La rivalutazione pelosa di Craxi fatta da Bettini sull’Unità

Dall’Unità di ieri

         Alla faccia dei “24 carati” di socialismo, o di sinistra, che Goffredo Bettini in un lungo intervento -quasi un saggio- avrebbe restituito a Bettino Craxi a 25 anni dalla morte scrivendone ieri sull’Unità ripensata e diretta dal generoso Piero Sansonetti. Che ha messo nel titolo i carati, appunto, che Bettini tuttavia non ha restituito.

Sempre dall’Unità di ieri

         Egli ha riconosciuto “sbagliato”, bontà sua, “ridurre” Craxi a “una sorta di spregiudicato capo politico, emerso in una congiuntura della storia di sinistra, un caso patologico”, ma ha ripiegato solo sulla formula di un Craxi che “fu un socialista e un democratico, naturalmente con le sue peculiari caratteristiche e idee”. Un “totus socialista” tradotto sempre generosamente dall’Unità” nel titolo interno, a pagina 10.

  A Craxi 25 anni dopo la morte, preceduta peraltro dalla fine pure del Pci, Bettini ha continuato a rimproverare di non aver saputo “misurare e indagare con la necessaria serenità le peculiarità” del partito di Palmiro Togliatti e successori. E neppure le responsabilità che i socialisti avrebbero avuto nell’avvento del fascismo, addebitate loro da Bettini citando “un editorialista del Corriere della Sera”, scoperto leggendo Antonio Scurati, che il 23 novembre 1920 così aveva commentato i disordini sopraggiunti a elezioni amministrative: “Di chi è la colpa di questa situazione? Chi, se non il partito socialista, aspira alla guerra civile?”.

Bettino Craxi alla Camera nel 1992

         Spintosi molto più avanti nel tempo per arrivare al  discorso pronunciato da Craxi alla Camera nel 1992, mentre maturava il suo coinvolgimento nella “tempesta giudiziaria” di Tangentopoli, Bettini ha contestato all’allora segretario del Psi di avere denunciato “fuori tempo massimo” il carattere diffuso del finanziamento della politica. Solo “per allontanare le accuse che in quel momento gli piovevano sulla testa”.

“Il Pds rispose in modo “povero” e opportunista. No, noi siamo i “buoni” e voi i “cativi”…intravedendo la possibilità di accelerare un ricambio politico”, ha annesso, riconosciuto e quant’altro Bettini. Che ha anche ricordato che al Pds “non andò bene” perché nel 1994, solo dopo due anni, “Berlusconi stravinse”.  

Dalla prima pagina dell’Unità di ieri

         Bettini ha anche provato a immaginare che cosa avrebbe dovuto dire, piuttosto, Achille Occhetto dopo quel discorso di Craxi alla Camera, pur rivendicando il merito della sua parte politica di non avere ceduto al “lusso” e alla “mondanità”: “Ma, sì, anche noi siano pienamente parte di un sistema a politico istituzionale arrivato alla frutta perché gestiamo insieme agli altri la sanità pubblica…perché il sindacato all’interno delle grandi aziende di Stato decide parte delle assunzioni….perchè il 30 per cento degli appalti nell’edilizia è destinato alle cooperative”. E ti pare poco, caro Bettini, pur vantando amicizia con Bobo Craxi, a un cui articolo sul padre è stato affiancato il tuo sull’Unità, che quel discorso o ragionamento fosse mancato? E con esso tutto il resto? Compreso il suicidio della sinistra.    

L’anticomunismo costato a Craxi dopo la caduta del muro di Berlino

Da Libero

Il ricordo dei 25 anni trascorsi dalla morte di Bettino Craxi, spentosi ad Hammamet il 19 gennaio del 2000, ha naturalmente finito per sommergere e superare i 33 trascorsi dall’esplosione di una Tangentopoli destinata, ma forse anche attivata per chiuderne la carriera politica mente stava per tornare a Palazzo Chigi, dove era già stato fra il 1983 e il 1987. O i 36 anni ai quali ha voluto risalire lo storico Andrea Spiri, docente della Luiss e autore di altri già eccellenti lavori, selezionando e pubblicando per “gli Scarabei” di Baldini+Castoldi ottanta lettere, fra scritte e ricevute da Craxi dal 1989, quando sarebbe cominciato davvero l’inconsapevole declino del leader socialista. E, più in generale, della cosiddetta prima Repubblica. O della Repubblica e basta, la cui “fine” è nel titolo del libro costruito da Spiri con molto scrupolo, premettendo ad ogni lettera una efficace e rigorosa sintesi del contesto politico in cui era partita o arrivata.

         I 36 anni che Spiri ripropone alla memoria dei lettori meno giovani o offre ai lettori più giovani, cominciano da un 1989 che pure avrebbe dovuto essere per Craxi il top, il coronamento del suo lungo, ostinato anticomunismo, condotto pur rimanendo un uomo di sinistra, con gli stivali e la camicia nera infilatigli addosso nelle vignette di Giorgio Forattini. Che pure -va detto con onestà anche questo- non lo faceva per compiacere i comunisti. Ai quali, a parte quegli stivali e quella camicia nera di Craxi, le vignette di Forattini erano prevalentemente indigeste perché impietose con le contraddizioni del loro partito.

La caduta del muro di Berlino nel 1989

         La caduta del muro di Berlino, cioè del comunismo, avrebbe dovuto spianare la strada a quella che Craxi sognava come l’”unità socialista”, e che fece sventolare come bandiera alle finestre della sede del Psi, realizzabile attorno al suo garofano, non alla falce e martello che ancora erano nel simbolo del Pci pur dopo gli strappi di Enrico Berlinguer da Mosca. Invece sotto quel muro i comunisti, affrettatisi poi ad anteporre un post al loro nome, cercarono disinvoltamente di far finire anche o solo Craxi, contestandolo non più come un anticomunista ma come un succube della egemonia  democristiana – nonostante egli avesse strappato alla Dc nel 1983 la guida del governo, avendo come vice presidente del Consiglio il presidente dello scudo crociato Arnaldo Forlani- e poi come un ladro, un corrotto, il re di Tangentopoli. Dove pure il finanziamento illegale della politica era una pratica diffusa nella popolazione e nel traffico come la sosta in doppia o tripla fila.

         Tutti avvertirono all’esplosione di Tangentopoli con l’arresto in flagranza di reato del socialista Mario Chiesa a Milano durante la campagna elettorale del 1992 -mentre Craxi riceveva lettere da Mino Martinazzoli e da Luigi Preti, della sinistra democristiana e del Psdi, che già lo vedevano o avvertivano di nuovo a Palazzo Chigi- la miccia di un incendio di ben altra dimensione. Appiccato per fare saltare Craxi e gli equilibri politici che egli rappresentava. Tutti, ripeto, lo avvertirono fuorché nel Psi. Dove il ministro delle Finanze Rino Formica, all’indomani delle elezioni pur conclusesi con la conferma della maggioranza uscente, costituita dalla Dc, dallo stesso Psi, dal Psdi e dal Pli, senza i repubblicani sfilatisi l’anno prima, scrisse a Craxi una lunga lettera per sostenere che bisognasse cambiare registro, scaricare praticamente la Dc e inseguire il Pds-ex Pci pur ormai di poco superiore al Psi dopo una scissione subita a sinistra.

La tomba di Bettino Craxi ad Hammamet

         Questa lettera di Formica è la più lunga di quelle ricevute da Craxi e pubblicate nel libro di Spiri. La più lunga e -ahimè- quella maggiormente tradottasi nel destino del Psi. Che, a dispetto delle resistenze opposte da Craxi, finì fagocitato dai post-comunisti in quello che il non più segretario del partito in una missiva all’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro descrisse e documentò il 22 luglio 1993 come uno “Stato di polizia”, nato e cresciuto nelle procure e nei tribunali.

Pubblicato su Libero

I guai della Santa…nchè fra i piedi e le mani della premier Meloni

         Il rinvio a giudizio per falso in bilancio della ministra del turismo Daniela Garnero, più nota col cognome dell’ex marito Santanchè, che anche lei preferisce al suo, è sicuramente un problema per la premier Giorgia Meloni. Che avrebbe preferito non vederselo arrivare tra i piedi, o tra le mani, con le opposizioni scatenate a chiedere le dimissioni della ministra e la maggioranza non del tutto convinta, diciamo così, dell’opportunità di lasciarla al suo posto in attesa del processo. Non del tutto convinta soprattutto nel primo partito della coalizione, che è anche quello della Santanchè, distintosi nelle cronache giornalistiche per il suo silenzio a dir poco imbarazzato.  

Dalla Stampa

         Alla Meloni, dalla quale la stessa Santanchè si è messa in attesa del giudizio per decidere se insistere o no nella difesa della sua postazione di governo, è stata attribuita dalla Stampa, ma anche in altre cronache o retroscena giornalistici, la tentazione, se on addirittura la “volontà” di chiedere alla collega e amica “il passo indietro”.

Dal Foglio

         “Santanchè isolata e mezza scaricata” ha titolato Il Foglio attribuendo alla premier la volontà o tentazione di ”prendere tempo”: non di più, come vorrebbero in senso negativo i nemici della ministra e in senso positivo gli amici, che non mancano anche in questo passaggio difficile, a dir poco, della sua esperienza politica e umana.

Dal Riformista

         Fra gli amici, o tendenzialmente tali, vanno probabilmente annoverati quelli del Riformista. Che hanno titolato in chiave critica contro i “manettari in Visibilia”, che è il nome della società voluta dalla Santanchè per dimostrare di quante meraviglie potesse essere capace ma trasformatasi poi in una via Crucis. “Parte subito l’assalto dei forcaioli contro Santanchè”, ha aggiunto il Riformista nel titolo di sostanziale comprensione, se non di incoraggiamento, per la ministra. Che non ha certamente cominciato l’anno nuovo nel migliore dei modi.  

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All’anagrafe della riforma, finalmente, della giustizia

Dal Dubbio

E’ giustamente risuonato nell’aula della Camera e dintorni, compresi i giornali, il nome di Silvio Berlusconi al primo dei quattro passaggi parlamentari della riforma della giustizia per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anti-correnti e tutto il resto.

         Il guardasigilli Carlo Nordio parlandone con i giornalisti ha, giustamente anche lui, aggiunto il ricordo di un suo illustre predecessore, Giuliano Vassalli, intestatario della riforma del processo, da inquisitorio ad accusatorio, propedeutica a quella delle carriere. Che invece l’associazione nazionale dei magistrati contesta come un assalto alla Costituzione. E si sente già mobilitata, tra manifestazioni, scioperi e quant’altro, per il prevedibile referendum conclusivo, non condizionato dall’affluenza alle urne essendo di natura confermativa e non abrogativa.

         Meno giustamente non è stato invece evocato Bettino Craxi, peraltro nel venticinquesimo anniversario della sua morte in corso di celebrazione fra interviste, convegni e libri. In uno dei quali lo storico e docente alla Luiss Andrea Spiri ha raccolto ottanta lettere ricevute o scritte dal leader socialista fra il 1989 e il 1999, sino a qualche settimana prima della morte.

         In una di queste lettere scritta il 22 luglio 1993 sotto l’emozione del suicidio in carcere dell’amico Gabriele Cagliari -uccisosi per la sensazione avuta di una lunga detenzione per non avere detto ai magistrati ciò che essi volevano sulla partecipazione dell’Eni alla pratica del finanziamento illegale della politica- Craxi denunciò al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro la trasformazione dello Stato di diritto in “Stato di polizia”. Dove, in barba anche al processo accusatorio finalmente adottato dopo la lunga sopravvivenza del processo inquisitorio regolato dal codice fascista di Rocco, era possibile sentir dire da uno stesso, “beffardo” magistrato che si occupava di Tangentopoli: “Non arrestiamo per far parlare. Scarceriamo se parlano”.

Bettino Grazi e Francesco Cossiga

         I frutti di questo modo di indagare, di preparare e infine di celebrare i processi, con un giudice quasi unico per tanti casi che peraltro indicava per iscritto al pubblico ministero a Milano come formulare la richiesta di arresto di qualcuno per vedersela accogliere; i frutti, dicevo, di questo modo di indagare, preparare e condurre i processi “dovrebbero far rabbrividire”, scrisse Craxi all’allora Capo dello Stato. Che non rabbrividì per niente. E neppure rispose al mittente. Il quale, avendo mandato copia della sua lettera ad alcuni amici, diciamo così autorevoli, fra i quali l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il futuro ministro della Giustizia Alfredo Biondi, ne raccolse privatamente condivisione e apprezzamento. Caustico, come sempre, Cossiga. Che, definendo “aperta” la lettera a Scalfaro per la diffusione avutane nei palazzi della politica, rispose: “A mio avviso ormai l’ordinamento è entrato in uno stato di fluidità e di delegittimazione che è vano pensare che senza un nuovo Parlamento ed un governo che sia il governo della Repubblica e non, come largamente è, di “La Repubblica” si possa porre mano alla restaurazione dello Stato costituzionale e di diritto”.

         Il governo in carica era allora quello di Carlo Azeglio Ciampi, subentrato il 28 aprile 1993 al primo di Giuliano Amato e seguito poi dal primo governo di Silvio Berlusconi,

         A pensarci meglio, dopo averne riferito la lettera scritta a Craxi il 28 luglio di quell’anno, anche il nome di Francesco Cossiga potrebbe rientrare nell’albo anagrafico, diciamo così, della riforma della giustizia all’esame del Parlamento. E così sgradita a “lor signori”, come avrebbe scritto dei magistrati ai suoi tempi sull’Unità il mitico Fortebraccio.

Pubblicato sul Dubbio

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Quella lezione di diritto di Craxi a Scalfaro contro lo Stato di polizia

Il libro di Andrea Spiri con le lettere di Bettino Craxi

         Fra i libri, le interviste, i convegni e altro nel venticinquesimo anniversario della morte di Bettino Craxi, il 19 gennaio del 2000 ad Hammamet, qualche settimana dopo un intervento chirurgico per tumore renale, spiccano per curiosità, anche paradossali, ottanta lettere scritte o ricevute dal leader socialista fra il 1989 e il 1999, sino a pochi giorni dalla fine, Lettere raccolte e pubblicate dallo storico Andrea Spiri per Baldini+Castoldi con puntuali riferimenti ai contesti di cronaca politica e giudiziaria in cui esse erano maturate.

         Fra queste ottanta lettere spicca a sua volta quella che il 22 luglio 1993, all’indomani del suicidio in carcere di Gabriele Cagliari a Milano, senza tuttavia farvi esplicito riferimento,  Craxi volle scrivere al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, già suo ministro dell’Interno fra il 1983 e il 1987, per sottoporgli “alcuni motivi di riflessione e di allarme” sulla gestione delle indagini e dei processi, in cui egli era ormai convolto, relativi al finanziamento illegale della politica e ai reati presumibilmente connessi di corruzione, concussione, ricettazione e via penalizzando. 

         Con una precisione di riferimenti giuridici e culturali che lasciano pensare quanto meno al contributo di altri più attrezzati di lui in materia -forse persino del giudice costituzionale e suo amico Giuliano Vassalli, autore della riforma del processo da inquisitorio ad accusatorio sostanzialmente tradita in quel periodo nelle procure e nei tribunali-  Craxi scrisse che ormai il cittadino non viveva più in uno “Stato di diritto” ma in uno “Stato di polizia”: Dove solo può accadere ciò che un magistrato “beffardamente” aveva ammesso dicendo: “Non arrestiamo per far parlare. Scarceriamo se parlano”. Cagliari, l’ex presidente dell’Eni e amico personale di Craxi, si era appena ucciso proprio perché convinto di non essere stato scarcerato dopo un interrogatorio per non avere detto ciò che i magistrati volevano.

Vincenzo Parisi con Scalfaro

         Craxi scrisse di “Stato di polizia”, preferendolo alla dizione prevalentemente giornalistica di “Repubblica giudiziaria”. Eppure, paradossalmente, proprio a lui era capitato di avere ricevuto il primo avviso di garanzia e insieme la solidarietà dell’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi. Che il 16 dicembre 1992 gli aveva scritto, testualmente: “Illustre signor Presidente, mi consenta di affidare a questo mezzo i sensi della mia più piena solidarietà e della più profonda amarezza per gli avvenimenti di questi giorni”. Nella “certezza che l’intera vicenda non tarderà ad essere riportata alle sue giuste proporzioni e ad essere pienamente e definitivamente chiarita”, Parisi si dichiarava ancora “devoto e riconoscente” per l’appoggio e la fiducia ricevute da Craxi quando era presidente del Consiglio e si accomiatava con “cordiali ossequi”.

         Anche come “Stato di polizia” l’Italia era insomma atipica, col Capo della Polizia solidale con la vittima designata dai magistrati. Che ora si dimenano contro una riforma che li contiene.

Sarà tregua a Gaza, finalmente, ma non fra opposizioni e governo in Italia

Da Gaza

Se non ancora in Ucraina, dove si combatte da quasi tre anni, almeno per Gaza, in Medio Oriente,  è stata annunciata una tregua di una quarantina di giorni fra israeliani e Hamas da domenica. Per cui avremo nel frattempo una coda -la solita in questi casi- di morti ancora più inutili del solito.  E’ una tregua la cui sola parola o annuncio fa esultare, rivendicandone ciascuna il merito, l’amministrazione americana uscente di Joe Biden, presidente sino a domenica appunto, e quella uscente di Donald Trump. Che lunedì giurerà e tornerà davvero alla Casa Bianca.

         Pur con tutta la provvisorietà insita nel suo nome, la tregua a Gaza è il regalo di questo nuovo anno sulla scena internazionale. Almeno un piccolo sospiro di sollievo. Sul piano della politica interna non è invece aria di tregua, in Italia, tra il governo e la sua maggioranza da una parte e, dall’altra, le opposizioni in grado di contare anche sull’aiuto di piazze roventi, in cui si corre sempre il rischio del nuovo morto, dopo quello per “vendicare” il quale esagitati assaltano le forze dell’ordine e devastano qualsiasi cosa li separi da esse. E se qualcuno pensa di rafforzare gli agenti di Polizia nella difesa non solo dalle piazze infiammate ma anche dalle complicazioni giudiziarie che ne possono derivare, deve mettere nel conto un’ulteriore campagna politicamente aggressiva, con l’accusa di volere instaurare il cosiddetto “Stato di polizia”. O di peggiorarlo, visto che qualcuno ritiene di viverci già dentro da quando Giorgia Meloni è a Palazzo Chigi.

         Oltre che sulle piazze, più o meno solite, le opposizioni hanno potuto contare ultimamente anche su quella che sembrava la casualità, sfortunata per il governo, di un traffico ferroviario a dir poco incerto, che rende il viaggio un’angoscia per chi è costretto a compierlo per lavoro o lo affronta per una vacanza.  E che fa reclamare dalle opposizioni le dimissioni, la rimozione e quant’altro di un ministro, Matteo Salvini, già colpevole di quella mezza nefandezza che gli avversari ritengono sia stata la sua assoluzione nel processo subito addirittura per sequestro di persona in una vicenda di sbarco ritardato di immigrati risalente a quando era ministro non delle Infrastrutture, come adesso, ma dell’Interno.

Dal Fatto Quotidiano

         Sulla casualità degli incidenti e guasti fra binari e stazioni sono sorti tuttavia sospetti, esposti dalle Ferrovie dello Stato alle competenti sedi giudiziarie, di atti di sabotaggio. Che a questo punto potrebbero rientrare nel quadro complessivo dei problemi che ha il governo, anche nelle piazze. Fesserie, naturalmente, secondo le opposizioni. “Sabotaggi ma solo su 5 episodi”, ha titolato Il Fatto Quotidiano omettendo di spiegare che sono stati sei, cioè quasi tutti, da ottobre in poi.  Ma che sabotaggi, “il motivo dei guasti”, e delle conseguenze, sarebbe tutto “nell’incapacità gestionale” del ministro. Che si ostinerebbe scandalosamente a rimanere al suo posto, o addirittura a sognare ancora il ritorno al Ministero dell’Interno.

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Matteo Salvini sulla ruota della sfortuna, assoluzione a parte

         Di tutti i Ministeri quello più ambito e allo stesso tempo più rischioso per le complicazioni possibili nella sua gestione è stato a lungo quello dell’Interno. Non a caso costato a Matteo Salvini un complicato processo per sequestro, addirittura, di persone e altre nequizie conclusosi in un’assoluzione che credo abbia sorpreso lui per primo, tanto sembrava scontata una sua condanna anche per l’atteggiamento più di sfida che di fiducia nella magistratura da lui pur espressa a parole prima della sentenza.     L’attuale ministro dell’Interno Piantedosi, anche lui Matteo, già collaboratore dello stesso Salvini all’epoca dei fatti costati all’ex il processo già ricordato, è alle prese con piazze a dir poco roventi. E, in cuor suo, credo scommetta più sulla fortuna che sull’efficienza e scaltrezza delle forze dell’ordine. Alle quali peraltro il governo ha subito incontrato difficoltà, anche presso il Quirinale, per aumentarne la protezione sul piano giudiziario. Dove le insidie paradossalmente riescono a diventare per Polizia e Carabinieri anche maggiori di quelle nelle piazze.

         A livello di rischio ha fatto a lungo concorrenza al Ministero dell’Interno quello dei Lavori Pubblici. Le cui scale a suo tempo l’appena nominato ministro Gianni Prandini, che avrebbe desiderato tutt’altra destinazione, affrontò guardando con preoccupazione le foto esposte dei suoi predecessori. Per quel dicastero passavano le opere pubbliche dalle quali i partiti generalmente ricavavano buona parte del proprio  finanziamento aggirando una legge che destinava loro meno della metà del necessario. E infatti scoppiò la cosiddetta Tangentopoli, dalla quale Prandini da ex ministro si salvò con assoluzioni, ma dopo un calvario di processi e di detenzioni.

         Un altro Ministero rischioso è sempre stato quello dei Trasporti, da cui uscì psicologicamente tramortito nel 1998, dopo meno di due anni di guida, il povero Claudio Burlando, già sindaco di Genova, per gli incidenti ferroviari che si verificarono sotto la sua gestione.

         A Matteo Salvini questi due Ministeri – Lavori Pubblici e Trasporti, più la Marina Mercantile- sono capitati tutti insieme sotto il nome di Infrastrutture. E, poveretto, ne sta provando tutti gli inconvenienti, attaccato e deriso come il ministro dei ritardi e degli incidenti.

Oltre che di rosari e medaglie di Madonne spesso esibite persino nei comizi, il leader della Lega -peraltro sfortunato anche sul piano elettorale, dopo essere salito troppo con quel 34 per cento delle penultime europee, nel 2019- dovrebbe dotarsi di un bel po’ di corni e cornetti: non quelli da mangiare, ma quelli da toccare e infilarsi addosso scaramanticamente. La sua ormai sembra più una ruota della sfortuna che della fortuna, pur contraddetta dall’assoluzione appena rimediata per i trascorsi da ministro dell’Interno.

Quel lusso permessosi dalla sinistra dopo la caduta del muro di Berlino….

Da Libero

Curiosamente puntuale nelle sue sorprese, Furio Colombo cominciò ad esserlo dalla nascita, il giorno di Capodanno del 1931 a Chatillon, in valle d’Aosta. Sarebbe stato fra i più brillanti, colti ed eleganti giornalisti italiani. Ebreo e filoamericano, anzi devoto degli Stati Uniti dove ha a lungo lavorato e insegnato, dirigendo per un po’ anche l’Istituto della cultura italiana a New York, tutto avrei potuto immaginare, io che lo leggevo di frequente e lo ascoltavo e vedevo alla Rai, ma non che diventasse comunista a comunismo peraltro caduto, o forse proprio perché caduto.

Walter Veltroni

         Furio arrivò in Parlamento nel 1996 , rimanendovi sino al 2013, col Pds e tutte le sigle successive. Dell’ultima delle quali, il Pd, cercò anche di essere il primo segretario, candidandosi però con modalità considerate irregolari da chi aveva deciso che quel posto dovesse spettare a Walter Veltroni.  E lui, debbo dire, uomo di mondo, capì e si adeguò rinunciando a insistere. Non poteva d’altronde fare torto, o tentare davvero, a uno dei suoi lettori più assidui e assorbenti. Che aveva imparato proprio dai suoi articoli a conoscere e ammirare l’America e la famiglia Kennedy: Bob in particolare, fratello e ministro della Giustizia del più mitico presidente Jhon, di cui fece la stessa fine -ucciso- mentre cercava di succedergli, peraltro non direttamente.

Silvio Berlusconi nel 1994, esordiente presidente del Consiglio

         Ho sempre avuto un sospetto, abituato andreottianamente a ritenere che a pensare male si faccia peccato ma  s’indovini. E’ il sospetto che Furio, anche a costo di sorprendere Gianni Agnelli, di cui era stato in qualche modo l’ambasciatore negli Stati Uniti, più ancora che il giornalista, avesse varcato il Rubicone del comunismo o post-comunismo italiano per antipatia verso Silvio Berlusconi. Che lo aveva sorpassato nelle sorprese -con tutti i mezzi e le ambizioni che aveva- improvvisando fra il 1993 e il 1994 un partito, candidandosi a presidente del Consiglio sulle macerie giudiziarie della cosiddetta prima Repubblica e vincendo le elezioni.

Silvio Berlusconi e Gianni Agnelli

         L’”avvocato”, come tutti chiamavamo Gianni Agnelli, compreso Berlusconi, che in più ne aveva una foto su uno dei suoi comodini, sorrise un po’ dell’avventura berlusconiana. Diceva agli amici che dei successi di Berlusconi avrebbero potuto benificiarne anche loro, in grado tuttavia di potersi sentire estranei a un suo insuccesso. Furio invece no. Pensava che Berlusconi fosse agli antipodi del suo mondo, del suo stile, delle sue abitudini, della sua cultura. Cercare di fargli cambiare idea era semplicemente impossibile.

Furio Colombo alla direzione dell’Unità

         Sul piano o sulla strada dell’antiberlusconismo Furio scavalcò i suoi ormai compagni di partito dirigendo radicalmente anche la mitica Unità dell’ormai defunto Pci, tornata nelle edicole dopo un primo fallimento, e poi partecipando con Antonio Padellaro, che l’aveva sostituito alla direzione di quel giornale, alla fondazione del Fatto Quotidiano ora diretto da Marco Travaglio. Che due anni fa però egli decise di lasciare clamorosamente, contestando il troppo antiamericanismo da lui avvertito nel trattare, per esempio, la guerra di aggressione della Russia di Putin all’Ucraina difesa appunto dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresa l’Italia di Mario Draghi prima e di Giorgia Meloni poi.

         La notizia della morte di Furio Colombo mi ha davvero rattristato. Mi era rimasto simpatico pur nelle sue sorprese non sempre condivise, a dir poco. E’ sempre continuata a piacermi la sua cultura, alla fine impostasi anche su di lui di fronte alla tragedia ucraina e ai suoi derivati. Ho sempre pensato negli anni della sua militanza nell’area del comunismo o post-comunismo che essa fosse un lusso esagerato, non so se più per lui o per quella parte politica. Eppure osai una volta, da direttore del Giorno, ben prima che lui mi sorprendesse politicamente, di insidiargli il ruolo che aveva negli Stati Uniti di ambasciatore della cultura italiana, oltre che della Fiat. Tentai di assumere Piero Orsellino come corrispondente del giornale e dello stesso editore di allora, l’Eni, in America. Non ci riuscii, ma per poco.

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Ergastolo e 30 anni di carcere a 73 di età si equivalgono, se permettete….

         I magistrati spesso le fanno grosse, d’accordo, condannando a torto o motivando male i loro giudizi per la valutazione di eventuali aggravanti o attenuanti, come si dice in gergo tecnico. E’ accaduto, per esempio, con la condanna di un imputato di due omicidi -uccidendo moglie e figliastra- alla vigilia della separazione dopo un lungo periodo di turbolenta vita familiare. La cui considerazione, unita a quella del suo comportamento da imputato confesso e collaborativo e da detenuto disciplinato, ha indotto la corte d’Assise di Modena con sentenza emessa dopo poco più di due anni dal fatto a risparmiargli l’ergastolo, comminandogli  solo 30 anni di carcere.

         Non sono piaciute ai familiari delle vittime, ai loro difensori e a un bel po’ di analisti e cronisti giudiziari le “comprensibili” condizioni di esasperazione riconosciute all’imputato. E interpretate come un brutto segnale a potenziali femminicidi, ahimè, frequenti.

Dal Corriere della Sera

         A leggere certi titoli di giornali e sintesi di prima pagina il pollice verso, diciamo così, contro la sentenza pur di condanna appare scontato, diciamo pure obbligatorio. “Uccise moglie e figliastra. La sentenza choc: va capito”, ha titolato il Corriere della Sera,   facendo delle “motivazioni” del mancato ergastolo “un caso politico” per le reazioni alla sentenza giunte da parlamentari.

Dalla Stampa

         “Uccidere la moglie non è (mai) umano”, ha severamente ammonto sulla Stampa la scrittrice Viola Ardone definendo “un ossimoro” la comprensione di qualcosa di umano, appunto, in un delitto, per di più femminicidio, e doppio.

         Ciò che sia il Corriere della Sera che La Stampa hanno tuttavia omesso di raccontare o riferire ai lettori della prima pagina, dove molti fermano la loro attenzione senza spingersi all’interno per saperne di più, è che il condannato ha 73 anni. Di fronte ai quali la differenza fra ergastolo e 30 anni di carcere mi sembra francamente pleonastica, a dir poco, per quanto solide possano essere agli occhi di un giurista. Ma, appunto, di un giurista. Non di un lettore comune, del quale si dovrebbe pur tenere conto nelle titolazioni e nei testi di prima pagina. Non vi pare?

Senza fare nomi perché prescindono dai fatti, mi pare che  errori di giudizio, o di comprensione, e omissioni di cronaca creino insieme polemiche a dir poco esagerate, come gran parte, del resto, di quelle politiche che occupano sulle prime pagine o nei titoli dei telegiornali ancora più spazio di quello guadagnatosi dalla sentenza di Modena.

Il vuoto che si mastica nei cantieri dei moderati di area a sinistra

Dal Dubbio

Non per infierire o sparare sulla solita ambulanza, ma solo per aggiornarvi sul cantiere in corso del Centro, con la maiuscola più o meno dovutagli, vorrei riproporvi e condividere ciò che ha appena scritto sul Corriere della Sera in un editoriale Paolo Mieli. Che sa leggere la realtà con la conoscenza e il disincanto, insieme, dello storico. Come fa sul piano sociologico il mitico Giuseppe De Rita, anche lui occupatosi di recente del cantiere, o cantieri, del Centro per osservare o sostenere in una intervista che vi si “mastichi il vuoto”.

Dalla Repubblica

         Paolo Mieli ha rimproverato sia ai centristi di vocazione prevalentemente cattolica sia ai centristi di vocazione prevalentemente laica, che sabato prossimo potranno seguirsi in convegni gli uni con gli alti sentendosi e vedendosi a distanza fra Milano e Orvieto, di “essere perentori in materia su cui sono concordi con l’intera sinistra ed evasivi sulle questioni su cui, invece si concentrerà l’attenzione mondiale dal 20 gennaio in poi”, quando cioè sarà davvero tornato alla Casa Bianca Donald Trump. Che ieri Paolo Gentiloni, esordendo come opinionista su Repubblica, ha tuttavia esortato ottimisticamente a vedere più come “una sveglia” che come un pericolo per un’Europa che ha bisogno di “correre”.

  L’”intera sinistra” di cui ha scritto Mieli è naturalmente quella che in un ipotetico schieramento alternativo al centrodestra sarebbe distribuita fra il Pd di Elly Schlein, i rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e i “progressisti indipendenti” di Giuseppe Conte,  come si sono sospettosamente autodefiniti loro stessi.

Paolo Mieli sul Corriere della Sera

         Con una certa perfidia Mieli ha preso un po’ in prestito la nostra testata per esprimere “il dubbio -testuale- che, per dire al mondo della loro ostilità al premierato e all’autonomia differenziata, non fosse necessario allestire quella complicata rete di collegamenti audio e video” programmata per il 18 gennaio.

         A trarre vantaggio da questa condizione del cenrosinistra è naturalmente il centrodestra, prevalentemente Giorgia Meloni. Che ha risolto il problema del centro della sua area occupandolo direttamente con quel 31 per cento, per esempio, dell’ultimo sondaggio di Alessandra Ghisleri, distante di quasi 20 punti da Forza Italia di Antonio Tajani. Al quale rimane la soddisfazione di essere di due centesimi di punto sopra la Lega, che non ha però alcuna vocazione centrista. Semmai essa è di una destra concorrente a quella della premier, che in qualche modo ne viene ulteriormente favorita accreditandosi al centro, appunto. 

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