopra la sua impronta.

Immagine della guerra in Ucraina

Ancor più dell’elogio alla premier italiana -ripagata così anche di un ringraziamento mancato di Trump ad una sua partecipazione a distanza alla convenzione dei conservatori americani-  è caduta come un drone o un missile- per restare alle immagini militari- sul vertice alla Casa Bianca lo spettacolo andato in scena in scena contemporaneamente alle Nazioni Unite. Dove America e Russia hanno votato insieme un documento da cui entrambe erano riuscite a togliere ogni riferimento all’aggressione di Mosca all’Ucraina. E ne hanno osteggiato un altro contenente la difesa dell’”integrità” territoriale del paese invaso dalla Russia tre anni fa per essere normalizzato in tre giorni, secondo i progetti di Putin.  

Von der Leyen e Zelensky a Kiev

Non parliamo poi, o infine, della scarsa compatibilità, diciamo così, tra le foto alla Casa Bianca fra Trump e Macron e quelle giunte da Kiev, dove i vertici istituzionali dell’Unione, a cominciare dalla presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen, hanno voluto correre nel terzo, tragico anniversario della guerra all’Ucraina sferrata da Putin per ribadire il sostegno al “dittatore e attore mediocre” che sarebbe Zelensky secondo Trump.

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Più della Meloni ora l’incubo della Schlein è lo sconfitto Sholz a Berlino

Da Libero

Quel 16,5 per cento dei voti cui sono scesi i socialdemocratici tedeschi, in un turno elettorale peraltro a larghissima partecipazione, con ben più dell’80 per cento ormai inimmaginabile in Italia, dovrebbe far riflettere la segretaria del Pd Elly Schlein. Che ha cominciato anche a lei a registrare nei sondaggi una certa tendenza a scendere da quando ha opposto la sua dichiarata testardaggine, nell’inseguimento della unità delle opposizioni, a quanti nel partito mordono il freno per la radicalizzazione della linea. E ciò pur di non perdere per strada la sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, ma soprattutto quel misto fritto che è diventato il Movimento 5 Stelle sotto la guida sempre più personalizzata e massimalista di Giuseppe Conte.

Elly Schlein e Giuseppe Conte

Diversamente dalla Germania, dove i socialdemocratici sotto una guida diversa dallo sconfitto Olaf Sholz, possono pensare ad una ripresa collaborando con la Dc tedesca del prossimo cancelliere Federik Mez, la Schlein in Italia non ha alcuna rete di sicurezza o di riserva su cui poter contare. Se non riesce a legare bene neppure con i riformisti del suo partito, temendo i contraccolpi che le deriverebbero nei rapporti con Conte, figuriamoci se e come potrà coltivare il disegno alternativo suggeritole da quel furbacchione di Dario Franceschini. Che è di scommettere sul collasso del centrodestra per agganciare la Forza Italia di un Antonio Tajani finalmente consapevole di quel biglietto della lotteria che avrebbe in tasca rompendo con Giorgia Meloni e con Matteo Salvini. E diventando -ha detto sempre Franceschini nell’autofficina dove ha aperto il suo nuovo ufficio- l’ago della bilancia di ogni governo.

Elly Schlein e Dario Franceschini

In Italia la Meloni non è come Alice Weidel in Germania, con la sua estrema destra marginalizzata anche col quasi 21 per cento raggiunto nelle elezioni raddoppiando i voti rispetto a quattro anni fa e piazzando la sua Alternativa al secondo posto nella graduatoria dei partiti tedeschi. La Meloni è di altra stoffa. E sa tenere bene la coalizione di centrodestra che guida, nonostante le tensioni o difficoltà amplificate dagli avversari: meglio di quanto non riesca la Schlein al Nazareno alle prese con una decina ormai di correnti, quante ne ho viste contare dagli specialisti della formazione prodotta dalla fusione a freddo, nel 2007, fra i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli vari.

Giorgia Meloni

Sconcerta, a dir poco, la segretaria di un partito che dovrebbe essere l’animatore e il perno dell’alternativa al centrodestra e non riesce a trovare un argomento o una piazza per partecipare a qualcuna delle manifestazioni organizzate per solidarizzare con l’Ucraina nel terzo anniversario della guerra d’invasione cominciata dalla Russia di Putin col proposito velleitario di concluderla entro tre giorni. Eppure la Schlein aveva sfidato nei giorni scorsi la premier Meloni a schierarsi con l’Ucraina piuttosto che col presidente americano Donald Trump deciso ad accordarsi con Putin anche a costo di attribuirgli la parte dell’aggredito, anziché dell’aggressore.

La Schlein ritiene evidentemente gli altri della sua stessa pasta. Si è tappata orecchie e occhi per non sentire e vedere la Meloni ripetere, in collegamento con l’assemblea dei conservatori americani, che l’aggredita è l’Ucraina e l’aggressore è Putin. Il mondo della Meloni non è sottosopra come la Schlein vorrebbe per consolarsi e cercare di uscire dal vicolo -quello sì- in cui lei ha trascinato il Pd. Dove prima o poi penso che dovrà pagare il conto di una gestione un po’ maramaldesca.

Sentir dare alla Meloni, in una scenata parlamentare organizzata con tanto di cartelli, della presidente del coniglio, anziché del Consiglio, da una segretaria di partito che, ripeto, non è riuscita a trovare, o ha esitato fino all’ultimo, se mai ci avesse ripensato mentre scrivo, una piazza per confermare la solidarietà all’Ucraina nel terzo anniversario della sua invasione, è stato il massimo non della durezza nello scontro politico, ma semplicemente della comicità. 

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L’Europa continua a correre a destra fuggendo dalla sinistra

Tutto più o meno come previsto nei risultati delle elezioni anticipate in Germania, ma adesso chi va a raccontare e spiegare all’intelligenza artificiale della sinistra, a cominciare da quella italiana, visto ormai il difetto di intelligenza naturale, che l’Europa, come l’America di Donald Trump, va sempre più destra? Anzi, corre a destra, con un’affluenza alle urne altissima, di un 84 per cento ormai inimmaginabile in Italia, fuggendo dalla sinistra.

Dal Fatto Quotidiano

Una destra che in Germania non a torto, una volta tanto, Il Fatto Quotidiano preferisce chiamare al plurale –“le 2 destre”-  essedo una la Dc  di Frederik Mez, spinto verso la Cancelleria col circa 29 per cento dei voti, e l’altra l’Alternativa per la Germania di Alice Weidel, che ha raddoppiato i consensi rispetto alle precedenti elezioni diventando con più del 20 per cento il secondo partito tedesco.

La leader dell’estrema destra tedesca, Alice Weidel

La destra di Alice, chiamiamola così, ha guadagnato quasi quanto ha perso -una decina di punti- il cancelliere socialdemocratico uscente e battuto Olaf Scholz. Il cui partito prevedibilmente si accorderà, essendosi già offerto, con la Dc di Merz per costruire una specie di cordone sanitario conto la destra della Weidel. Che altrettanto prevedibilmente, come accade alla destra francese di Marine Le Pen contrastata dal presidente Emmanuel Macron con governi stagionali, continuerà a guadagnare voti, anziché perderne, rimanendo all’opposizione.

Trump e Putin d’archivio, ma nn troppo

In questa prospettiva, aggravata da un quadro internazionale di confusione o panico, messo sottosopra dal presidente americano Donald Trump scaricando, a dir poco, l’Ucraina del “dittatore e comico mediocre” Zelensky e trasformando Putin da aggressore ad aggredito, la Germania del camcelliere Mez ha buone probabilità di essere instabile come quella di Scholz.

Dal Policlinico Gemelli di Roma

L’Europa Non c’è da stare francamente allegri, nonostante le foto festose di Berlino che si dividono le prime pagine dei giornali con quelle romane del Policlinico Gemelli, dove Papa Francesco è in pericolo di vita.  

Meloni torna a difendere l’Ucraina dalla “brutale aggressione” russa

Giorgia Meloni ha dunque parlato interrompendo un silenzio sui rapporti fra Trump e l’Ucraina che sarcasticamente l’aveva fatta paragonare ieri da Salvatore Merlo, sul Foglio, al cineoperatore Serafino Gubbio. Immortalato in un romanzo da Luigi Pirandello facendogli dire. “Io mi salvo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così come il tempo vuole: perfetto”.

Trump e Meloni d’archivio

  Vestita di un rosso uguale a quello dipinto sulle labbra ma soprattutto a quello frequente, se non abituale, delle cravatte di Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti col quale vanta un rapporto dichiaratamente privilegiato, la premier italiana è intervenuta da remoto -come si dice in gergo tecnico- alla convenzione americana dei conservatori.

La premier italiana ha parlato bene naturalmente dei conservatori in genere, da lei rappresentati a livello europeo già prima di diventare presidente del Consiglio, e del conservatore massimo che siede “forte ed efficace” alla Casa Bianca.  Del quale si è detta convinta, o al quale ha chiesto, raccomandato e quant’altro di “non allontanarsi dall’Europa”. Come vorrebbero invece “i nostri avversari”, ha detto la Meloni scambiando per tali anche quelli che sul versante moderato, e negli stessi Stati Uniti, oltre che in Gran Bretagna, in Italia e altrove, hanno trovato negli annunci, nelle minacce e quant’altro di Trump qualcosa di non molto entusiasmante o solo incoraggiante per l’Europa.  

Meloni e Zelensky d’archivio

La Meloni ha parlato dell’Ucraina vittima di una “brutale aggressione” russa, e non viceversa, come aveva fatto qualche giorno prima Trump nella “bolla di disinformazione” contestatagli dal premier Volodymir Zelensky. Che si è rimediato per questo dal presidente americano del “dittatore non eletto”, ridotto al “4 per cento” nei sondaggi, e del “comico mediocre”.

Dal manifesto

Un paese aggredito dovrebbe naturalmente attendersi da quelli che lo hanno aiutato a difendersi evitandogli la capitolazione nei tre giorni propostisi dall’aggressore, impegnato da tre anni in una guerra chiamata “operazione speciale”, una gratificazione riparatrice o comunque una protezione nelle trattative di pace, quando queste finalmente si aprono. Ma non si è colta una simile predisposizione nelle parole e negli atteggiamenti di Trump. Le cui aperture a Putin hanno sorpreso tanto persino Mosca, dove l’ultraputiniano vice presidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev ha riso.  Una risata che presumo non condivisa dalla Meloni, che non ne ha parlato ai conservatori americani. E che, per quanto accolta con una ovazione dai conservatori americani quando è apparsa sugli schermi, Trump non ha citato ringraziando alla fine  gli ospiti intervenuti. “Innervosito”, secondo il manifesto. Ma non al punto da criticarla o insultarla. Anche lui è ricorso al silenzio di pirandelliana memoria. E’ il bello del romanzo, o della commedia.

Da Yalta a Riad, nel mondo sottosopra di Trump, Putin….e Vannacci

Il generale Roberto Vannacci

Impallidisce, e fa un po’ ridere, il “mondo al contrario” lamentato con lauti guadagni letterari e politici dal generale Roberto Vannacci, europarlamentare eletto nelle liste leghiste ma tentato anche di mettersi in proprio con un partito concorrente del Carroccio, di fronte a quello sottosopra al quale stanno lavorando, neppure dietro le quinte, i presidenti americano Donald Trump e russo Vladimir Putin. Entrambi peraltro ammirati dal nostro generale in aspettativa, che ha pure lavorato a Mosca procurandosi qualche rogna amministrativa nella solita Roma burocratica.

Il mondo al contrario, ripeto, di Vannacci è quello, fra l’altro, in cui la coppia omosessuale è più normale di quella eterosessuale. Dove il maschio corteggia la femmina e in generale, senza gradi e stellette sull’uniforme, la mette incinta. O almeno ci prova.

Il presidente ucraino Zelensky

  Nel mondo sottosopra di Trump e Putin, che sta prendendo forma a Riad, in Arabia Saudita, per succedere a quello disegnato militarmente e politicamente a Yalta a conclusione della seconda guerra mondiale, il presidente ucraino Volodymir Zelensky, bollato alla Casa Bianca come “dittatore non eletto e comico mediocre”, è un criminale che ha aggredito e invaso la Russia, invece di essere stato aggredito e invaso. Come Zelensky, appunto, è riuscito a far credere per tre anni ad un’America ancora nelle mani di quel presunto rincitrullito di Joe Biden e a un’Europa fuori di testa, avvolta nelle bandiere dell’Unione, con capitale a Bruxelles e tanto di organismi come il Parlamento, un Consiglio e una commissione esecutiva. Un’Europa che per Trump, come l’Italia ai tempi di Metternich in Austria, due secoli fa, è soltanto un’espressione geografica, più o meno. Sfidata ora  a tornare alla realtà e a difendersi da sola, dopo essere stata protetta a caro prezzo dagli Stati Uniti come una viziosa mantenuta.

Papa Francesco

Da questo mondo sottosopra -scusate l’ironia quasi blasfema- quel furbacchione di Papa Francesco, Bergoglio all’anagrafe argentina, pur sensibile ad una pace ad ogni costo, sta cercando di andarsene, anzi di scappare, sino a essersi procurato con una condotta imprudente quella polmonite bilaterale che lo tiene in pericolo di vita anche nel Policlinico Gemelli. Dove si è lasciato trasportare cedendo evidentemente alla tentazione di salvarsi per quell’insopprimibile istinto alla sopravvivenza che si avverte nel mondo ordinario, non al contrario o sottosopra. Auguri, Santità. Ma auguri anche a Zelensky, se è ancora Kiev e non già scappato a Parigi, come già lo immagina qualche retroscenista in Italia.

Insolita condanna, contro l’assoluzione chiesta dall’accusa, e solita gazzarra

Da Libero

La modesta condanna in primo grado del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro con l’imputazione “coatta” di violazione del segreto d’ufficio, che la pubblica accusa peraltro non ha sostenuto neppure al processo, chiedendo inutilmente l’assoluzione, è un po’ come il dito che si preferisce vedere piuttosto che la luna da esso indicata. Un dito al quale le opposizioni si sono attaccate reclamando le dimissioni rifiutate invece dal sottosegretario, fiducioso nel famoso giudice che troverà prima o dopo a Berlino. Ma soprattutto sostenuto dalla premier Giorgia Meloni in persona, con tanto di comunicato ufficiale, e dal guardasigilli Carlo Nordio, felice di continuare ad averlo “fra i collaboratori più cari e capaci”.

Ma anche di Nordio, si sa, le opposizioni, con la sola eccezione di Carlo Calenda, hanno reclamato le dimissioni proponendo in Parlamento per altre vicende la cosiddetta “sfiducia individuale”, per quanto improbabile. Anzi, impossibile con i numeri di cui dispone la maggioranza, ai quali le opposizioni non sono abituate E ne soffrono sino all’ossessione.

Più che per la condanna del sottosegretario Delmastro, il verdetto del tribunale di Roma è significativo per il no che hanno rimediato come parte civile i quattro parlamentari del Pd che sono all’origine sostanziale del processo, per quanto l’esposto d’avvio delle indagini fosse stato presentato dal deputato della sinistra radicale Angelo Bonelli.

Alfredo Cospito

Il segreto d’ufficio contestato a Delmastro dal giudice -ripeto- e non dalla pubblica accusa non fu due anni fa, quando esplose il caso, solo o tanto quello dei colloqui dell’anarchico Alfredo Cospito con due detenuti per camorra e indrangheta, tutti in regime speciale in un carcere sardo. Colloqui nell’ora d’aria sentiti dalle guardie, riferiti in un rapporto al dipartimento penitenziario a conoscenza del sottosegretario Delmastro, da questo confidato all’amico e collega di partito e di Parlamento Giovanni Donzelli, indicativi di una lotta coordinata fra anarchici e criminalità organizzata contro il regime speciale di detenzione contestato da Cospito con lo sciopero della fame.

Giovanni Donzelli

Più rilevante del coordinamento tra anarchici e criminalità organizzata era la circostanza emersa da quel rapporto, di cui Donzelli si avvalse in un discorso nell’aula della Camera, di quattro parlamentari del Pd che, nell’esercizio legittimo, per carità, del loro diritto di visita nelle carceri, ebbero contatti con gli interlocutori di Cospito. Al cui digiuno di protesta contro il regime speciale disposto per la gravità dei reati commessi, e la pericolosità del detenuto, la sinistra non era rimasta insensibile, diciamo così,

Ciò che scatenò la rabbia del Pd e affini fu insomma la rivelazione della visita della sua delegazione. Che francamente non si poteva considerare una notizia suscettibile di una riservatezza tale da incorrere in un reato parlandone, peraltro in un’aula parlamentare. Deputati e senatori, in base ad una parte dell’articolo 68 della Costituzione sopravvissuta alla riforma del 1993 restrittiva dell’immunità, “non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

Alle opposizioni, nell’esercizio stavolta delle loro ossessioni, appare praticamente normale, cioè abituale, come ho sentito dire in un salotto televisivo, una condanna non chiesta dalla pubblica accusa, per cui il primo grado viene scambiato per il terzo, e definitivo. E si reclama la rimozione dell’imputato da una carica di governo legittimamente ricoperta. Ma alla gente comune, oltre che alla maggioranza parlamentare anch’essa legittima, non credo che possa apparire normale lo spettacolo di parlamentari in visita in un carcere per fare praticamente politica anche in quella sede e tessere o comunque tenere, anche occasionalmente, rapporti informativi o d’altra natura con criminali interessati a campagne contro il regime speciale di detenzione.

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