I guai della Santa…nchè fra i piedi e le mani della premier Meloni

         Il rinvio a giudizio per falso in bilancio della ministra del turismo Daniela Garnero, più nota col cognome dell’ex marito Santanchè, che anche lei preferisce al suo, è sicuramente un problema per la premier Giorgia Meloni. Che avrebbe preferito non vederselo arrivare tra i piedi, o tra le mani, con le opposizioni scatenate a chiedere le dimissioni della ministra e la maggioranza non del tutto convinta, diciamo così, dell’opportunità di lasciarla al suo posto in attesa del processo. Non del tutto convinta soprattutto nel primo partito della coalizione, che è anche quello della Santanchè, distintosi nelle cronache giornalistiche per il suo silenzio a dir poco imbarazzato.  

Dalla Stampa

         Alla Meloni, dalla quale la stessa Santanchè si è messa in attesa del giudizio per decidere se insistere o no nella difesa della sua postazione di governo, è stata attribuita dalla Stampa, ma anche in altre cronache o retroscena giornalistici, la tentazione, se on addirittura la “volontà” di chiedere alla collega e amica “il passo indietro”.

Dal Foglio

         “Santanchè isolata e mezza scaricata” ha titolato Il Foglio attribuendo alla premier la volontà o tentazione di ”prendere tempo”: non di più, come vorrebbero in senso negativo i nemici della ministra e in senso positivo gli amici, che non mancano anche in questo passaggio difficile, a dir poco, della sua esperienza politica e umana.

Dal Riformista

         Fra gli amici, o tendenzialmente tali, vanno probabilmente annoverati quelli del Riformista. Che hanno titolato in chiave critica contro i “manettari in Visibilia”, che è il nome della società voluta dalla Santanchè per dimostrare di quante meraviglie potesse essere capace ma trasformatasi poi in una via Crucis. “Parte subito l’assalto dei forcaioli contro Santanchè”, ha aggiunto il Riformista nel titolo di sostanziale comprensione, se non di incoraggiamento, per la ministra. Che non ha certamente cominciato l’anno nuovo nel migliore dei modi.  

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All’anagrafe della riforma, finalmente, della giustizia

Dal Dubbio

E’ giustamente risuonato nell’aula della Camera e dintorni, compresi i giornali, il nome di Silvio Berlusconi al primo dei quattro passaggi parlamentari della riforma della giustizia per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anti-correnti e tutto il resto.

         Il guardasigilli Carlo Nordio parlandone con i giornalisti ha, giustamente anche lui, aggiunto il ricordo di un suo illustre predecessore, Giuliano Vassalli, intestatario della riforma del processo, da inquisitorio ad accusatorio, propedeutica a quella delle carriere. Che invece l’associazione nazionale dei magistrati contesta come un assalto alla Costituzione. E si sente già mobilitata, tra manifestazioni, scioperi e quant’altro, per il prevedibile referendum conclusivo, non condizionato dall’affluenza alle urne essendo di natura confermativa e non abrogativa.

         Meno giustamente non è stato invece evocato Bettino Craxi, peraltro nel venticinquesimo anniversario della sua morte in corso di celebrazione fra interviste, convegni e libri. In uno dei quali lo storico e docente alla Luiss Andrea Spiri ha raccolto ottanta lettere ricevute o scritte dal leader socialista fra il 1989 e il 1999, sino a qualche settimana prima della morte.

         In una di queste lettere scritta il 22 luglio 1993 sotto l’emozione del suicidio in carcere dell’amico Gabriele Cagliari -uccisosi per la sensazione avuta di una lunga detenzione per non avere detto ai magistrati ciò che essi volevano sulla partecipazione dell’Eni alla pratica del finanziamento illegale della politica- Craxi denunciò al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro la trasformazione dello Stato di diritto in “Stato di polizia”. Dove, in barba anche al processo accusatorio finalmente adottato dopo la lunga sopravvivenza del processo inquisitorio regolato dal codice fascista di Rocco, era possibile sentir dire da uno stesso, “beffardo” magistrato che si occupava di Tangentopoli: “Non arrestiamo per far parlare. Scarceriamo se parlano”.

Bettino Grazi e Francesco Cossiga

         I frutti di questo modo di indagare, di preparare e infine di celebrare i processi, con un giudice quasi unico per tanti casi che peraltro indicava per iscritto al pubblico ministero a Milano come formulare la richiesta di arresto di qualcuno per vedersela accogliere; i frutti, dicevo, di questo modo di indagare, preparare e condurre i processi “dovrebbero far rabbrividire”, scrisse Craxi all’allora Capo dello Stato. Che non rabbrividì per niente. E neppure rispose al mittente. Il quale, avendo mandato copia della sua lettera ad alcuni amici, diciamo così autorevoli, fra i quali l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il futuro ministro della Giustizia Alfredo Biondi, ne raccolse privatamente condivisione e apprezzamento. Caustico, come sempre, Cossiga. Che, definendo “aperta” la lettera a Scalfaro per la diffusione avutane nei palazzi della politica, rispose: “A mio avviso ormai l’ordinamento è entrato in uno stato di fluidità e di delegittimazione che è vano pensare che senza un nuovo Parlamento ed un governo che sia il governo della Repubblica e non, come largamente è, di “La Repubblica” si possa porre mano alla restaurazione dello Stato costituzionale e di diritto”.

         Il governo in carica era allora quello di Carlo Azeglio Ciampi, subentrato il 28 aprile 1993 al primo di Giuliano Amato e seguito poi dal primo governo di Silvio Berlusconi,

         A pensarci meglio, dopo averne riferito la lettera scritta a Craxi il 28 luglio di quell’anno, anche il nome di Francesco Cossiga potrebbe rientrare nell’albo anagrafico, diciamo così, della riforma della giustizia all’esame del Parlamento. E così sgradita a “lor signori”, come avrebbe scritto dei magistrati ai suoi tempi sull’Unità il mitico Fortebraccio.

Pubblicato sul Dubbio

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