Il contropiede della Meloni nella corsa al tribunale dei ministri per l’affare Almasri

Dalla Stampa

         Sul putiferio provocato dalla notizia, diffusa dalla stessa premier Giorgia Meloni, dell’iniziativa giudiziaria su di lei, sui ministri dell’Interno e della Giustizia e sul sottosegretario alla Presidenza del Consiglio delegato ad occuparsi dei servizi segreti, si ha solo l’imbarazzo della scelta fra chi ha compiuto per primo o di più falli di reazione, chiamiamoli così cercando di essere equanimi. Che è cosa francamente difficile nell’ossimoro di questa calda stagione politica d’inverno.

Dal Foglio

         Ha sbagliato di più la premier a esibire in un video quello che ha definito un “avviso di garanzia”, con tanto di reati ipotizzati a carico suo e dei colleghi di governo per il rimpatrio in Libia del generale Almasri,del quale la Corte penale internazionale dell’Aja aveva chiesto e per qualche ora anche ottenuto la carcerazione in Italia dopo averlo lasciato viaggiare liberamente fra Gran Bretagna e Germania? Un generale accusato di gravissimi reati nel trattamento degli immigrati in Libia, dei quali sono aumentate le partenze per l’Italia dopo il suo arresto, in una coincidenza a dir poco significativa. 

L’avvocato Luigi Li Gotti

         O hanno sbagliato l’associazione nazionale dei magistrati e tutti quelli che le sono andati appresso contestando alla Meloni la natura dell’atto ricevuto dalla Procura della Repubblica di Roma? Che sarebbe non un avviso di garanzia ma una semplice e “dovuta” comunicazione di inoltro al competente tribunale dei ministri, composto per sorteggio, di un esposto delll’avvocato Luigi Li Gotti. Che ciascuno colloca politicamente dove vuole riferendosi alle varie tappe del suo impegno politico: a destra e a sinistra, essendo lui passato per il Movimento Sociale, Alleanza Nazionale e Italia deivalori di Antonio Di Pietro, guadagnandosi in quest’ultima collocazione un sottosegretariato nel secondo governo di Romano Prodi.

Dal manifesto

         Esiste sul piano logico, mediatico, percettivo una differenza fra indagini in corso, impedite per legge alla ordinaria Procura della Repubblica di Roma in materia di reati ministeriali, o indagini imminenti, dati i tempi ristretti lasciati al tribunale dei ministri per valutare la situazione? Dubito che esista, per quanto importante, persino vitale, sembri apparire all’associazione nazionale dei magistrati in un momento in cui essa è impegnata in un duro scontro con il governo sulla riforma della giustizia all’esame del Parlamento. Uno scontro che non è arrivato all’improvviso, ma rientra in un conflitto fra giustizia e politica in corso da una trentina d’anni se vogliamo risalire alle inchieste giudiziarie note col nome di “Mani pulite”. O da una quarantina se vogliamo risalire al 1985, quando l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga impedì al Consiglio Superiore della Magistratura, da lui stesso presieduto, di processare a suo modo il capo del governo Bettino Craxi. Che aveva criticato come riduttivo il trattamento giudiziario riservato ai terroristi assassini del giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera.

Il De Bello… Italico tra la magistratura e la politica

Da Libero

Altro che la trentina d’anni cui viene spontaneo pensare lì per lì per ricostruire questa specie di guerra fra giustizia e politica, anzi fra giustizia e governo in cui viene spontaneo iscrivere, per clima e circostanze, gli avvisi di garanzia ricevuti dalla premier Giorgia Meloni, dai ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano.  Che sono divisi ora fra le incombenze parlamentari e quelle giudiziarie per l’affare del generale libico Almasri. Il quale ha potuto viaggiare libero per un po’ di giorni in Europa prima di essere raggiunto in Italia da un ordine di arresto internazionale, eseguito il quale sono partiti appunto dalla Libia altri barconi di immigrati clandestini destinati in direzione del nostro Paese. Sino a quando il generale da persona pericolosa quale è stata considerata anche dal nostro governo non è stato rispedito a casa sua.

Francesco Saverio Borrelli, che da procuratore della Repubblica a Milano bloccò il primo governo Amato

         La guerra dei 30 anni, dicevo. O dei 32, pensando a quando la Procura della Repubblica di Milano contestò pubblicamente due decreti legge emessi dal primo governo di Giuliano Amato per una cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, e dalle conseguenti indagini giudiziarie “Mani pulite”. Una protesta che fermò al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro la mano per la firma, pur dopo che i decreti erano stati approvati dal Consiglio dei Ministri fra interruzioni della seduta necessarie alle consultazioni fra gli uffici di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale.

         Un analogo intervento della Procura ambrosiana avrebbe colpito l’anno dopo un decreto legge, quella volta del governo di Silvio Berlusconi, che pure era già stato controfirmato dal capo dello Stato, per limitare il ricorso alle manette prima del processo, nella fase delle indagini preliminari. Quando gli stessi magistrati si difendevano dall’accusa di abusare degli arresti dicendo che non arrestavano gli indagati per farli parlare, ma li liberavano quando parlavano. Se lamentò Bettino Craxi in una lettera quasi aperta al presidente della Repubblica Scalfaro, sempre lui, che rimase senza risposta. Ed è stata pubblicata solo di recente, fra ottanta selezionate nel suo archivio nel venticinquesimo anniversario della morte.

Francesco Cossiga e Bettino Craxi

         Ma già prima di questi episodi non idilliaci, diciamo così, nei rapporti fra magistratura e governo, si era verificato nel 1985 il clamoroso intervento dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga sul Consiglio Superiore della Magistratura, da lui stesso presieduto, per la pretesa di censurare il presidente del Consiglio Craxi. Che aveva espresso valutazioni critiche sulle agevolazioni giudiziarie concesse ad aspiranti terroristi che si erano guadagnati l’arruolamento uccidendo come un cane sotto casa a Milano il giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera.

         Cossiga sconfessò il vice presidente del Consiglio Superiore, il collega di partito Giovanni Galloni, che si era prestato alla confezione di un ordine del giorno così invasivo, gli ritirò la delega per l’occasione e mobilitò una brigata di Carabinieri per fare rispettare la sua diffida. Il presidente del Consiglio -ricordò il capo dello Stato- risponde delle sue opinioni al Parlamento che gli ha concesso la fiducia, non all’organo di autogoverno della magistratura. E finì lì, tra le proteste naturalmente di toghe che poi avrebbero avuto occasioni per rifarsi contro Craxi. Così come fecero le opposizioni in Parlamento tentando l’impeachment di Cossiga per le sue esternazioni, cioè per le sue opinioni.

         Nel contesto di una storia così lunga, che non ho voluto estendere ulteriormente risalendo nei particolari al pericolo  di una “Repubblica giudiziaria” avvertito già agli inizi degli anni Settanta del Novecento dall’allora sottosegretario repubblicano al Ministero dell’Industria e Commercio, Oscar Mammì; nel contesto, dicevo, di una storia così lunga le notizie appena arrivate da Palazzo Chigi e dintorni sono solo le ultime in ordine di tempo. Cioè, le penultime.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑