A tamburo battente anche la scarcerazione dell’ingegnere iraniano dei droni

         Neppure l’ultimo atto dell’intrigo internazionale costato alla giornalista italiana Cecilia Sala la detenzione in un carcere iraniano tra i più malfamati del mondo si è sottratto ai tempi e alle modalità della massima sorpresa.

         E’ già al sicuro da ieri nel suo Paese l’uomo per il cui scambio Cecilia Sala era stata sequestrata: l’ingegnere iraniano Abedini Najafabadi Mohammad, di 38 anni arrestato in Italia il 16 dicembre su richiesta degli americani che lo volevano processare negli Stati Uniti per associazione a delinquere, spionaggio, terrorismo e altro praticato con la confezione e il traffico di droni.

         Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è avvalso all’alba di ieri della facoltà riconosciutegli dalla legge di obbligare la magistratura a scarcerare Abedin, senza aspettare la decisione della Corte d’Appello di Milano sulla richiesta dei legali di disporne gli arresti domiciliari, in attesa delle decisioni sull’estradizione, in un alloggio garantito dalla rappresentanza diplomatica iraniana.

Della richiesta americana di estradizione sino a qualche giorno fa il ministro Nordio aveva dichiarato di non averla ancora ricevuta. Nel frattempo deve essergli evidentemente arrivata ed è stata valutata rapidamente, nel modo insindacabile consentitogli, ripeto, dalla legge.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio

         Che i tempi della chiusura completa del caso costato a Cecilia Sala una brutta esperienza umana e professionale non fossero lunghi si era tuttavia capito vedendo il ministro Nordio in prima fila nella conferenza stampa del 9 gennaio della premier Giorgia Meloni, all’indomani del rientro della Sala  in Italia.

         Nordio stava lì a testimoniare il ruolo chiave del Ministero della Giustizia indicato dalla premier rispondendo alle domande dei giornalisti sulla scarcerazione della giornalista italiana e sugli ulteriori sviluppi di una vicenda il cui carattere internazionale e urgente aveva motivato la sua missione lampo nella residenza privata del presidente americano Donald Trump, in Florida. Senza aspettarne l’insediamento il 20 gennaio alla Casa Bianca, e al tempo stesso tenendo riservatamente informato il presidente uscente Joe Biden. Che comunque era ancora atteso a Roma, su entrambe le rive del Tevere, in Vaticano e al Quirinale, per una visita di commiato, poi annullata per l’emergenza da incendi in California.

Phakhshan Aziz, condannata a morte In Iran

         Il regime iraniano ha naturalmente gradito e apprezzato pubblicamente “la cooperazione” dell’Italia. Cui esso poteva francamente risparmiare almeno l’ultima provocazione, destinata anche a tutto il resto del mondo libero e civile: la conferma, proprio nel giorno della liberazione di Cecilia Sala, della condanna a morte per “ribellione” di una detenuta in quello stesso penitenziario. E’ l’attivista curda per i diritti delle donne Pakshann Aziz, di 40 anni,  arrestata nel 2023. Non se ne intravvede lo scambio con nessuno.

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Eppure persevera, anzi cresce l’inappetenza elettorale

Alessandra Ghisleri

         Alessandra Ghisleri nel riferire sulla Stampa dell’ultimo sondaggio del suo istituto  Euromedia Research ha tenuto a sottolineare di averlo condotto in una coincidenza eccezionale: nelle ore dominate dalla notizia della liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala. Un successo indiscutibile anche del governo, personalmente della premier corsa anche da Donald Trump per rimuovere gli ultimi ostacoli. Un successo non solo dei servizi segreti, della diplomazia, degli apparati e quant’altro, compresa l’informazione. Che forse non ha avuto il tempo di fare danni nella pratica del silenzio chiesto dalla famiglia nella fase più pericolosa del sequestro di Cecilia  in uno dei peggiori penitenziari del mondo, e non solo del regime iraniano.

Cecilia Sala a Ciampino

         Una pagina indiscutibilmente consolante della politica avrebbe dovuto procurarle un certo recupero di credibilità. Una maggiore predisposizione degli intervistati a occuparsene, a non rifiutarla. E invece in un sondaggio condotto con esplicite domande sulll’operazione Sala, chiamiamola così, colpisce quell’ulteriore aumento, rispetto a un mese prima, della percentuale alla voce, finale e testuale, “indecisi-astensione”: dal 50,5 al 50,8 per cento. E’ “solo” lo 0,3 per cento in più, mi direte. Un altro “passetto”, più che un passo. Ma di passetto in passetto sono anni che la politica, e tutto ciò che le è connesso, compresa la democrazia, perde terreno a beneficio dell’indifferenza. Che è peggiore della protesta perché meno emotiva, più convinta, più ragionata. Neppure ad una operazione come quella che ho intestato a Cecilia Sala è seguito un segno d’inversione, per quanto modesto, della tendenza al rifiuto della politica. O inappetenza elettorale.

         Per quel che resta dell’interesse residuo, sotto il 50 per cento degli “intenzionati” a votare, magari per premiare un partito rispetto ad un altro, si sono registrate variazioni favorevoli al partito della premier, salito di un punto e mezzo rispetto al 30 per cento di un mese prima. Lo 0,3 per cento in più è andato al Pd della Schlein, distante però adesso di più di sette punti dalla formazione della Meloni.

Luigi Zanda a 24 Ore

         Il MoVimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha perso l’1,4 per cento scendendo al 10. Di cui magari Conte riuscirà a consolarsi pensando al 9,8 per cento conseguito nelle ultime elezioni svoltesi a livello nazionale: quelle di giugno dell’anno scorso per il rinovo del Parlamento europeo. Dei grillini, anzi post-grillini come lo stesso Conte preferirà vedere definire i suoi elettori dopo la rottura col fondatore, ha ragione Luigi Zanda a dire, come in una intervista ieri a 24 Ore, che “non sono un partito stabile”. “In questo momento -ha aggiunto l’ex capogruppo del Pd al Senato- mi sembra che la (loro) linea politica sia determinata dalla volontà di distinguersi continuamente dal Pd, con la conseguenza che il Movimento dimagrisce vistosamente. Non è Schlein che sta erodendo il Movimento 5 Stelle, è la politica incomprensibile di Conte che fa perdere i voti”.

Il Trump sfregiato da un giudice che lo condanna senza pena

Titolo di Domani

C’è dunque qualcuno che sta messo peggio di noi italiani in tema di giustizia e di rapporti fra magistratura e politica. Sono gli americani, che hanno appena visto condannare il presidente appena eletto Donald Trump da un giudice che però non ha potuto infliggergli alcuna pena, se non quella dello sputtanamento -scusatemi la franchezza- prodottogli dall’immagine del primo “pregiudicato” alla Casa Bianca, come ha titolato in Italia il quotidiano di Carlo De Benedetti che esce col titolo del giorno dopo, Domani. O semplicemente “condannato”, come si è trattenuta la Repubblica di carta a caratteri tuttavia di scatola,  E tutto per una miserabile storia di sesso con una “pornostar”, di ricatto e di dollari pagati attingendoli da una cassaforte anziché da un’altra di Trump. Che ha reagito parlando di ”farsa spregevole” e annunciando comunque ricorso.

Dal Fatto Quotidiano

         Una condanna penale senza pena è di per sé un ossimoro, una cosa francamente senza senso. Ma il problema di quel giudice americano era solo quello di sfregiare un presidente degli Stati Uniti alla vigilia del suo insediamento. E di procurarsi l’applauso del Travaglio americano di turno, col suo archivio di “pregiudicati” in carriera, diciamo così, da mettere alla gogna nelle occasioni utili alla lotta politica.  Ma curiosamente il Travaglio vero, autentico, Marco, ha questa volta risparmiato al malcapitato di turno un trattamento da pregiudicato. Il suo Fatto Quotidiano con eccezionale sobrietà, a dir poco, ha dedicato all’impresa del giudice americano, e alla sua vittima, un modesto titolo di prima pagina che dice, testualmente: “Sentenza e immunità- Trump, condanna senza pena: soldi alla porno-amante”. Una sobrietà inglese, direi, a mezza strada fra l’America e l’Italia.

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Il più spiazzato dalla liberazione di Cecilia Sala in Iran è stato il Centro

Dal Dubbio

  Tra gli effetti collaterali dell’operazione riuscita a Giorgia Meloni di riportare a casa in meno di un mese la giornalista italiana Cecilia Sala finita inconsapevolmente in Iran in un gigantesco e pericolosissimo intrigo internazionale, ci sono quelli ascrivibili al complesso tentativo di rianimare in Italia il Centro. Ma soprattutto di rianimarlo non nella posizione o nello spazio terzopolista tentato nelle ultime elezioni politiche da Carlo Calenda e Matteo Renzi, che hanno poi fatto a gara fra di loro per demolirlo, bensì a sinistra. Per costruire la terza gamba del centrosinistra auspicata già prima delle elezioni nel Pd dall’ostinato Goffredo Bettini: l’uomo che aveva promosso Giuseppe Conte come “il punto più avanzato dei progressisti italiani”, forse contribuendo a gonfiarne la bolla proprio mentre perdeva Palazzo Chigi , uscendone per fare posto a Mario Draghi.

         I centristi, chiamiamoli così, di ispirazione e culturale cattolica e laica, interna ed esterna al Pd guidato da Elly Schlein, si sono dati appuntamento in due convegni programmati per il 18 gennaio a Milano e a Orvieto  ben prima che scoppiasse la vicenda di Cecilia Sala. L’obiettivo degli uni e degli altri era -non so se ancora- quello di rianimare la leadership della Schlein in una coalizione realistica, e non solo immaginaria, di un’alternativa al centrodestra a conduzione meloniana.

Cecilia Sala libera in Italia

         Ebbene, a liberazione di Cecilia Sala appena avvenuta con la regìa indiscussa della Meloni, fra missione lampo da Donald Trump e complicazioni createle più o meno consapevolmente da Elisabetta Belloni formalizzando le proprie dimissioni dal vertice dei servizi segreti a detenzione della Sala appena cominciata, di cui l’ambasciatrice non poteva non essere informata; a liberazione avvenuta, dicevo, il Centro della sinistra è quello uscito forse peggio dalla vicenda per difetto, quanto meno, di analisi e di prospettazione. E persino di collocazione internazionale.

         Romano Prodi, pur con l’esperienza maturata due volte brevemente a Palazzo Chigi e a Bruxelles più a lungo guidando la Commissione Europea, ha contestato alla Meloni una presunta vocazione all’”obbedienza” a Trump, Musk e compagnia bella. Addirittura prestandosi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, proprio nel giorno della liberazione di Cecilia Sala, e raccogliendo una palla passatagli da Massimo Giannini, coautore con lui di un libro ancora fresco di stampa, a tradurre in “cavallo di Troia” in Europa l’immagine della Meloni come di una “Trump card”.

Claudio Velardi sul Riformista

         Claudio Velardi, che conosce bene la sinistra avendola a lungo frequentata in posizioni particolari di visione come quando era collaboratore di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, ha così rappresentato la sua crisi scrivendone sul Riformista proprio sul terreno della politica estera così decisivo per chi si propone come alternativa  al governo in carica: “Né l’annunciato evento di una formazione centrista di impronta “cattolica” (qualunque cosa voglia dire nel ventunesimo secolo) potrà colmare il deficit strutturale dell’alleanza: la mancanza di un progetto unitario incarnato in una leadership indiscussa”. Poco importa, a questo punto, se individuata nella segretaria del Pd o in qualcun altro vestito da federatore. Come fu Prodi in tempi politicamente e storicamente lontanissimi e irripetibili, con la velocità che ha contrassegnato l’evoluzione dei partiti in Italia e dei rapporti fra di loro. O come immaginato da altri scommettendo su Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate di cui la Meloni ha parlato nella conferenza stampa d’inizio dell’anno mostrando di non temerlo come attore o protagonista politico dell’opposizione.

Pubblicato sul Dubbio

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L’orizzonte anche quirinalizio di Giorgia Meloni

Da Libero

Sarà anche fortunata, per carità. Soprattutto di avere gli avversari che ha, tanto ossessionati da perdere la bussola e accusarla, per esempio, di avere ignorato i problemi della gente comune in una conferenza stampa nella quale la premier si è sentita chiedere, tanto erano presenti quei problemi ai giornalisti accorsi curiosi e numerosi all’appuntamento, le impressioni che prova quando le capita di calpestare le formiche camminando.

         Sarà anche fortunata, dicevo, in un campo come la politica in cui la fortuna aiuta al pari dei generali in guerra. Ma francamente mi sembra davvero impossibile negare la bravura della premier, quella marcia in più che le permette, per esempio, di trovarsi in sintonia col pubblico ben più di quanto non esprimano i voti che raccoglie col suo partito.

         L’altra sera a Piazza pulita, una trasmissione televisiva della 7 che non la ama, diciamo così, il conduttore Corrado Formigli è stato il primo forse a sorprendersi di uno dei risultati più significativi del sondaggio appena effettuato da Eumetra di Renato Mannheimer. Che dava praticamente ferma al 28,6 per cento delle intenzioni di voto la destra meloniana rispetto alla rilevazione precedente del 4 dicembre. Ma il gradimento di Elon Musk, mostrificato a sinistra anche per la sua personale amicizia con la Meloni, forse pari solo a quella col presidente americano Donald Trump ormai vicino all’insediamento, è salito nello stesso spazio di tempo dal 42,9 al 58,4 per cento, cioè di 15 punti. E lo sgradimento è sceso di più di 16 punti: dal 51,4 al 34,8. E ciò, pur essendo avvertito Musk come “pericoloso” ancora dal 44,6 per cento del pubblico sondato.

Giorgia Meloni ed Elon Musk

         La ragione della differenza che sembra contraddittoria, paradossale e quant’altro fra quel 51,4 per cento di gradimento e quel 44,6 per cento pur sempre timoroso sta forse proprio nella fiducia che alla fine è prevalsa grazie a quella posta dalla Meloni su Musk. C’è gente insomma che se ne fida di riflesso perché ancor più si fida del giudizio della premier italiana. 

         Se questo accade per e con Musk, alla luce anche del credito appena guadagnatosi dalla premier con la gestione eccezionale di quel terribile intrigo internazionale che era apparso ed era il sequestro della giornalista italiana Cecilia Sala in un penitenziario iraniano fra i peggiori del mondo, è facile immaginare come possa influire la posizione della Meloni su problemi di natura strettamente interna, come le riforme in cantiere parlamentare del premierato e della giustizia. Su cui gufano gli avversari scommettendo sul loro naufragio nei referendum confermativi.

         Se n’è parlato anche nella conferenza stampa, dove la premier si è mostrata sicura del fatto suo, convinta delle scelte compiute e fiduciosa della sintonia che ha saputo creare con l’elettorato. Che sarà paradossalmente lontano dall’alternativa ricercata al centrodestra, anche con la rianimazione bocca a bocca del fantomatico centro, di stampo cattolico o laico che sia, quanto più largo riuscirà ad essere il cosiddetto campo degli avversari della premier.

         La Meloni ha forse sorpreso qualcuno con quella indecisione mostrata con i giornalisti parlando della possibilità, volontà ed altro di ricandidarsi a Palazzo Chigi nelle elezioni politiche alla scadenza ordinaria di questa legislatura, fra due anni. Quando, prima ancora di scadere la legislatura, lei avrà compiuto il 15 gennaio i 50 anni prescritti dalla Costituzione per essere eleggibile in Parlamento al Quirinale, quando scadrà dopo due anni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Che l’ha nominata il 22 ottobre scorso presidente del Consiglio, la prima donna a Palazzo Chigi, e potrebbe trovarsi nella condizione privilegiata di passare le consegne alla prima donna anche al Quirinale nella storia della Repubblica.  Una prospettiva alla quale immagino con un certo divertimento la reazione dei suoi avversari, e professionisti dell’antifascismo nell’anno dell’ottantesimo anniversario della Liberazione. Calma, signori. Restate ai vostri posti. Ristudiatevi, piuttosto, la vostra parte.

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Ripreso da http://www.startmag.it il 12 gennaio

L’avvicendamento anticipato al vertice dei servizi segreti

Dal Corriere della Sera

         E’ stata breve, tutto sommato, la “graticola” sulla quale l’ambasciatrice Elisabetta Belloni si è dichiaratamente sentita spiegando le dimissioni dal vertice dei servizi segreti comunicate al governo il 23 dicembre scorso, pur avendo ancora a disposizione quasi sei mesi di mandato. Una graticola per la danza dei nomi sui giornali, e dintorni, sulla sua successione.

         In genere, se non si è interessati ad una conferma, come la stessa Belloni aveva mostrato cogliendo l’occasione dell’incontro col personale per gli auguri di fine per pronunciare un discorso di tono e contenuto da commiato, la solita lotteria mediatica e politica sulla successione non dovrebbe essere vissuta come una graticola. Lo è magari per i successori, non per la persona da sostituire. Che peraltro, nel nostro caso, aveva già qualche altra prospettiva, diciamo così, di lavoro da poter coltivare. In particolare, a Bruxelles per occuparsi di immigrazione con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Alla quale si presume che la premier italiana abbia fornito buone referenze, come la stessa Meloni ha lasciato capire parlandone ieri nella conferenza stampa  in risposta ad una delle domande: fortunatamente non a quella stranissima sulle formiche che le capita di calpestare, e uccidere, camminando.

Giorgia Meloni alla conferenza stampa di ieri

         La “graticola” della Belloni, dicevo, è durata poco. Con sei giorni di anticipo rispetto ai tempi da lei lasciati per trovarle il successore entro il 15 gennaio assegnatosi come l’ultimo alla guida dei servizi segreti, la Meloni ha annunciato la nomina del successore proprio nella conferenza stampa già accennata, anticipando di qualche ora la formalizzazione da parte del Consiglio dei Ministri. E leggendo il lungo curriculum del prescelto: il prefetto Vittorio Rizzi, vice direttore uscente dell’agenzia dei servizi segreti di competenza interna, non estera.

Cecilia Sala allo sbarco all’aeroporto di Ciampino

         Peccato per il curriculum della ormai ex direttrice dei servizi segreti nel loro complesso, coordinando i rami dell’interno e dell’estero, che sia rimasto fuori il successo ultimo, costituito dalla liberazione così rapidamente clamorosa della giornalista italiana Cecilia Sala, sequestrata e detenuta dal regime israeliano per negoziare il rilascio in Italia, a buon punto ormai di maturazione, di un ingegnere iraniano specialista di droni che il regime di Teheran ha voluto proteggere dal rischio dell’estradizione negli Stati Uniti. Un successo, quello cui hanno concorso i servizi segreti, dal quale non si è francamente ben capito se l’ambasciatrice abbia voluto sottrarsi da sola o sia stata più allontanata a livello politico. E,in quest’ultimo caso, chissà per quali motivi.  Si vedrà se e quanto questo rimarrà un segreto di Stato. 

La conferenza stampa di Giorgia Meloni come una passeggiata

         Programmata con un fortunato ritardo, a dir poco, quasi prevedendo al minuto secondo la soluzione del caso che le aveva rovinato le feste di Natale e di Capodanno, costituito dalla detenzione- sequestro di Cecilia Sala in Iran, la conferenza stampa d’inizio del 2025 è stata per la premier Giorgia Meloni una passeggiata. E per i suoi avversari una partita a porta vuota, ma la loro.

         E’ stata fortunata la presidente del Consiglio anche nel liberarsi del passaggio della visita di commiato di Joe Biden a Roma.  Che poteva assumere aspetti un po’ imbarazzanti per il rapporto “non so se privilegiato, ma molto solido di certo”- come lei stessa ha detto parlandone ai giornalisti-  col suo successore alla Casa Bianca Donald Trump. Nella cui residenza privata, in Florida, la premier è volata con una missione fulminante presumibilmente decisiva, quanto meno, per chiudere la vicenda della giornalista italiana detenuta e sequestrata con la sua liberazione. Che non è stata contestuale ma appare chiaramente il presupposto di una mancata estradizione negli Stati Uniti dell’’ingegnere iraniano Abedini: l’uomo dei droni il cui arresto in Italia aveva provocato quello di Sala a Teheran.

         Gli incendi in California hanno creato l’emergenza che è quanto meno servita a risparmiare a Biden una visita diventata un po’ pleonastica, essendo di fatto -almeno per i rapporti fra Italia e Stati Uniti, e viceversa- già cominciata l’era del secondo Trump.

         Di quest’ultimo la premier italiana ha voluto essere in qualche modo l’interprete autentica, nella conferenza stampa romana, anche sul versante della guerra in Ucraina. Il cui territorio occupato dai russi con una operazione speciale che doveva durare “tre giorni” ma sta entrando nel terzo anno, è aumentato di meno dell’uno per cento, ha ricordato Meloni contestando le autocelebrazioni vittoriose di Putin e sostenitori.  I quali a questo punto risultano avere un interesse alla pace di gran lunga superiore alle apparenze. In particolare, il territorio ucraino occupato dai russi è passato dal dicembre 2022 ad oggi dal 17,4 al 18 per cento: lo 0,6 per cento in più, con perdite umane e materiali incommensurabili.

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Il fantastico ritorno di Cecilia Sala in Italia in un altro blitz di Giorgia Meloni

L’abbraccio di Cecilia Sala col fidanzato a Ciampino

         Fantastico. Giorgia Meloni è tornata a stupire gli amici e ancor più gli avversari ottenendo dal regime iraniano la liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala andandola ad accogliere personalmente all’aeroporto di Ciampino. La premier ha saputo tessere una tela di relazioni internazionali che l’accreditano ulteriormente anche al di là dell’Europa, dove pure l’avevano rappresentata come isolata.

         Di isolate, qui, rimangono solo le opposizioni, costrette ad applaudire nelle aule parlamentari il governo, e non solo a ringraziare genericamente “tutti quelli che hanno contribuito” a risolvere in meno di un mese un intrigo internazionale aggravato dal passaggio in corso tra il presidente uscente e quello entrante degli Stati Uniti.  Un passaggio che non ha impedito alla Meloni di volare dal presidente eletto, Donald Trump, senza aspettarne l’insediamento e, al tempo stesso, compromettere i rapporti col presidente Joe Biden ancora in carica, e per giunta in arrivo a Roma per le sue ultime visite di commiato sulle due rive del Tevere poi annullate per sopraggiunte emergenze da incendi in America.

Il post di Matteo Renzi su X

         Lo sforzo maggiore di disinvoltura in questa consolante pagina per l’Italia è stato forse quello di Matteo Renzi. Affrettatosi alle 11,39 di ieri a comunicare attraverso X  dell’odiato Elon Musk, non appena annunciata da Palazzo Chigi la liberazione di Cecilia Sala già sulla strada del ritorno, il suo “grazie al governo, ai servizi, alla famiglia”. E la partecipazione ad una festa di “tutto il Paese, senza distinzioni e polemiche”. Che però lui aveva sollevate reclamando “tavoli” con tutte le opposizioni, compresa la sua, cui  la Meloni si sarebbe sottratta con un protagonismo persino superiore al suo quando gli capitò di fare il presidente del Consiglio. E di incartarsi in un referendum estremamente personalizzato, e per questo perduto, su una incolpevole riforma costituzionale. Che pure meritava di essere approvata.

Romano Prodi a Otto e mezzo

         Ha fatto concorrenza a Renzi, nella disinvoltura, il due volte ex presidente del Consiglio, e persino ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Che, ospite riverito di Lilli Gruber a Otto emezzo, su La 7, è tornato a dare alla Meloni, pur riconoscendole il successo politico della liberazione di Cecilia Sala, della “obbediente” a Trump. O della “Trump card” suggeritagli, sempre nel salotto della Gruber, da Massimo Giannini. Una Trump card tradotta dal pluri-ex in “cavallo di Troia”. In cui Trump e simili si sarebbero infilati per distruggere l’Europa. Sembrava una seduta spiritica anche quella dalla Gruber. Ma non lo era per mancanza di spiriti, nel frattempo distratti dalla “vittoria di Meloni”.  Che si sono rassegnati a riconoscere nella titolazione della loro prima pagina anche quelli di Domani, il giornale di super opposizione di Carlo De Benedetti.

La Belloni smonta il giallo delle sue dimissioni dal vertice dei servizi segreti

Dal Corriere della Sera

         L’ambasciatrice Elisabetta Belloni non ha voluto continuare ad assistere in silenzio, che rischiava di apparire complice, alla rappresentazione giallistica, a dir poco, delle dimissioni dalla direzione dei servizi segreti, in anticipo di circa sei mesi rispetto alla scadenza del mandato. E ha voluto parlarne con la vice direttrice del Corriere della Sera Florenza Sarzanini, non casualmente reduce -credo- da una intervista alla premier Giorgia Meloni.

Dal Corriere della Sera

         Per capire il senso del “colloquio” della Belloni con Sarzanini potrebbe bastare la sintesi pubblicata sulla prima pagina del Corriere sotto il titolo già virgolettato di suo: “Sono stata sulla graticola ma lascio senza sbattere porte”.  “Una cosa -ecco la sintesi- ci tengo a dirla ed è l’unico motivo che mi fa rompere il riserbo che mi sono imposta in tutti questi mesi. Non vado via sbattendo la porta”.

Dal Fatto Quotidiano

         Ma la Belloni non ha voluto neppure forzare la porta dell’ufficio che forse già l’attende a Bruxelles, almeno nella rappresentazione, per esempio, del Fatto Quotidiano di “vice ministra all’immigrazione” nella Commissione dell’Unione Europea presieduta da Ursula von der Leyen.

Dal Corriere della Sera

         “Sarebbe un onore- ha confessato la stessa Belloni parlandone con la vice direttrice del Corriere della Sera- ma anche su questo voglio essere chiara nel dire che non c’è nulla di deciso. Al mio futuro comincerò a pensare il 16 gennaio”, cioè il giorno dopo la concreta conclusione del lavoro ancora in corso al vertice dei servizi segreti. Ma non credo che sia azzardato pensare che attorno a questa nuova destinazione della Belloni stiano lavorando le persone e le istituzioni qualificate, essendo maturata la decisione delle sue dimissioni, anticipata alla presidente del Consiglio e al sottosegretario con delega ai servizi, già prima della vicenda dell’arresto della giornalista Cecilia Sala in Iran e della sua problematica liberazione. Vicenda dalla quale, secondo i retroscenisti, la Belloni sarebbe stata esclusa.

         Se vi è stato un elemento scatenante, diciamo così, del disagio della direttrice dei servizi segreti questo andrebbe individuato, sempre stando al suo colloquio con Florenza Sarzanini, nel momento in cui sono uscite dalle stanze del potere, non certo le sue, voci, indiscrezioni e quant’altro sulla sua successione.

Ieri in via Acca Larenzia, a Roma

         Le parole della Belloni alla vice direttrice del Corriere della Sera presumibilmente non basteranno a far cessare polemiche e quant’altro in un clima politico tossico come quello attuale. Nel quale alla presidente del Consiglio e, più in generale, al suo governo si sta attribuendo la responsabilità persino del cameratismo ripetutosi in via Acca Larenzia, a Roma, nel ricordo dei due giovani di destra uccisi nell’assalto del 1978 all’allora sezione tuscolana del Movimento Sociale. Un cameratismo -è stato detto, per esempio, ieri sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber- che senza la Meloni a Palazzo Chigi sarebbe stato meno numeroso ed eccitato.

Il ricordo di Aldo Moro ritorna sul percorso di Giorgia Meloni

Da Libero

Credo di non abusare dell’amicizia di Aldo Moro, specie considerando le drammatiche circostanze della sua morte nel 1978, se racconto di uno sfogo che raccolsi da lui dieci anni prima, quando era ancora a Palazzo Chigi, alla guida del suo terzo governo di centro-sinistra, col trattino, e già avvertiva la smania dei colleghi di partito, e di corrente, di disfarsene. Lo accusavano neppure tanto dietro le quinte, con Flaminio Piccoli fra i più insofferenti fra i dorotei, come si chiamavano gli esponenti di quel gruppo dello scudo crociato, di avere troppo pazientato con i socialisti. Anzi, di averli troppo favoriti propiziando l’elezione del socialdemocratico Giuseppe Saragat al Quirinale alla fine del 1964, in sostituzione dell’ormai impedito Antonio Segni, e poi l’unificazione con i socialisti di Pietro Nenni, vice presidente del Consiglio.

L’unificazione socialista nelle elezioni politiche del 1968 diede modestissimi frutti ma pima aveva creato una certa apprensione fra i dorotei. Che però quando si trattò di rinnovare nella nuova legislatura l’alleanza con i socialisti pur frustrati dal risultato elettorale furono con loro ancora più pazienti o generosi di Moro. Essi offrirono col segretario uscente della Dc Mariano Rumor, dopo un governo balneare di Giovanni Leone, una edizione “più incisiva e coraggiosa” -testuale- del centro-sinistra, cominciando col togliergli il trattino, sino a rinunciare alla “delimitazione della maggioranza” praticata sino ad allora per marcare le distanze dai comunisti a sinistra e dai liberali a destra. Doveva aprirsi una stagione di “apertura al contributo” dei comunisti, pur dall’opposizione. Una stagione che Moro, scavalcando i dorotei dalla posizione di minoranza in cui costoro l’avevano spinto nel partito, tradusse nella sua famosa “strategia dell’attenzione”. Ne nacque una rincorsa a sinistra destinata a sfasciare la maggioranza.

Moro, per tornare allo sfogo che raccolsi prima che la situazione precipitasse nei modi che ho sintetizzato, mi disse con una visione pessimistica di tutta la politica, e non solo del suo partito, di cui poi avrebbe ripreso il controllo pur dalla postazione defilata, statutariamente, di presidente del Consiglio Nazionale: “In politica”, appunto, “ti perdonano l’errore, non il successo”.

Giorgia Meloni, che ha saputo e voluto rifarsi anche a Moro di recente per spiegare la sua visione dell’Europa, a costo di spiazzare e scandalizzare la sinistra all’opposizione, ne sta sperimentando forse l’amarezza assistendo al bailamme inscenato attorno alla sua fulminante missione da Donald Trump, nella residenza privata del presidente che sta per tornare alla Casa Bianca.

Mattarella e Meloni nel 2022 al giuramento del governo

Diversamente da Moro, tuttavia, la premier guida una coalizione, ma soprattutto un partito, il maggiore di tale coalizione, più unito. Lei ha i suoi dorotei non in casa, nella maggioranza, ma tutti all’opposizione, nelle dimensioni più varie del cosiddetto “campo” dell’alternativa: “largo” sino a Matteo Renzi o ristretto come lo vorrebbe Giuseppe Conte. Che è preso come in una tenaglia da due paure: quella nei riguardi della segretaria di un Pd che per le sue dimensioni sta agli altri come un albero ai cespugli, e quella nei riguardi di Beppe Grillo. Di cui ora l’ex premier teme il silenzio sopraggiunto ai funerali improvvisati, pur senza bara e fiori, del MoVimento 5 Stelle, sapendo che nel prossimo, prevedibile scontro egli rischia di uscire male persino come avvocato, perché il terreno della battaglia sarà anche o soprattutto giudiziario.

In questa situazione, essendo queste le forze in campo e le loro condizioni, per quanto aiuto possano avere i suoi avversari da un’informazione che inventa più di raccontare, che aizza più di registrare, che partecipa più di osservare, che si avvolge più nei fantasmi che nella carta o nei tubi elettronici , la Meloni ha molti meno problemi di quanti non le attribuiscano gli avversari. E ancor meno ne avrà dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e le sorprese -credo- che ne deriveranno.

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