C’è dunque qualcuno che sta messo peggio di noi italiani in tema di giustizia e di rapporti fra magistratura e politica. Sono gli americani, che hanno appena visto condannare il presidente appena eletto Donald Trump da un giudice che però non ha potuto infliggergli alcuna pena, se non quella dello sputtanamento -scusatemi la franchezza- prodottogli dall’immagine del primo “pregiudicato” alla Casa Bianca, come ha titolato in Italia il quotidiano di Carlo De Benedetti che esce col titolo del giorno dopo, Domani. O semplicemente “condannato”, come si è trattenuta la Repubblica di carta a caratteri tuttavia di scatola, E tutto per una miserabile storia di sesso con una “pornostar”, di ricatto e di dollari pagati attingendoli da una cassaforte anziché da un’altra di Trump. Che ha reagito parlando di ”farsa spregevole” e annunciando comunque ricorso.
Dal Fatto Quotidiano
Una condanna penale senza pena è di per sé un ossimoro, una cosa francamente senza senso. Ma il problema di quel giudice americano era solo quello di sfregiare un presidente degli Stati Uniti alla vigilia del suo insediamento. E di procurarsi l’applauso del Travaglio americano di turno, col suo archivio di “pregiudicati” in carriera, diciamo così, da mettere alla gogna nelle occasioni utili alla lotta politica. Ma curiosamente il Travaglio vero, autentico, Marco, ha questa volta risparmiato al malcapitato di turno un trattamento da pregiudicato. Il suo Fatto Quotidiano con eccezionale sobrietà, a dir poco, ha dedicato all’impresa del giudice americano, e alla sua vittima, un modesto titolo di prima pagina che dice, testualmente: “Sentenza e immunità- Trump, condanna senza pena: soldi alla porno-amante”. Una sobrietà inglese, direi, a mezza strada fra l’America e l’Italia.
Tra gli effetti collaterali dell’operazione riuscita a Giorgia Meloni di riportare a casa in meno di un mese la giornalista italiana Cecilia Sala finita inconsapevolmente in Iran in un gigantesco e pericolosissimo intrigo internazionale, ci sono quelli ascrivibili al complesso tentativo di rianimare in Italia il Centro. Ma soprattutto di rianimarlo non nella posizione o nello spazio terzopolista tentato nelle ultime elezioni politiche da Carlo Calenda e Matteo Renzi, che hanno poi fatto a gara fra di loro per demolirlo, bensì a sinistra. Per costruire la terza gamba del centrosinistra auspicata già prima delle elezioni nel Pd dall’ostinato Goffredo Bettini: l’uomo che aveva promosso Giuseppe Conte come “il punto più avanzato dei progressisti italiani”, forse contribuendo a gonfiarne la bolla proprio mentre perdeva Palazzo Chigi , uscendone per fare posto a Mario Draghi.
I centristi, chiamiamoli così, di ispirazione e culturale cattolica e laica, interna ed esterna al Pd guidato da Elly Schlein, si sono dati appuntamento in due convegni programmati per il 18 gennaio a Milano e a Orvieto ben prima che scoppiasse la vicenda di Cecilia Sala. L’obiettivo degli uni e degli altri era -non so se ancora- quello di rianimare la leadership della Schlein in una coalizione realistica, e non solo immaginaria, di un’alternativa al centrodestra a conduzione meloniana.
Cecilia Sala libera in Italia
Ebbene, a liberazione di Cecilia Sala appena avvenuta con la regìa indiscussa della Meloni, fra missione lampo da Donald Trump e complicazioni createle più o meno consapevolmente da Elisabetta Belloni formalizzando le proprie dimissioni dal vertice dei servizi segreti a detenzione della Sala appena cominciata, di cui l’ambasciatrice non poteva non essere informata; a liberazione avvenuta, dicevo, il Centro della sinistra è quello uscito forse peggio dalla vicenda per difetto, quanto meno, di analisi e di prospettazione. E persino di collocazione internazionale.
Romano Prodi, pur con l’esperienza maturata due volte brevemente a Palazzo Chigi e a Bruxelles più a lungo guidando la Commissione Europea, ha contestato alla Meloni una presunta vocazione all’”obbedienza” a Trump, Musk e compagnia bella. Addirittura prestandosi nel salotto televisivo di Lilli Gruber, proprio nel giorno della liberazione di Cecilia Sala, e raccogliendo una palla passatagli da Massimo Giannini, coautore con lui di un libro ancora fresco di stampa, a tradurre in “cavallo di Troia” in Europa l’immagine della Meloni come di una “Trump card”.
Claudio Velardi sul Riformista
Claudio Velardi, che conosce bene la sinistra avendola a lungo frequentata in posizioni particolari di visione come quando era collaboratore di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, ha così rappresentato la sua crisi scrivendone sul Riformista proprio sul terreno della politica estera così decisivo per chi si propone come alternativa al governo in carica: “Né l’annunciato evento di una formazione centrista di impronta “cattolica” (qualunque cosa voglia dire nel ventunesimo secolo) potrà colmare il deficit strutturale dell’alleanza: la mancanza di un progetto unitario incarnato in una leadership indiscussa”. Poco importa, a questo punto, se individuata nella segretaria del Pd o in qualcun altro vestito da federatore. Come fu Prodi in tempi politicamente e storicamente lontanissimi e irripetibili, con la velocità che ha contrassegnato l’evoluzione dei partiti in Italia e dei rapporti fra di loro. O come immaginato da altri scommettendo su Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate di cui la Meloni ha parlato nella conferenza stampa d’inizio dell’anno mostrando di non temerlo come attore o protagonista politico dell’opposizione.
Sarà anche fortunata, per carità. Soprattutto di avere gli avversari che ha, tanto ossessionati da perdere la bussola e accusarla, per esempio, di avere ignorato i problemi della gente comune in una conferenza stampa nella quale la premier si è sentita chiedere, tanto erano presenti quei problemi ai giornalisti accorsi curiosi e numerosi all’appuntamento, le impressioni che prova quando le capita di calpestare le formiche camminando.
Sarà anche fortunata, dicevo, in un campo come la politica in cui la fortuna aiuta al pari dei generali in guerra. Ma francamente mi sembra davvero impossibile negare la bravura della premier, quella marcia in più che le permette, per esempio, di trovarsi in sintonia col pubblico ben più di quanto non esprimano i voti che raccoglie col suo partito.
L’altra sera a Piazza pulita, una trasmissione televisiva della 7 che non la ama, diciamo così, il conduttore Corrado Formigli è stato il primo forse a sorprendersi di uno dei risultati più significativi del sondaggio appena effettuato da Eumetra di Renato Mannheimer. Che dava praticamente ferma al 28,6 per cento delle intenzioni di voto la destra meloniana rispetto alla rilevazione precedente del 4 dicembre. Ma il gradimento di Elon Musk, mostrificato a sinistra anche per la sua personale amicizia con la Meloni, forse pari solo a quella col presidente americano Donald Trump ormai vicino all’insediamento, è salito nello stesso spazio di tempo dal 42,9 al 58,4 per cento, cioè di 15 punti. E lo sgradimento è sceso di più di 16 punti: dal 51,4 al 34,8. E ciò, pur essendo avvertito Musk come “pericoloso” ancora dal 44,6 per cento del pubblico sondato.
Giorgia Meloni ed Elon Musk
La ragione della differenza che sembra contraddittoria, paradossale e quant’altro fra quel 51,4 per cento di gradimento e quel 44,6 per cento pur sempre timoroso sta forse proprio nella fiducia che alla fine è prevalsa grazie a quella posta dalla Meloni su Musk. C’è gente insomma che se ne fida di riflesso perché ancor più si fida del giudizio della premier italiana.
Se questo accade per e con Musk, alla luce anche del credito appena guadagnatosi dalla premier con la gestione eccezionale di quel terribile intrigo internazionale che era apparso ed era il sequestro della giornalista italiana Cecilia Sala in un penitenziario iraniano fra i peggiori del mondo, è facile immaginare come possa influire la posizione della Meloni su problemi di natura strettamente interna, come le riforme in cantiere parlamentare del premierato e della giustizia. Su cui gufano gli avversari scommettendo sul loro naufragio nei referendum confermativi.
Se n’è parlato anche nella conferenza stampa, dove la premier si è mostrata sicura del fatto suo, convinta delle scelte compiute e fiduciosa della sintonia che ha saputo creare con l’elettorato. Che sarà paradossalmente lontano dall’alternativa ricercata al centrodestra, anche con la rianimazione bocca a bocca del fantomatico centro, di stampo cattolico o laico che sia, quanto più largo riuscirà ad essere il cosiddetto campo degli avversari della premier.
La Meloni ha forse sorpreso qualcuno con quella indecisione mostrata con i giornalisti parlando della possibilità, volontà ed altro di ricandidarsi a Palazzo Chigi nelle elezioni politiche alla scadenza ordinaria di questa legislatura, fra due anni. Quando, prima ancora di scadere la legislatura, lei avrà compiuto il 15 gennaio i 50 anni prescritti dalla Costituzione per essere eleggibile in Parlamento al Quirinale, quando scadrà dopo due anni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Che l’ha nominata il 22 ottobre scorso presidente del Consiglio, la prima donna a Palazzo Chigi, e potrebbe trovarsi nella condizione privilegiata di passare le consegne alla prima donna anche al Quirinale nella storia della Repubblica. Una prospettiva alla quale immagino con un certo divertimento la reazione dei suoi avversari, e professionisti dell’antifascismo nell’anno dell’ottantesimo anniversario della Liberazione. Calma, signori. Restate ai vostri posti. Ristudiatevi, piuttosto, la vostra parte.