La Belloni smonta il giallo delle sue dimissioni dal vertice dei servizi segreti

Dal Corriere della Sera

         L’ambasciatrice Elisabetta Belloni non ha voluto continuare ad assistere in silenzio, che rischiava di apparire complice, alla rappresentazione giallistica, a dir poco, delle dimissioni dalla direzione dei servizi segreti, in anticipo di circa sei mesi rispetto alla scadenza del mandato. E ha voluto parlarne con la vice direttrice del Corriere della Sera Florenza Sarzanini, non casualmente reduce -credo- da una intervista alla premier Giorgia Meloni.

Dal Corriere della Sera

         Per capire il senso del “colloquio” della Belloni con Sarzanini potrebbe bastare la sintesi pubblicata sulla prima pagina del Corriere sotto il titolo già virgolettato di suo: “Sono stata sulla graticola ma lascio senza sbattere porte”.  “Una cosa -ecco la sintesi- ci tengo a dirla ed è l’unico motivo che mi fa rompere il riserbo che mi sono imposta in tutti questi mesi. Non vado via sbattendo la porta”.

Dal Fatto Quotidiano

         Ma la Belloni non ha voluto neppure forzare la porta dell’ufficio che forse già l’attende a Bruxelles, almeno nella rappresentazione, per esempio, del Fatto Quotidiano di “vice ministra all’immigrazione” nella Commissione dell’Unione Europea presieduta da Ursula von der Leyen.

Dal Corriere della Sera

         “Sarebbe un onore- ha confessato la stessa Belloni parlandone con la vice direttrice del Corriere della Sera- ma anche su questo voglio essere chiara nel dire che non c’è nulla di deciso. Al mio futuro comincerò a pensare il 16 gennaio”, cioè il giorno dopo la concreta conclusione del lavoro ancora in corso al vertice dei servizi segreti. Ma non credo che sia azzardato pensare che attorno a questa nuova destinazione della Belloni stiano lavorando le persone e le istituzioni qualificate, essendo maturata la decisione delle sue dimissioni, anticipata alla presidente del Consiglio e al sottosegretario con delega ai servizi, già prima della vicenda dell’arresto della giornalista Cecilia Sala in Iran e della sua problematica liberazione. Vicenda dalla quale, secondo i retroscenisti, la Belloni sarebbe stata esclusa.

         Se vi è stato un elemento scatenante, diciamo così, del disagio della direttrice dei servizi segreti questo andrebbe individuato, sempre stando al suo colloquio con Florenza Sarzanini, nel momento in cui sono uscite dalle stanze del potere, non certo le sue, voci, indiscrezioni e quant’altro sulla sua successione.

Ieri in via Acca Larenzia, a Roma

         Le parole della Belloni alla vice direttrice del Corriere della Sera presumibilmente non basteranno a far cessare polemiche e quant’altro in un clima politico tossico come quello attuale. Nel quale alla presidente del Consiglio e, più in generale, al suo governo si sta attribuendo la responsabilità persino del cameratismo ripetutosi in via Acca Larenzia, a Roma, nel ricordo dei due giovani di destra uccisi nell’assalto del 1978 all’allora sezione tuscolana del Movimento Sociale. Un cameratismo -è stato detto, per esempio, ieri sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber- che senza la Meloni a Palazzo Chigi sarebbe stato meno numeroso ed eccitato.

Il ricordo di Aldo Moro ritorna sul percorso di Giorgia Meloni

Da Libero

Credo di non abusare dell’amicizia di Aldo Moro, specie considerando le drammatiche circostanze della sua morte nel 1978, se racconto di uno sfogo che raccolsi da lui dieci anni prima, quando era ancora a Palazzo Chigi, alla guida del suo terzo governo di centro-sinistra, col trattino, e già avvertiva la smania dei colleghi di partito, e di corrente, di disfarsene. Lo accusavano neppure tanto dietro le quinte, con Flaminio Piccoli fra i più insofferenti fra i dorotei, come si chiamavano gli esponenti di quel gruppo dello scudo crociato, di avere troppo pazientato con i socialisti. Anzi, di averli troppo favoriti propiziando l’elezione del socialdemocratico Giuseppe Saragat al Quirinale alla fine del 1964, in sostituzione dell’ormai impedito Antonio Segni, e poi l’unificazione con i socialisti di Pietro Nenni, vice presidente del Consiglio.

L’unificazione socialista nelle elezioni politiche del 1968 diede modestissimi frutti ma pima aveva creato una certa apprensione fra i dorotei. Che però quando si trattò di rinnovare nella nuova legislatura l’alleanza con i socialisti pur frustrati dal risultato elettorale furono con loro ancora più pazienti o generosi di Moro. Essi offrirono col segretario uscente della Dc Mariano Rumor, dopo un governo balneare di Giovanni Leone, una edizione “più incisiva e coraggiosa” -testuale- del centro-sinistra, cominciando col togliergli il trattino, sino a rinunciare alla “delimitazione della maggioranza” praticata sino ad allora per marcare le distanze dai comunisti a sinistra e dai liberali a destra. Doveva aprirsi una stagione di “apertura al contributo” dei comunisti, pur dall’opposizione. Una stagione che Moro, scavalcando i dorotei dalla posizione di minoranza in cui costoro l’avevano spinto nel partito, tradusse nella sua famosa “strategia dell’attenzione”. Ne nacque una rincorsa a sinistra destinata a sfasciare la maggioranza.

Moro, per tornare allo sfogo che raccolsi prima che la situazione precipitasse nei modi che ho sintetizzato, mi disse con una visione pessimistica di tutta la politica, e non solo del suo partito, di cui poi avrebbe ripreso il controllo pur dalla postazione defilata, statutariamente, di presidente del Consiglio Nazionale: “In politica”, appunto, “ti perdonano l’errore, non il successo”.

Giorgia Meloni, che ha saputo e voluto rifarsi anche a Moro di recente per spiegare la sua visione dell’Europa, a costo di spiazzare e scandalizzare la sinistra all’opposizione, ne sta sperimentando forse l’amarezza assistendo al bailamme inscenato attorno alla sua fulminante missione da Donald Trump, nella residenza privata del presidente che sta per tornare alla Casa Bianca.

Mattarella e Meloni nel 2022 al giuramento del governo

Diversamente da Moro, tuttavia, la premier guida una coalizione, ma soprattutto un partito, il maggiore di tale coalizione, più unito. Lei ha i suoi dorotei non in casa, nella maggioranza, ma tutti all’opposizione, nelle dimensioni più varie del cosiddetto “campo” dell’alternativa: “largo” sino a Matteo Renzi o ristretto come lo vorrebbe Giuseppe Conte. Che è preso come in una tenaglia da due paure: quella nei riguardi della segretaria di un Pd che per le sue dimensioni sta agli altri come un albero ai cespugli, e quella nei riguardi di Beppe Grillo. Di cui ora l’ex premier teme il silenzio sopraggiunto ai funerali improvvisati, pur senza bara e fiori, del MoVimento 5 Stelle, sapendo che nel prossimo, prevedibile scontro egli rischia di uscire male persino come avvocato, perché il terreno della battaglia sarà anche o soprattutto giudiziario.

In questa situazione, essendo queste le forze in campo e le loro condizioni, per quanto aiuto possano avere i suoi avversari da un’informazione che inventa più di raccontare, che aizza più di registrare, che partecipa più di osservare, che si avvolge più nei fantasmi che nella carta o nei tubi elettronici , la Meloni ha molti meno problemi di quanti non le attribuiscano gli avversari. E ancor meno ne avrà dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e le sorprese -credo- che ne deriveranno.

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