In attesa della conferenza stampa tradizionale del presidente del Consiglio nel passaggio da un anno all’altro, annunciata per il 9 gennaio, Giorgia Meloni ha concesso una lunga intervista al supplemento 7 del Corriere della Sera della quale è particolarmente rilevante il passaggio riguardante la posizione italiana sulla guerra in Ucraina in relazione a quella del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Giorgia Meloni al Corriere della Sera
Le premier ha voluto smentire la rappresentazione di una possibile divaricazione con la Casa Bianca sulle prospettive del conflitto in corso da quasi tre anni in Ucraina dicendo: “Ho letto le ultime dichiarazioni del presidente eletto degli Stati Uniti Trump. Cito testualmente:: “Putin dovrebbe pensare che è arrivato il momento (per fare la pace) perché ha perso. Quando perdi 700 mila persone, è il momento”. “Voglio arrivare ad un accordo e il solo modo di arrivarci è quello di non abbandonare (l’Ucraina)”.
“Sono parole – ha proseguito la premier italiana- totalmente sovrapponibili a quelle che ho ripetuto, a nome dell’Italia, in molte occasioni. Abbiano sempre detto che l’unico modo per giungere ad una pace è costringere la Russia in una situazione di stallo, perché non c’è alcuna possibilità di pace se non l’equilibrio delle forze in campo, e se la Russia ha campo libero nell’invasione dell’Ucraina. Questo è quello che sostiene l’Italia e che dicono anche gli Stati Uniti”.
Prudenze, silenzi, reticenze e quant’altro anche dei giornali, e non solo delle cosiddette autorità, non sono dunque bastati -com’era del resto facile aspettarsi- ad evitare le complicazioni di ogni tipo della vicenda di Cecilia Sala. Che è la giornalista italiana sequestrata dal regime di Teheran per cercare di scambiarla con un iraniano arrestato in Italia su richiesta degli americani che ne vogliono l’estradizione negli Stati Uniti per terrorismo. E’ un ingegnere -Adenini, chiamiamolo così accorciando il suo lungo e complicato nome e cognome- che naturalmente contesta la qualifica di terrorista e vuole essere considerato solo “un accademico”, cioè un professore. Ma un professore, un super esperto di droni, delle loro confezioni, delle loro attrezzature, del loro commercio, del loro uso nelle varie guerre nelle quali è coinvolto il suo paese. La copertura che gli fornisce il regime iraniano dovrebbe quindi intendersi di carattere culturale, spettante appunto ad un “accademico”.
Questo professore di droni ha già ottenuto in Italia qualche trattamento di riguardo per soddisfare il regime iraniano. In particolare, egli è stato trasferito da una iniziale destinazione carceraria di sicurezza in Calabria a quella di Opera, in Lombardia, Dove le rappresentanze diplomatiche iraniane gli hanno già trovato un alloggio in cui aspettare l’espletamento delle procedure per una estradizione che esse naturalmente si aspettano alla fine negata dal governo nella persona del ministro della Giustizia. Che ha ancora l’ultima parola in una materia in cui ormai la magistratura può vedere contraddette le sue valutazioni da un’autorità politica.
la madre di Cecilia Sala all’uscita da Palazzo Chigi
Se le pur perduranti condizioni di detenuto di Andini sono migliorate, quanto meno, anche ai fini della sua assistenza legale, quelle di Cecilia Sala in Iran sono rimaste, a dir poco, preoccupanti. Tanto che le autorità politiche che seguono la vicenda non possono più contenere una situazione efficacemente descritta dalla madre di Cecilia uscendo da Palazzo Chigi dopo un incontro con la premier Giorgia Meloni, fra un vertice e l’altro operativo sulla vicenda. La signora ha reclamato la precedenza che spetta alle persone rispetto ai cotechini, ai vini e altri prodotti tipici italiani di cui proteggiamo il commercio. Un monito appropriato, per quanto educatamente accompagnato col riconoscimento e l’apprezzamento del lavoro a Palazzo Chigi.
Dal Foglio
Purtroppo alla complicazione della situazione in cui si trova Cecilia Sala si è aggiunta quella del clima politico per una protesta levatasi, nella sua penultima sortita, da Matteo Renzi per non essere stato sufficientemente coinvolto nella consultazione delle opposizioni da parte del governo. Lui vuole un “tavolo” ben visibile in cui risulti anche la presenza e quant’altro del suo partito. “Parla Renzi”, ha titolato Il Foglio registrandone proteste, richieste, critiche e via opponendosi. Egli parla forse un po’ troppo, come troppo è stato taciuto da troppi all’inizio di questa vicenda.
Per quanta tempestività e scaltrezza politica ci abbia messo la premier Giorgia Meloni per apprezzare pubblicamente il messaggio televisivo di Capodanno del presidente della Repubblica, nonostante il “dispiacere” attribuitole da Monica Guerzoni sul Corriere della Sera per “le ombre su sanità e detenuti”, l’intervento di Sergio Mattarella non ha potuto sottrarsi al gioco degli specchi. Che, già numerosi di loro al Quirinale sulle pareti alle quali sono appesi, si moltiplicano nelle interpretazioni mediatiche e politiche delle parole, dei gesti e, a volte, persino dei silenzi del Capo dello Stato. E Mattarella è moroteo, di famiglia, anche in questo, cioè nella gestione dei silenzi quando decide di ricorrervi. O dei tempi, come quelli che, per esempio, dilata al massimo quando si tratta di controfirmare e promulgare provvedimenti che non lo convincono. La firma allora arriva davvero in extremis.
Dal manifesto
Chi ha graffiato maggiormente con i titoli questa volta è stata probabilmente l’Unità del mio amico, ed ex direttore del Dubbio, Piero Sansonetti proponendo il messaggio di Mattarella come “sfida al governo”. Di fronte alla quale impallidisce “lo sprono” visto e proposto dal manifesto. Ma non ha scherzato neppure Domani, il giornale dell’irriducibile editore Carlo De Benedetti, indicando nel messaggio di Mattarella “il controcanto a Meloni”. Che pure assai prudentemente non solo ha apprezzato le parole di Mattarella ma ha anche rinviato al 9 gennaio, credo, la tradizionale conferenza stampa di fine anno, o inizio del nuovo, del presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile neutro.
Giorgio Napolitano
Mattarella, per come lo conosco, e credo di averlo capito in tanti anni di militanza politica, la sua, e di professione giornalistica, la mia, avrà fatto spallucce incurvandole ulteriormente. E magari si sarà pure divertito a immaginare le reazioni ai quattro messaggi augurali di San Silvestro che mancano all’epilogo del suo secondo mandato al Quirinale. Saranno alla fine quattordici: la durata più di un regno che di una Presidenza della Repubblica. Un regno peraltro neppure cercato, perché tutti ricordano le resistenze opposte da Mattarella alla rielezione: opposte sinceramente, non per finta o calcolo, come qualcuno pure riuscì a scrivere o insinuare quando maturò la sua conferma dopo inutili tentativi dei partiti di trovargli un successore. Come, del resto, si era già verificato due anni prima alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano, chiamato “Re Giorgio” per il suo dichiarato e orgoglioso interventismo nell’esercizio delle sue funzioni. Ho visto scrivere in questi giorni o ore anche di “Re Sergio”, ma non mi suona francamente bene come “Re Giorgio”.
Il guaio di questo che sarei tentato di chiamare il tradizionale, ormai, gioco degli specchi attorno al Capo dello Stato, e ai suoi interventi, è che qualcosa alla fine resta, nell’immaginario politico., delle rappresentazioni finalizzate al perseguimento degli obiettivi di chi si spinge troppo oltre nelle interpretazioni. E nello stesso racconto. E ciò a detrimento, a mio avviso, della Politica, con la maiuscola. E della dialettica che l’accompagna e la caratterizza e si traduce prevalentemente in lotta. Nella quale invece dovrebbe essere interesse di tutti di non coinvolgere una figura di garanzia come quella del Capo dello Stato.
Altro che “gli 80 anni dalla Liberazione” che il Capo dello Stato verso la conclusione del suo messaggio televisivo di San Silvestro ha “evocato contro ogni amnesia definendola fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione”, come ha sottolineato il quirinalista principe Marzio Breda sul Corriere della Sera. Per Antonio Scurati, e la Repubblica, quella di carta, che li ha sparati sulla prima pagina del primo numero di questo 2025, debbono contare i 100 anni che trascorrono proprio oggi dal discorso alla Camera nel quale Benito Mussolini ai assunse tutta la responsabilità del delitto di Giacomo Matteotti e segnò “la nascita del fascismo”. Che tuttavia, sempre su Repubblica ma del 22 ottobre 2024, era già nato due anni prima con la marcia su Roma e la chiamata di Mussolini al Quirinale per la formazione del governo.
Scurati non lo ha scritto ma i lettori ai quali egli ha voluto rivolgersi lo hanno capito o avvertito lo stesso. Quell’aula in cui Mussolini fece nascere o rinascere il fascismo esiste ancora. E vi prende ogni tanto la parola dallo stesso banco la premier Giorgia Meloni, con la sua vivacità oratoria e i numeri forti della fiducia che si fa confermare ogni volta che decide di chiederla, fortunatamente senza doversi assumere la responsabilità di qualche delitto. Ma vantandosi dei successi che il suo governo consegue e della miserabile fine di tutte le disgrazie pronosticate dalle opposizioni al suo arrivo a Palazzo Chigi.
Leonardo Sciascia
Questa del fascismo per niente finito, anche nella coda più velenosa della guerra civile, con la Liberazione evocata da Mattarella ai dieci milioni di telespettatori che l’hanno visto e sentito la sera del 31 dicembre scorso, non è solo un’ossessione di chi lo vuole fare sopravvivere e lo intravvede ovunque. E’ qualcosa di più. E’ una professione, come quella dell’antimafia a suo tempo brillantemente denunciata e descritta da Leonardo Sciascia, che si rimediò per questo del mafioso, o quasi. Come oggi si rimedia del fascista chiunque dubiti -cominciano a vedersene e sentirsene anche fra le opposizioni- del fascismo evocato come attuale sul piano culturale e politico.
Carlo Donat-Cattin
Fascista è stato sino alla caduta, diciamo così, spontanea del Muro di Berlino anche chi semplicemente era anticomunista. Come il mio compianto amico Carlo Donat-Cattin, la cui storia e formazione di sinistra venne soppressa nella rappresentazione politica e mediatica quando si mise di traverso sulla strada dell’”ineluttabile” accordo di governo -diceva Ugo La Malfa, propiziandolo- fra democristiani e comunisti. Lui, Carlo, fingeva di riderne spavaldamente, ma vi assicuro che ne soffriva nell’intimo quasi quanto della terribile avventura terroristica del figlio Marco.
Aldo Moro
Se non avesse fatto in tempo a morire per mano dei brigatisti rossi, sarebbe finito a destra anche un altro mio amico, Aldo Moro. Vi sarebbe finito se nel 1979 e anni successivi avesse preso atto del ritiro dei comunisti dalla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale e avesse concorso con Bettino Craxi -e gli stivaloni infilati ai suoi piedi nelle vignette di Repubblica– alla ripresa del centrosinistra, per giunta allargato ai liberali nella formula pentapartitica gestita dallo stesso Craxi e poi da Giulio Andreotti. Non parliamo poi del presunto fascismo di quest’ultimo, che nei primi anni Settanta guardava con indulgenza gli elettori democristiani “in libera uscita” -diceva- verso il Movimento Sociale di Giorgio Almirante: fiducioso, anzi certo, di poterseli riportare a casa.
Per fortuna tutti costoro sono morti, ripeto, e sepolti. E persino sempre più spesso rimpianti. Sennò sarebbero finiti., nei e coi tempi di uno Scurati forse inconsapevole, in quel pentolone attorno al quale danzano come forsennati gli antifascisti di professione, che cercano di riprendersi così del trauma di una destra al governo cento anni dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio alla Camera. Non poveretti, ma poveracci, come dicono a Roma.