L’anticraxismo resistente a tutti i solventi, anche a quelli del Quirinale

Dal Dubbio

A una settimana ormai dalle celebrazioni della morte di Bettino Craxi mi sono rimasti impressi due interventi che hanno entrambi dimostrato purtroppo -l’uno in via diretta e l’altro per le reazioni che ha suscitato- il rancore ancora duro a morire verso quella “personalità rilevante degli ultimi decenni del Novecento italiano” che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto indicare appunto in Craxi.

Un intervento significativo sul versante di sinistra è stato quello di Goffredo Bettini, che segna quasi fisicamente la continuità fra quello che fu il Pci e quello che è il Pd, inclusivo anche di una buona parte della sinistra di provenienza democristiana. L’altro intervento è proprio quello di Mattarella per le reazioni, ripeto, che ha provocato.

Goffredo Bettini

         Bettini, scrivendone sull’Unità in un articolo affiancato a quello del figlio di Craxi, Bobo, cui ha espresso “amicizia”, ha ancora rimproverato al padre di non avere saputo, col suo anticomunismo, “misurare e indagare con la necessaria serenità le peculiarità del Pci e le ragioni storiche della sua forza”. Che risalirebbero addirittura al 1920, quando sarebbero stati i socialisti e non i comunisti a spingere l’Italia verso il fascismo praticando violenza e disordini. “Chi se non il partito socialista -ha praticamente riproposto Bettini citando un editorialista del Corriere della Sera scoperto leggendo Antonio Scurati- aspira alla guerra civile?” in una situazione in cui “la battaglia trova necessariamente i suoi combattenti anche dall’altra parte”.

         Sul Craxi del discorso del 3 luglio 1992 alla Camera, di fronte al primo governo di Giuliano Amato, sul fenomeno generalizzato del finanziamento pubblico della politica entrato nel mirino della Procura della Repubblica di Milano, Bettini ha riconosciuto all’allora segretario del Psi di avere “colto un nucleo di verità ma fuori tempo massimo perché esplicitato per allontanare le accuse che in quel momento gli piovevano sulla testa”. Eppure Craxi fu coinvolto nelle indagini famose come “Mani pulite” solo cinque mesi dopo, a dicembre. Nel frattempo il Pds-ex Pci si era già adoperato, supportando i dubbi e le paure del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, perché a Craxi fosse negato il ritorno a Palazzo Chigi concordato con la Dc. “Il Pds -ha ammesso Bettini contraddicendosi clamorosamente nell’attacco a Craxi- rispose in modo “povero” e opportunista: no, noi siamo i “buoni” e voi “i cattivi”. E ciò -ha disinvoltamente aggiunto Bettini- “intravedendo la possibilità di accelerare un ricambio politico”,  avvenuto curiosamente a sinistra con Achille Occhetto segretario prima del Pci e poi del Pds, destinato ad essere sostituito da un Massimo D’Alema non certo nuovo alle cronache politiche. 

Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella

         Di Mattarella, per tornare alla “personalità rilevante degli ultimi decenni del Novecento italiano” riconosciuta in Craxi, è a dir poco sorprendente come sia bastato questo apprezzamento per esporre il capo dello Stato a quel mezzo processo storico, politico e morale fatto, per esempio, da quel primatista dell’anticraxismo che vuole essere considerato Marco Travaglio. Per nulla trattenuto nelle sue reazioni da due prudenze mostrate dal presidente della Repubblica nel contesto di altri giudizi positivi sul fronte della politica estera. Una prudenza è stata quella di accoppiare la “spiccata determinazione” di Craxi nella promozione di “cambiamenti…nel campo sociale e sindacale catalizzando sentimenti contrastanti nel Paese”. E’ chiara l’allusione alla diesa controvesa della televisione commerciale e ai tagli alla scala mobile dei salari apportati per contenere un’inflazione due cifre.

         L’altra prudenza avuta da Mattarella è quella di non avere ripetuto “la durezza senza uguali” contro Craxi nei processi mediatici e giudiziari lamentata dal predecessore Giorgio Napolitano al Quirinale dieci anni dopo la morte del leader socialista scrivendo una lettera pubblica alla vedova. Né il “brusco cambiamento” indicato da Napolitano nei rapporti fra giustizia e politica, intervenuto a favore della prima contro la seconda, ai tempi delle indagini su Tangentopoli.

Pubblicato sul Dubbio

Franceschini rottama Prodi e spinge i moderati fuori dal Pd

Da Libero

Come meccanico quale forse si sente, oltre che politico e romanziere, dall’autofficina romana dove ha sistemato il suo ufficio, e si è lasciato intervistare da Repubblica, l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini ha destinato alla rottamazione Romano Prodi. Sia quello dell’Ulivo sia quello dell’Unione con le sue “300 pagine di programma assemblato prima delle elezioni” vinte nel 2006 ma vanificate dalla caduta e dal ritorno alle urne in meno di due anni. Un Prodi ripropostosi e riproposto nel metodo in queste settimane, fra convegni, interviste e altro, ad una segretaria del Pd, Elly Schlein, impegnata solo a parole, senza iniziative concrete e realistiche, a costruire prima delle elezioni un’alleanza alternativa al centrodestra.

Franceschini e Prodi d’archivio

         Resosi finalmente conto della velleità della “vocazione maggioritaria” assegnatasi nella nascita dal Pd, incapace secondo lui di superare il minoritario 30 per cento dei voti, Franceschini ha proposto di rinviare a dopo le elezioni la ricerca e la formalizzazione delle alleanze. Lasciando che prima ciascun partito ostile al centrodestra raccolga per conto suo il massimo dei voti e mettendo nel conto, se non addirittura auspicando, che per aumentare la loro presa riformisti, moderati e quant’altri insoddisfatti della pur “generosa” Schlein, escano dal Pd e si mettano in proprio. Evidentemente senza di lui, Franceschini, che rimarrebbe al Nazareno a presidiarlo, magari tessendo la tela di un nuovo segretario se la Schlein fosse travolta da un insuccesso. Ma questo lo penso per la solita, professionale malizia di chi segue la politica e ne scrive.

Giuseppe Conte e Dario Franceschini d’archivio

         A proposito di malizia, non so se la segretaria del Pd abbia apprezzato la sortita del suo sostenitore o non si sia interrogata pure lei sui rischi che potrebbe correre accogliendone proposte e suggerimenti, non foss’altro rispetto al traguardo propostosi di Palazzo Chigi, per quanto cerchi a parole di non dirlo, o lasci che lo dica e lo ripeta Matteo Renzi da quando si è proposto al cosiddetto “campo largo”. Che invece Giuseppe Conte gli ha sbarrato o ridotto senza allarmare Franceschini. Che, sempre nella sua officina, ha sostenuto che ormai il presidente delle 5 Stelle,  o di ciò che ne è rimasto, si è spinto troppo avanti dalle posizioni del 2018 per sottrarsi, quando sarà, ad un’alleanza col Pd.

         Il “meccanico” Franceschini si è spinto anche nella diagnosi di altri motori, come quello di Forza Italia del fu Silvio Berlusconi e dell’ora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che, secondo lui, avrebbe inconsapevolmente, e forse immeritatamente, in tasca un biglietto della lotteria che Berlusconi non si sarebbe lasciato scappare se avesse avuto la fortuna di vivere ancora. Sarebbe una rottura con Giorgia Meloni, l’uscita dal centrodestra e un’autonoma , solitaria partecipazione alle elezioni per diventare in Parlamento l’ago della bilancia di qualsiasi maggioranza: il famoso “forno” unico  rimproverato a suo tempo da un Giulio Andreotti avventuratosi a immaginare per la sua Dc, e a sinistra, il forno alternativo dell’allora Pci. Quello, a destra, dei liberali si era già disattivato da solo.

Ma poi lo stesso Andreotti, arrivato a guidare su designazione o rassegnazione di Aldo Moro due governi interamente democristiani appoggiati dai comunisti di Enrico Berlinguer, si rese conto della provvisorietà e dei rischi di quel secondo forno. Cone Franceschini adesso della già ricordata vocazione maggioritaria del Pd da lui fondato nel 2007, ormai 18 anni fa, con Piero Fassino, Franco Marini e Walter Veltroni segretario. Che tuttavia nelle elezioni dell’anno dopo era già così poco convinto di quella vocazione da avere cercato di evitare lo scontro diretto ed esasperato con l’avversario Silvio Berlusconi, mai facendone il nome e chiamandolo solo “il principale esponente del campo avverso”. Che infatti vinse le elezioni del 2008 realizzando il suo quarto, pur ultimo governo.

Pubblicato su Libero

Franceschini spiazza Prodi nel Pd con la proposta delle mani libere alle elezioni

Dalla prima pagina di Repubblica

         Scoperto da Repubblica nel suo nuovo ufficio ricavato bizzarramente da un’autofficina romana all’Esquilino, di cui ha lasciato insegne e attrezzature aggiungendovi qualche poltrona, Dario Franceschini ha sorpreso forse ancora di più proponendo una svolta nel Pd. Dove si è guadagnata la fama non dico di burattinaio ma di regista di operazioni destinate a lasciarlo sempre in maggioranza, pur nei cambiamenti di segretari e persino di linee politiche. Una specie insomma di regolo del partito che contribuì a fondare con Walter Veltroni, Piero Fassino e Franco Marini mettendo insieme resti del Pci, della sinistra democristiana e persino liberali.          Rimastosene in disparte mentre moderati e simili del Pd si dividevano la settimana scorsa in convegni fra Milano e Orvieto per chiedere di contare praticamente di più, sentendosi emarginati dalla segretaria Elly Schlein, l’ex ministro della Cultura Franceschini ha scartato l’idea, visto l’ambiente in cui adesso lavora, di riparare le cose come la biciletta appesa al soffitto della sua ex officina. No, ha riconosciuto il carattere velleitario della “vocazione maggioritaria” del Pd perseguito anche da lui” e ha esortato gli amici che reclamano una pratica correzione di linea di andarsene pure dal partito per metterne su uno proprio. Lasciare alla segretaria del Nazareno il suo “generoso tentativo” di recuperare elettori a sinistra e/o astensionisti, partecipare “divisi” alle elezioni, senza inseguire programmi comuni come chiede Romano Prodi riproponendo i suoi vecchi modelli, e  cercare poi, a volti raccolti da divisi, un’intesa di governo alternativa al centrodestra. E ciò “valorizzando le proprie proposte e “l’aspetto proporzionale della legge elettorale”, salvo un accordo di desistenza per “un terzo dei seggi uninominali”, sufficiente ad evitare l’autosufficienza del centrodestra.

Franceschini a Repubblica

         Di dubbi su Giuseppe Conte ed ex o post-grillini Franceschini ha mostrato di non averne considerando quanto essi siano diventati diversi dalle posizioni di partenza del 2013 e del 2018. Piuttosto, da diavolo tentatore, egli si è chiesto perché mai i forzisti di Antonio Tajani rimangano nel centrodestra, diversamente da quanto avrebbe fatto forse Silvio Berlusconi se ancora vivo, per usare “il biglietto della lotteria che non sanno di avere in tasca”. Essi infatti diventerebbero l’ago della bilancia di ogni governo e maggioranza. Potrebbero farlo i figli di Berlusconi scendendo loro in campo al posto del padre, e prepensionando l’attuale vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri? “Non lo so ma il fiuto mi dice di no”, ha risposto Franceschini all’intervistatore Stefano Cappellini, facendo un po’ il politico e un po’ il romanziere, anche di successo.

Elli Schlein e Romano Prodi

         Il soccorso alla Schlein che si può intravedere nelle parole di Franceschini, liberandola dall’accerchiamento dei moderati, non è naturalmente scontato. Il destino della segretaria del Pd dopo le elezioni potrebbe diventare più precario sulla strada di Palazzo Chigi.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Verso la Giornata della Memoria, perduta o tradita, dell’Olocausto

Dal Foglio

         Sarà di improbabile riuscita, vista l’”ipocrisia” messa nel conto dallo stesso proponente, ma è di una intuizione insieme felice e drammatica -quasi un ossimoro- la rinuncia suggerita da Pierluigi Battista oggi sul Foglio alla Giornata della Memoria, con le maiuscole che ancora le spettano nell’anagrafe delle ricorrenze. Fissata a livello internazionale per il 27 gennaio in ricordo della liberazione del campo di concentramento degli ebrei ad Aushwitz effettuata dalle truppe russe alla fine della seconda guerra mondiale.

Immagini da Gaza

         Quanto poco  sia rimasto in realtà di quella Memoria, sempre al maiuscolo pensato da chi la volle imprimere nella Storia, anch’essa al maiuscolo, lo abbiamo visto e lo vediamo con l’antisemitismo tornato nelle piazze, nelle strade, nelle scuole e nei cosiddetti tribunali internazionali e dintorni. Dove il genocidio sarebbe non quello rivissuto il 7 ottobre 2023 col pogrom di Hamas in territorio israeliano ammazzando, ferendo e sequestrando ebrei, ma la reazione d’Israele per cercare di neutralizzare gli arsenali di guerra nascosti sotto le case, gli ospedali, le scuole, le chiese di Gaza, con la popolazione ridotta a tragico scudo dei terroristi. Che sono forniti addirittura di una polizia tornata adesso, a tregua concordata e iniziata con le pressioni della ex e della nuova amministrazione americana, presidiare rovine e traffico in quella terra devastata. Dove è facile prevedere più una ripresa del fuoco che una pace vera pur dopo più di quarantamila morti.

Pierluigi Battista

         Se non si avrà la forza di disertare lunedì prossimo la Giornata della Memoria, come ha proposto Pierluigi Battista, Pigi per gli amici, si avverta almeno la decenza di portare e alzare cartelli su una memoria aggettivata. Una memoria “ipocrita” o “perduta”, secondo le parole suggerite dal Foglio nella titolazione dell’articolo di Pigi, o tradita. Anche a livello dell’Onu, dove nacque l’idea di questa Giornata, prima che arrivassero e prevalessero gli smemorati. O i traditori, ripeto.           

L’opposizione ferroviaria a Salvini guidata personalmente dalla Schlein

Dal Messaggero

Anche se le opposizioni, guidate personalmente dalla segretaria del Pd Elly Schlein, non hanno creduto al vice presidente del Consiglio e ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, che ne ha riferito alla Camera, mi chiedo cos’altro dovesse o debba ancora accadere per non sentire puzza di bruciato, fisico e metaforico, nei guasti e incidenti ferroviari susseguitisi negli ultimi tempi.

Un video registrato in aree riservate

         Non ha insospettito le opposizioni neppure la circostanza sottolineata da Salvini della normalità subentrata sui binari e nelle stazioni dopo gli esposti alla magistratura, corredati di riprese di presenze di estranei in aree chiuse al pubblico.

Da Repubblica

         Sospetto invece è apparso alle opposizioni che Salvini abbia parlato a Montecitorio dai banchi del governo da “solo”, ha riferito Repubblica in prima pagina non vedendo neppure altri ministri leghisti invece presenti, a cominciare da un Roberto Calderoli rinfrancato dalla bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, del referendum abrogativo della sua legge sulle autonomie differenziate.

Elly Schlein ieri alla Camera

  Bisognava evidentemente che nell’aula di Montecitorio ci fosse il governo al completo per risparmiare a Salvini la rappresentazione di una solitudine da dissenso. E magari anche da condivisione da parte della premier in persona dell’impressione espressa dalla segretaria del Pd che a Salvini di trasporto interessi solo quello suo al vertice del Ministero dell’Interno. Dove egli vorrebbe tornare al più presto dopo l’assoluzione con formula piena nel processo per sequestro di persone, avendo ostacolato nell’estate del 2019 lo sbarco di immigrati clandestini soccorsi in mare da una nave spagnola decisa a scaricarli solo sulle coste italiane. Un’assoluzione che Salvini ha tenuto a ricordare alla Camera per spiegare le “spalle larghe” di cui ritiene di disporre.  

La primavera…autunnale dei referendum voluti dalle opposizioni

Dal Dubbio

Del jobs act -la riforma del diritto di lavoro da lui voluta quando era presidente del Consiglio e contestata dal maggiore dei cinque referendum ammessi dalla Corte Costituzionale- Matteo Renzi ha appena scritto e chiesto: “Quelli che dicono che vogliono stare nel Pd a tutti i costi che cosa fanno?”. E ha aggiunto: “Schlein ha dato nuova linfa al Pd ma lo ha trasformato in un partito molto più di sinistra rispetto a Veltroni e al sottoscritto”, tanto da sostenere l’abrogazione di quella riforma da lui ancora orgogliosamente rivendicata. “Questo -ha osservato l’ex premier, sempre a proposito della posizione abrogazionista assunta dalla segretaria del Nazareno- scopre il lato più centrista. Insomma i riformisti devono pensare a un contenitore diverso dal Pd se vogliono questo spazio politico”.

Dalla posta elettronica di Matteo Renzi

         Ciò significa che i riformisti, appunto, appena ritrovatisi in convegni fra Milano e Orvieto, i primi di cultura e provenienza democristiana e i secondi di provenienza comunista o radicale, dovrebbero decidersi o a mettere su un’altra casa o cosa, dove magari ritrovarsi anche con Renzi, o fargli concorrenza nello spazio di centro. O infine, magari nella più prevedibile delle evenienze nell’immaginazione o nell’interesse dell’ex presidente del Consiglio, rimarranno dove sono, cioè nel Pd, del tutto legittimamente per occupare” non uno spazio politico ma “alcuni posti nelle liste elettorali la prossima volta”, affollando stanze e corridoi del Nazareno dove si svolgono le trattative di questo tipo. E intanto -ha avvertito Renzi nel suo quasi messaggio ad amici, conoscenti, concorrenti ed altri-  la premier Meloni continuerà ad allargarsi al centro, a scapito sia dei suoi alleati di centrodestra, particolarmente i forzisti di Antonio Tajani, sia dei suoi avversari del campo opposto. 

Il campo largo al completo contro il jobs act

         L’analisi sottintesa o derivante dai  ragionamenti di Renzi, con o senza punti interrogativi, ha una sua indiscutibile logica. Ma finisce per contraddire obiettivamente la decisione da lui presa nell’estate scorsa, anche giocando a pallone con la Schlein in una partita e passandole la palla per una rete tuttavia annullata dall’arbitro, di rinunciare al progetto terzopolista proposto nel 2022 agli elettori con Carlo Calenda. E di proporsi per uno schieramento alternativo al centrodestra comprensivo di partiti o aree non compatibili con lui, come il Movimento 5 Stelle prima di Beppe Grillo e ora, o per ora, di Giuseppe Conte. Che inorridisce al solo sentire il nome di Renzi, il “conticida” celebrato letterariamente da Marco Travaglio scrivendo della successione a Palazzo Chigi dallo stesso Conte a Mario Draghi.         

Concepita dalle opposizioni per sfasciare e/o sconfiggere il governo, la prossima primavera referendaria dominata dall’assalto al jobs act, e non da quello impedito dalla Corte Costituzionale a ciò che è rimasto della legge sulle cosiddette autonomie differenziate dopo i tagli ch’essa le aveva già apportate, è così diventata una stagione più scomoda e rischiosa per le opposizioni che per la maggioranza. Che era ed è favorita d’altronde di suo dal fenomeno da tempo in crescita dell’astensionismo. Un fenomeno che sta all’istituto del referendum abrogativo come il diavolo all’acqua santa, essendo necessaria per la validità del risultato referendario la partecipazione alle urne della metà più uno degli elettori aventi diritto al voto.   Cosi è se vi pare, pirandellianamente.

Pubblicato sul Dubbio 

Doppia la festa della Meloni al giuramento di Trump a Washington

Il giuramento del presidente americano Donald Trump

         In attesa, o nella speranza, di raccogliere anche lei qualcosa come italiana e come premier dall’”età dell’oro” annunciata dal presidente americano Donald Trump dopo il giuramento, al quale ha assistito accettando l’invito mancato ad altri che se l’aspettavano ai piani alti dell’Unione Europea, Giorgia Meloni è stata raggiunta proprio a Washington dalla notizia romana della bocciatura del referendum abrogativo della legge sulle autonomie differenziate. “Un assist” della Corte Costituzionale per la premier e il suo governo, ha lamentato Il Fatto Quotidiano che aveva imprudentemente deriso, con  altri, il ministro della Giustizia Carlo Nordio -chiamato ognitanto “Mezzolitro” dal direttore di quel giornale- che aveva non reclamato ma soltanto previsto il verdetto dei giudici del palazzo della Consulta. I quali avevano appena bocciato alcune parti di quella legge e non potevano ragionevolmente lasciare agli elettori la possibilità, per quanto solo teorica,  di bocciare anche il resto, senza che il Parlamento avesse il tempo di correggere, o cercare di correggere, com’è nel suo diritto, i punti contestati dalla Corte al provvedimento.

Dal Fatto Quotidiano

         L’”assist” alla Meloni, per rimanere al linguaggio del Fatto rappresentando però l’umore di un po’ tutte le opposizioni, toglie dal mazzo dei referendum da esse promossi per rendere amara la primavera del governo, la prova alla quale maggiormente tenevano le stesse opposizioni per la destabilizzazione, quanto meno, che avrebbe potuto provocare nella coalizione di centrodestra. Dove i leghisti di Matteo Salvini, Roberto Calderoli, Luca Zaia eccetera, senza distinzioni fra loro, avrebbero vissuto la pur improbabile abrogazione di quel che è rimasto della legge  sulle autonomie differenziate come motivo, o pretesto, per rimettere in discussione nella maggioranza i tempi concordati per altre riforme, comprese quelle del premierato e della giustizia.  

         Se a Washington la Meloni ha accolto la notizia della decisione della Corte Costituzionale con un sospiro di sollievo, la si può quindi comprendere benissimo. Era in ballo qualcosa di ben più della “bonaccia” concessale sulla Stampa da Alessandro De Angelis. Quel che rimane del mazzo o grappolo primaverile dei referendum promossi dalle opposizioni con le foto di rito del famoso “campo largo” davanti alla Cassazione, dove erano state depositate le firme di richiesta, non impensierisce di certo il governo, fra jobs act, gli anni occorrenti agli immigrati per chiedere la cittadinanza, lavoro a tempo determinato e responsabilità nei subappalti. Sul tentativo di abrogazione del jobs act, comprensivo della disciplina dei licenziamenti, il Pd è addirittura nei guai per averlo a suo tempo votato in Parlamento. Esso quindi si è spostato tanto a sinistra che persino Matteo Renzi, ancora orgoglioso di quella legge voluta da presidente del Consiglio, è costretto ad allentare metaforicamente l’abbraccio ad Elly Schlein che segnò la sua rinuncia al terzopolismo promesso agli elettori nel 2022.

L’enigma del centro… con vista sul Quirinale del dopo Mattarella

Da Libero

Spogliata di tutta la drammaticità del tempo in cui fu adottata da Churchill e della sua destinazione, che era addirittura la Russia di Stalin, o il comunismo più in generale, si potrebbe dire anche del Centro che è “un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”. Esso non è stato certamente risolto dai due convegni svoltisi come in una saga fra Milano e Orvieto nella presunzione -spero- di farsi capire dal pubblico attraverso le cronache giornalistiche. Dalle quali però non mi pare che si sia riusciti a comprendere granché.

Questo è accaduto non per colpa dei giornalisti, per quanto avvezzi al linguaggio politico a volte competitivo con l’oracolismo, diciamo così, ma per la oggettiva astrusità dell’argomento e della stessa figura del Centro, sempre con la maiuscola, in un campo bipolare in cui si contendono la maggioranza del Parlamento e il governo del Paese un centrodestra e un centrosinistra.

Bisognerebbe allora parlare di due Centri. Ciascuno dei quali rivendica di essere l’unico valido, perché se fossero due o si eliderebbero a vicenda o dovrebbero avvertire quanto meno la tentazione attrattiva per scombinare il bipolarismo, se non si sentono abbastanza gratificati negli schieramenti di rispettiva collocazione. Ma curiosamente questa tentazione, almeno sinora non si avverte.

Ciascuno dei due Centri rivendica l’essenzialità nel campo proprio. Come Antonio Tiajni, per esempio, con la sua Forza Italia nel centrodestra sentendosi erede non solo di Silvio Berlusconi ma anche di Luigi Sturzo e di Bettino Craxi. Ma un democristiano di origine controllata come Gianfranco Rotondi si ritrova meglio tra i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. La cui consistenza elettorale è ormai ben superiore a quella della destra di una volta e simile piuttosto a quella della Dc.

Elly Schlein

Nel Centro dell’altro campo non sanno ancora spiegare bene, perché forse non lo sanno ancora bene neppure loro, se debbono continuare a stare nel Pd per condizionare di più la segretaria Elly Schlein, o addirittura “assaltarla”, come è stato indotto a pensare Roberto Gressi sul Corriere della Sera, o proporsi autonomamente per scalate e prospettive meno ravvicinate, pensando per esempio alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella fra quattro anni, come ha sospettato Mario Sechi. Perfidamente, avrà detto qualcuno degli interessati leggendolo ieri su Libero, ma non troppo perché obiettivamente e storicamente, fra prima Repubblica e edizioni successive, vere o presunte, le gare al Quirinale sono sempre cominciate con larghissimo anticipo.

Ricordo che quando perse quella col presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro per succedere al dimissionario Francesco Cossiga nel 1992, il presidente del Senato Giovanni Spadolini si consolò facendomi notare che dopo sette anni, alla scadenza del mandato del nuovo capo dello Stato, lui avrebbe avuto la “stessa età” del concorrente che lo aveva preceduto perché preferito, insieme, dai comunisti  interessati alla presidenza che si liberava a Montecitorio, e da Craxi imprudentemente fermo al ricordo di Scalfaro come suo ministro dell’Interno fra il 1983 e il 1987.

Sandro Pertini

Le ambizioni in politica sono tanto nascoste quanto prevedibili, forse troppo, per cui scattono nelle corse al Quirinale fattori misti di politica e psicologia. Persino il mio amico Sandro Pertini, all’età che aveva alla scadenza del suo mandato -89 anni nel 1985- pensava ad una rielezione. Ma si indignava se qualcuno ne scriveva, non capii mai bene se per il sottinteso scettico dei retroscena dedicatigli o per quel vezzo dei politici di apparire disinteressati quando invece sono interessatissimi. Lo furono, ai loro tempi, anche Amintore Fanfani e Aldo Moro, mancando entrambi il Colle più alto di Roma. L’unico forse a non avervi mai ambito davvero, anche quando i suoi amici lo spingevano sino a votare contro Arnaldo Forlani che era ancora segretario della Dc, oltre che candidato ufficiale al Quirinale, fu Giulio Andreotti. Che scherzava apprezzando l’”aurea mediocrità” che si attribuiva.

Pubblicato su Libero

Un pò illusoria la rivolta dei palestinesi a Gaza contro Hamas

Dal Corriere della Sera

Incoraggiato da alcune cronache televisive che riferivano di reazioni finalmente negative di palestinesi fra le rovine della loro Gaza alle grida e gesti festosi di uomini armati e per niente pentiti della morte che avevano seminato fra la loro gente, anziché proteggerla davvero, sono andato a cercare più dettagli nelle cronache dei giornali. Purtroppo non ne ho trovati, almeno di consistenti. E’ prevalso lo spettacolo di quello che il Corriere della Sera ha definito in un titolo lo “show di Hamas tra le rovine”.

         Più promettente, per quello che desideravo trovare nei racconti, mi è sembrato un titolo della Stampa, nelle pagine interne, su Hamas che “celebra la vittoria ma i palestinesi non gioiscono” perché “case, vite: tutto è distrutto”.  

Dalla Stampa

         Sotto tanto titolo, tuttavia, ho trovato una cronaca alquanto striminzita di Nello Del Gatto. Che racconta di “una donna a cui vengono offerti dei dolci per festeggiare la tregua”, e il primo rilascio di ostaggi israeliani e di detenuti palestinesi, rispettivamente, da Hamas e dalle prigioni di Israele, ma che “in un video li rifiuta, quasi gettandoli via”. E gridando: “Che cosa c’è da festeggiare, abbiamo perso tutto, in ogni famiglia ci sono stati dei lutti, non abbiamo più le nostre case, il futuro è morto e non sappiamo se e quando potremo riprendere una vita normale”. Ma, ripeto, “una donna”: non di più. Al massimo due, se non è la stessa alla quale viene attribuito un analogo sfogo più contro i presunti difensori dei palestinesi che contro gli israeliani da loro provocati con lo scempio del 7 ottobre 2023. Da cui tutto è nato. E dopo il quale i “combattenti” dai loro rifugi sotterranei hanno subìto 3000 morti e la popolazione più di 40 mila.

         Neppure il Vesuvio nel 79 dopo Cristo riuscì a fare tanto a Pompei e dintorni,  fermandosi a 16 mila morti.  

Il Quirinale partecipa alle celebrazioni di Craxi omaggiato dal presidente del Senato sulla tomba

Da Libero

Sergio Mattarella ha dato dal Quirinale più di una copertura al presidente del Senato, e seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa nella partecipazione, contestata a sinistra neppure tanto fra le righe, alla celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Bettino Craxi davanti alla tomba che ne custodisce i resti ad Hammamet.  E vi è andato anche col vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, nonché con Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri e Difesa del Senato e figlia irriducibile, direi, di Bettino. Che ha naturalmente ringraziato il Capo dello Stato per il suo intervento da Roma.  

Il presidente del Senato Ignazio La Russa alla tomba di Craxi

“Una personalità rilevante degli ultimi decenni del Novecento italiano”, ha detto di Craxi il presidente della Repubblica aggiungendo anche il suo apprezzamento a quello espresso dal predecessore Giorgio Napolitano. Che nel decimo anniversario della scomparsa del leader socialista e due volte presidente del Consiglio aveva voluto scrivere una lettera pubblica alla vedova per riconoscere e lamentare “la durezza senza uguali” con la quale il marito era stato indagato, processato e condannato per il finanziamento illegale della politica a lungo praticato dalla generalità dei partiti. E di cui l’ex capo del governo era diventato il capro espiatorio con una combinazione -anch’essa senza uguali, andrebbe riconosciuto finalmente anche dai giornali- fra la magistratura e l’informazione stampata e trasmessa.

Di quella diabolica combinazione si sarebbe poi lamentato anche l’ex presidente della Camera e magistrato Luciano Violante proponendo più volte la separazione fra le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti, piuttosto che quella fra pubblici ministeri e giudici  di cui si è finalmente consumato il primo dei quattro passaggi parlamentari. Al quale è seguita, puntuale come il giorno alla notte, la proclamazione dello sciopero dell’associazione delle toghe per il 27 febbraio. Che per fortuna cadrà di giovedì, e non del solito venerdì propedeutico all’altrettanto solito ponte dei lavoratori del trasporto pubblico.

Alla vicenda giudiziaria di Craxi, dopo una lunga carriera di servizio alla politica e alle istituzioni, in termini innovativi sul piano interno e internazionale, caratterizzati peraltro da “grandi trasformazioni sociali e dai profondi mutamenti negli equilibri globali”, Mattarella ha solo accennato inserendola in quelle che caratterizzarono un “burrascoso passaggio della vita della Repubblica”. In particolare, “la crisi -ha ricordato il presidente- che investì il sistema politico, minando la sua credibilità”. E “chiuse con indagini e processi una stagione provocando un ricambio radicale nella rappresentanza”.

Giorgio Napolitano

Napolitano invece quindici anni fa, scrivendone ad Anna Craxi, si era spinto a rilevare il “brusco spostamento degli equilibri nei rapporti fra politica e giustizia” intervenuto all’ombra di Tangentopoli e/o Mani pulite.  

A quello spostamento sono in tanti ancora a non volere rimediare, scambiando per “vendetta” e “resa dei conti”, come fa parlandone il presidente uscente dell’associazione nazionale dei magistrati in agitazione, il lungo, faticosissimo tentativo di provvedere, visti anche i fatti sopraggiunti alla già ricordata Tangentopoli.

La reazione del Fatto Quotidiano ai riconoscimenti di Mattarella a Craxi

Non dimentichiamoci che nel 2013 Napolitano fu costretto a ricorrere dal Quirinale alla Corte Costituzionale per mettere le sue prerogative presidenziali al riparo dalla Procura di Palermo nel trattamento delle intercettazioni in cui era finito pure lui, nella sua utenza telefonica di presidente della Repubblica, nella vicenda giudiziaria delle presunte trattative fra Stato e mafia nella stagione delle stragi. Fu, quella di Napolitano, una iniziativa dirompente, che spaccò anche la Repubblica di carta, con Eugenio Scalfari schieratosi col capo dello Stato e suoi autorevoli collaboratori, quasi familiari, contro.  Nello scontro vinse Napolitano con una nettezza che gli avversari non gli perdonarono mai, nel loro stile. 

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑