Doppia la festa della Meloni al giuramento di Trump a Washington

Il giuramento del presidente americano Donald Trump

         In attesa, o nella speranza, di raccogliere anche lei qualcosa come italiana e come premier dall’”età dell’oro” annunciata dal presidente americano Donald Trump dopo il giuramento, al quale ha assistito accettando l’invito mancato ad altri che se l’aspettavano ai piani alti dell’Unione Europea, Giorgia Meloni è stata raggiunta proprio a Washington dalla notizia romana della bocciatura del referendum abrogativo della legge sulle autonomie differenziate. “Un assist” della Corte Costituzionale per la premier e il suo governo, ha lamentato Il Fatto Quotidiano che aveva imprudentemente deriso, con  altri, il ministro della Giustizia Carlo Nordio -chiamato ognitanto “Mezzolitro” dal direttore di quel giornale- che aveva non reclamato ma soltanto previsto il verdetto dei giudici del palazzo della Consulta. I quali avevano appena bocciato alcune parti di quella legge e non potevano ragionevolmente lasciare agli elettori la possibilità, per quanto solo teorica,  di bocciare anche il resto, senza che il Parlamento avesse il tempo di correggere, o cercare di correggere, com’è nel suo diritto, i punti contestati dalla Corte al provvedimento.

Dal Fatto Quotidiano

         L’”assist” alla Meloni, per rimanere al linguaggio del Fatto rappresentando però l’umore di un po’ tutte le opposizioni, toglie dal mazzo dei referendum da esse promossi per rendere amara la primavera del governo, la prova alla quale maggiormente tenevano le stesse opposizioni per la destabilizzazione, quanto meno, che avrebbe potuto provocare nella coalizione di centrodestra. Dove i leghisti di Matteo Salvini, Roberto Calderoli, Luca Zaia eccetera, senza distinzioni fra loro, avrebbero vissuto la pur improbabile abrogazione di quel che è rimasto della legge  sulle autonomie differenziate come motivo, o pretesto, per rimettere in discussione nella maggioranza i tempi concordati per altre riforme, comprese quelle del premierato e della giustizia.  

         Se a Washington la Meloni ha accolto la notizia della decisione della Corte Costituzionale con un sospiro di sollievo, la si può quindi comprendere benissimo. Era in ballo qualcosa di ben più della “bonaccia” concessale sulla Stampa da Alessandro De Angelis. Quel che rimane del mazzo o grappolo primaverile dei referendum promossi dalle opposizioni con le foto di rito del famoso “campo largo” davanti alla Cassazione, dove erano state depositate le firme di richiesta, non impensierisce di certo il governo, fra jobs act, gli anni occorrenti agli immigrati per chiedere la cittadinanza, lavoro a tempo determinato e responsabilità nei subappalti. Sul tentativo di abrogazione del jobs act, comprensivo della disciplina dei licenziamenti, il Pd è addirittura nei guai per averlo a suo tempo votato in Parlamento. Esso quindi si è spostato tanto a sinistra che persino Matteo Renzi, ancora orgoglioso di quella legge voluta da presidente del Consiglio, è costretto ad allentare metaforicamente l’abbraccio ad Elly Schlein che segnò la sua rinuncia al terzopolismo promesso agli elettori nel 2022.

L’enigma del centro… con vista sul Quirinale del dopo Mattarella

Da Libero

Spogliata di tutta la drammaticità del tempo in cui fu adottata da Churchill e della sua destinazione, che era addirittura la Russia di Stalin, o il comunismo più in generale, si potrebbe dire anche del Centro che è “un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma”. Esso non è stato certamente risolto dai due convegni svoltisi come in una saga fra Milano e Orvieto nella presunzione -spero- di farsi capire dal pubblico attraverso le cronache giornalistiche. Dalle quali però non mi pare che si sia riusciti a comprendere granché.

Questo è accaduto non per colpa dei giornalisti, per quanto avvezzi al linguaggio politico a volte competitivo con l’oracolismo, diciamo così, ma per la oggettiva astrusità dell’argomento e della stessa figura del Centro, sempre con la maiuscola, in un campo bipolare in cui si contendono la maggioranza del Parlamento e il governo del Paese un centrodestra e un centrosinistra.

Bisognerebbe allora parlare di due Centri. Ciascuno dei quali rivendica di essere l’unico valido, perché se fossero due o si eliderebbero a vicenda o dovrebbero avvertire quanto meno la tentazione attrattiva per scombinare il bipolarismo, se non si sentono abbastanza gratificati negli schieramenti di rispettiva collocazione. Ma curiosamente questa tentazione, almeno sinora non si avverte.

Ciascuno dei due Centri rivendica l’essenzialità nel campo proprio. Come Antonio Tiajni, per esempio, con la sua Forza Italia nel centrodestra sentendosi erede non solo di Silvio Berlusconi ma anche di Luigi Sturzo e di Bettino Craxi. Ma un democristiano di origine controllata come Gianfranco Rotondi si ritrova meglio tra i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. La cui consistenza elettorale è ormai ben superiore a quella della destra di una volta e simile piuttosto a quella della Dc.

Elly Schlein

Nel Centro dell’altro campo non sanno ancora spiegare bene, perché forse non lo sanno ancora bene neppure loro, se debbono continuare a stare nel Pd per condizionare di più la segretaria Elly Schlein, o addirittura “assaltarla”, come è stato indotto a pensare Roberto Gressi sul Corriere della Sera, o proporsi autonomamente per scalate e prospettive meno ravvicinate, pensando per esempio alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella fra quattro anni, come ha sospettato Mario Sechi. Perfidamente, avrà detto qualcuno degli interessati leggendolo ieri su Libero, ma non troppo perché obiettivamente e storicamente, fra prima Repubblica e edizioni successive, vere o presunte, le gare al Quirinale sono sempre cominciate con larghissimo anticipo.

Ricordo che quando perse quella col presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro per succedere al dimissionario Francesco Cossiga nel 1992, il presidente del Senato Giovanni Spadolini si consolò facendomi notare che dopo sette anni, alla scadenza del mandato del nuovo capo dello Stato, lui avrebbe avuto la “stessa età” del concorrente che lo aveva preceduto perché preferito, insieme, dai comunisti  interessati alla presidenza che si liberava a Montecitorio, e da Craxi imprudentemente fermo al ricordo di Scalfaro come suo ministro dell’Interno fra il 1983 e il 1987.

Sandro Pertini

Le ambizioni in politica sono tanto nascoste quanto prevedibili, forse troppo, per cui scattono nelle corse al Quirinale fattori misti di politica e psicologia. Persino il mio amico Sandro Pertini, all’età che aveva alla scadenza del suo mandato -89 anni nel 1985- pensava ad una rielezione. Ma si indignava se qualcuno ne scriveva, non capii mai bene se per il sottinteso scettico dei retroscena dedicatigli o per quel vezzo dei politici di apparire disinteressati quando invece sono interessatissimi. Lo furono, ai loro tempi, anche Amintore Fanfani e Aldo Moro, mancando entrambi il Colle più alto di Roma. L’unico forse a non avervi mai ambito davvero, anche quando i suoi amici lo spingevano sino a votare contro Arnaldo Forlani che era ancora segretario della Dc, oltre che candidato ufficiale al Quirinale, fu Giulio Andreotti. Che scherzava apprezzando l’”aurea mediocrità” che si attribuiva.

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