Meloni disobbedisce al suo avvocato e alza il tiro contro la magistratura

Da Repubblica

         Se fosse vero il consiglio alla prudenza, moderazione e quant’altro attribuito da qualche indiscrezione giornalistica a Giulia Bongiorno nel momento di ricevere il mandato difensivo da Giorgia Meloni nell’affare del generale libico rimpatriato di cui è stato investito il tribunale dei ministri, la premier ha…disobbedito. Non solo alla Bongiorno intesa come avvocato suo, dei ministri Piantedosi e Nordio e del sottosegretario Mantovano, interessati pure loro all’iniziativa giudiziaria alla quale la Procura della Repubblica di Roma si è considerata obbligata dall’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, ma anche come presidente della Commissione Giustizia del Senato. Una sovrapposizione di ruoli che le fu contestata dalle solite opposizioni anche quando Bongiorno assunse la difesa del collega e leader di partito Matteo Salvini nel processo per sequestro di persona, Conclusosi notoriamente a favore del suo assistito.

Dal Mattino

         La Meloni non solo è tornata a protestare contro la magistratura da lei avvertita come invasiva e un po’ anche disfattista, nuocendo “alla Nazione” le indagini a carico suo e dei colleghi di governo, ma ha “alzato il tiro” o ha proceduto all’”affondo”, come hanno titolato, rispettivamente, Repubblica e il Corriere della Sera.  

Dal Corriere della Sera

         La premier ha accusato i magistrati -non tutti ma quelli sufficienti a incidere- di volere “governare” a loro modo il Paese rubandole mestiere e ruolo, ma senza risponderne a nessuno. Mentre lei risponde agli elettori. Oltre che al Parlamento che le accorda la fiducia e potrebbe revocargliela, come è accaduto a qualche suo predecessore come Romano Prodi. Che se la vide negare in entrambe le esperienze non lunghe avute di presidente del Consiglio, a distanza di dieci anni l’una dall’altra.

         Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura, che peraltro ha appena compiuto il decimo anno del suo doppio mandato quirinalizio, alla cui scadenza ne mancano ancora quattro, è stato immaginato da qualche retroscenista in imbarazzo, se non contrariato dalla piega che sta prendendo l’ennesima battaglia della guerra più che trentennale fra la politica e la giustizia, o fra la magistratura e il governo.

Dal Messaggero

         Ma, retroscena per retroscena, ce n’è anche uno, con particolare evidenza sulla prima pagina del Messaggero, secondo cui la premier si sarebbe personalmente recata al Quirinale per informare il Capo dello Stato, prima di prendere di contropiede la Procura della Repubblica di Roma svelando e criticando l’avviso di garanzia ricevuto. Che l’associazione nazionale dei magistrati ha subito ridimensionato in “comunicazione giudiziaria”, con una distinzione che ha contribuito ad alimentare altre polemiche, anziché a ridurle.

         La tempesta, che le opposizioni non vedono l’ora di scatenare a loro modo anche nelle aule parlamentari, protestando perché ciò non sia ancora avvenuto, continuerà a livello mediatico e politico malgrado anche il fastidio, ripeto, attribuito a torto o a ragione a Mattarella.

La causa più facile capitata a Giulia Bongiorno

Marco Travaglio ieri a Otto e mezzo

         A sentire l’insospettabile Marco Travaglio ieri sera nel solito collegamento con l’altrettanto solita Lilli Gruber a Otto e mezzo, l’avvocato Giulia Bongiorno ha ricevuto l’incarico più facile della sua attività forense: la difesa della premier Giorgia Meloni, dei ministri dell’Interno Matteo Piantedosi e della Giustizia Carlo Nordio e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano, in un procedimento dall’esito scontato a favore dei suoi assistiti. Destinato a concludersi o con l’archiviazione delle accuse dell’avvocato Luigi Li Gotti di favoreggiamento, peculato eccetera per il rimpatrio del generale Almasri in Libia, o col naufragio del processo in Parlamento- Dove la maggioranza di governo è troppo ampia e compatta per lasciare alle opposizioni la speranza di  un’autorizzazione.

Dal giornale Domani

         Persino Travaglio, ripeto, una specie di superprocuratore onorario della Repubblica ha riconosciuto la fondatezza di un’archiviazione, ancor prima della impraticabilità politica, in questa legislatura, di un processo per reati ministeriali. Ma allora -ha fatto finta di chiedersi, incredulo e spalleggiato dalla conduttrice mai neutrale della trasmissione de la 7- perché mai la premier Meloni ha così rumorosamente protestato contro l’avviso di garanzia, o come altro si voglia o si debba chiamare, ricevuto da capo della Procura della Repubblica di Roma  Francesco Lo Voi, comprensivo degli “ossequi” del firmatario? E perché mai -potrei aggiungere io al posto di qualche ipercritico della presidente del Consiglio- scomodare un avvocato prevedibilmente così costoso, bastandone e avazandone uno più a buon mercato? E sottrarre peraltro alla Bongiorno tanto di quel tempo che richiede il suo lavoro di parlamentare leghista e di presidente della Commissione Giustizia del Senato? Peraltro dopo tutto il tempo speso per vincere una causa difficilissima e incerta come quella al vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per avere ostacolato nel 2019 da ministro dell’Interno lo sbarco in Sicilia di circa 150 immigrati clandestini soccorsi dalla nave spagnola Open Arms?

Dal Riformista

         Perché ?, ripeto, spingendomi a condividere quel “casino”, se non ho sentito male, sfuggito anche alla solitamente pudica conduttrice di Otto e mezzo parlando della reazione della Meloni alla ricezione della lettera giudiziaria, esibita nel video registrato nel suo ufficio o dintorni di Palazzo Chigi. Semplicemente perché -penso dopo avere scritto di politica per una vita- la premier ha una concezione trasparente dei suoi rapporti con i cittadini. Dei quali cerca il sostegno e ai quali non a caso ha offerto l’elezione diretta del presidente del Consiglio con una riforma costituzionale sostenuta in passato anche da alcuni dei suoi attuali avversari. Che hanno cambiato idea e posizione solo quando hanno capito o scoperto che a beneficiarne potrebbe essere lei, appunto.

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Da Andreotti a Craxi, da Berlusconi a Meloni…

Dal Dubbio

Per lunghezza e quantità Giulio Andreotti scherzò per un certo tempo sui suoi rapporti con la magistratura, allora filtrati dalla commissione parlamentare inquirente e altri congegni scomparsi, evocando le guerre puniche. Se fosse vivo, le estenderebbe con la sua ironia tagliente alla giovane Giorgia Meloni, succedutagli dopo tanti anni a Palazzo Chigi, per la vicenda giudiziaria che lei stessa ha rivelato. E che di punico ha anche un riferimento geografico, visto che il percorso del generale libico Asmari contestato alla premier e ad altri esponenti del suo governo porta sulle coste africane. Dove Asmari è tornato scampando ad un ordine di arresto internazionale in Italia e, in coincidenza o contropartita, si sono ridotte le partenze improvvisamente aumentate di immigrati clandestini destinati alle nostre coste.

         Chissà se non si finirà per ridere o sorridere anche di questa avventura giudiziaria della Meloni, come Andreotti faceva delle sue prima di incorrere in quella che alla fine però gli costò un processo di mafia con epilogo misto di assoluzione e prescrizione e uno addirittura per il delitto del giornalista Mino Pecorelli, conclusosi con assoluzione piena. Ma a carriera politica di Andreotti ormai chiusa, per quanto egli fosse rimasto senatore a vita sino appunto alla morte grazie alla nomina conferitagli in precedenza dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

         Più che alle vicende di Andreotti tuttavia quella della Meloni è stata generalmente ricondotta all’avviso a comparire mandato nel 1994 al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dalla Procura della Repubblica di Milano sull’onda emotiva e politica che aveva già scosso e fatto crollare la cosiddetta prima Repubblica. Avviso peraltro notificato al capo del governo a mezzo stampa, prima che un ufficiale dei Carabinieri glielo potesse materialmente consegnare.

Da Berlusconi a Meloni, si è scritto e titolato in una linea di continuità del centrodestra. Non va però dimenticato il clamoroso divieto imposto nel 1985 dal Quirinale del già citato Cossiga al Consiglio Superiore della Magistratura che voleva processare a suo modo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Che non si dava pace delle modeste sorti giudiziarie, chiamiamole così, degli assassini di Walter Tobagi, l’inviato del Corriere della Sera colpevole anche, per chi lo volle morto, di godere della stima e dell’amicizia del leader socialista.

Pubblicato sul Dubbio

Il contropiede della Meloni nella corsa al tribunale dei ministri per l’affare Almasri

Dalla Stampa

         Sul putiferio provocato dalla notizia, diffusa dalla stessa premier Giorgia Meloni, dell’iniziativa giudiziaria su di lei, sui ministri dell’Interno e della Giustizia e sul sottosegretario alla Presidenza del Consiglio delegato ad occuparsi dei servizi segreti, si ha solo l’imbarazzo della scelta fra chi ha compiuto per primo o di più falli di reazione, chiamiamoli così cercando di essere equanimi. Che è cosa francamente difficile nell’ossimoro di questa calda stagione politica d’inverno.

Dal Foglio

         Ha sbagliato di più la premier a esibire in un video quello che ha definito un “avviso di garanzia”, con tanto di reati ipotizzati a carico suo e dei colleghi di governo per il rimpatrio in Libia del generale Almasri,del quale la Corte penale internazionale dell’Aja aveva chiesto e per qualche ora anche ottenuto la carcerazione in Italia dopo averlo lasciato viaggiare liberamente fra Gran Bretagna e Germania? Un generale accusato di gravissimi reati nel trattamento degli immigrati in Libia, dei quali sono aumentate le partenze per l’Italia dopo il suo arresto, in una coincidenza a dir poco significativa. 

L’avvocato Luigi Li Gotti

         O hanno sbagliato l’associazione nazionale dei magistrati e tutti quelli che le sono andati appresso contestando alla Meloni la natura dell’atto ricevuto dalla Procura della Repubblica di Roma? Che sarebbe non un avviso di garanzia ma una semplice e “dovuta” comunicazione di inoltro al competente tribunale dei ministri, composto per sorteggio, di un esposto delll’avvocato Luigi Li Gotti. Che ciascuno colloca politicamente dove vuole riferendosi alle varie tappe del suo impegno politico: a destra e a sinistra, essendo lui passato per il Movimento Sociale, Alleanza Nazionale e Italia deivalori di Antonio Di Pietro, guadagnandosi in quest’ultima collocazione un sottosegretariato nel secondo governo di Romano Prodi.

Dal manifesto

         Esiste sul piano logico, mediatico, percettivo una differenza fra indagini in corso, impedite per legge alla ordinaria Procura della Repubblica di Roma in materia di reati ministeriali, o indagini imminenti, dati i tempi ristretti lasciati al tribunale dei ministri per valutare la situazione? Dubito che esista, per quanto importante, persino vitale, sembri apparire all’associazione nazionale dei magistrati in un momento in cui essa è impegnata in un duro scontro con il governo sulla riforma della giustizia all’esame del Parlamento. Uno scontro che non è arrivato all’improvviso, ma rientra in un conflitto fra giustizia e politica in corso da una trentina d’anni se vogliamo risalire alle inchieste giudiziarie note col nome di “Mani pulite”. O da una quarantina se vogliamo risalire al 1985, quando l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga impedì al Consiglio Superiore della Magistratura, da lui stesso presieduto, di processare a suo modo il capo del governo Bettino Craxi. Che aveva criticato come riduttivo il trattamento giudiziario riservato ai terroristi assassini del giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera.

Il De Bello… Italico tra la magistratura e la politica

Da Libero

Altro che la trentina d’anni cui viene spontaneo pensare lì per lì per ricostruire questa specie di guerra fra giustizia e politica, anzi fra giustizia e governo in cui viene spontaneo iscrivere, per clima e circostanze, gli avvisi di garanzia ricevuti dalla premier Giorgia Meloni, dai ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano.  Che sono divisi ora fra le incombenze parlamentari e quelle giudiziarie per l’affare del generale libico Almasri. Il quale ha potuto viaggiare libero per un po’ di giorni in Europa prima di essere raggiunto in Italia da un ordine di arresto internazionale, eseguito il quale sono partiti appunto dalla Libia altri barconi di immigrati clandestini destinati in direzione del nostro Paese. Sino a quando il generale da persona pericolosa quale è stata considerata anche dal nostro governo non è stato rispedito a casa sua.

Francesco Saverio Borrelli, che da procuratore della Repubblica a Milano bloccò il primo governo Amato

         La guerra dei 30 anni, dicevo. O dei 32, pensando a quando la Procura della Repubblica di Milano contestò pubblicamente due decreti legge emessi dal primo governo di Giuliano Amato per una cosiddetta uscita politica da Tangentopoli, e dalle conseguenti indagini giudiziarie “Mani pulite”. Una protesta che fermò al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro la mano per la firma, pur dopo che i decreti erano stati approvati dal Consiglio dei Ministri fra interruzioni della seduta necessarie alle consultazioni fra gli uffici di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale.

         Un analogo intervento della Procura ambrosiana avrebbe colpito l’anno dopo un decreto legge, quella volta del governo di Silvio Berlusconi, che pure era già stato controfirmato dal capo dello Stato, per limitare il ricorso alle manette prima del processo, nella fase delle indagini preliminari. Quando gli stessi magistrati si difendevano dall’accusa di abusare degli arresti dicendo che non arrestavano gli indagati per farli parlare, ma li liberavano quando parlavano. Se lamentò Bettino Craxi in una lettera quasi aperta al presidente della Repubblica Scalfaro, sempre lui, che rimase senza risposta. Ed è stata pubblicata solo di recente, fra ottanta selezionate nel suo archivio nel venticinquesimo anniversario della morte.

Francesco Cossiga e Bettino Craxi

         Ma già prima di questi episodi non idilliaci, diciamo così, nei rapporti fra magistratura e governo, si era verificato nel 1985 il clamoroso intervento dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga sul Consiglio Superiore della Magistratura, da lui stesso presieduto, per la pretesa di censurare il presidente del Consiglio Craxi. Che aveva espresso valutazioni critiche sulle agevolazioni giudiziarie concesse ad aspiranti terroristi che si erano guadagnati l’arruolamento uccidendo come un cane sotto casa a Milano il giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera.

         Cossiga sconfessò il vice presidente del Consiglio Superiore, il collega di partito Giovanni Galloni, che si era prestato alla confezione di un ordine del giorno così invasivo, gli ritirò la delega per l’occasione e mobilitò una brigata di Carabinieri per fare rispettare la sua diffida. Il presidente del Consiglio -ricordò il capo dello Stato- risponde delle sue opinioni al Parlamento che gli ha concesso la fiducia, non all’organo di autogoverno della magistratura. E finì lì, tra le proteste naturalmente di toghe che poi avrebbero avuto occasioni per rifarsi contro Craxi. Così come fecero le opposizioni in Parlamento tentando l’impeachment di Cossiga per le sue esternazioni, cioè per le sue opinioni.

         Nel contesto di una storia così lunga, che non ho voluto estendere ulteriormente risalendo nei particolari al pericolo  di una “Repubblica giudiziaria” avvertito già agli inizi degli anni Settanta del Novecento dall’allora sottosegretario repubblicano al Ministero dell’Industria e Commercio, Oscar Mammì; nel contesto, dicevo, di una storia così lunga le notizie appena arrivate da Palazzo Chigi e dintorni sono solo le ultime in ordine di tempo. Cioè, le penultime.

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Daniela Santanchè in trincea, anzi all’attacco anche dei “fratelli” in…sofferenti

Dal Corriere della Sera

         Daniela Santanchè, la ministra del Turismo rinviata a giudizio per falso in bilancio e a rischio anche di un processo per truffa all’Inps, ma naturalmente innocente sino a eventuale condanna definitiva, si era in fondo proposta di sorprendere chiamando Visibilia la più nota delle sue società o attività. E ha mantenuto la promessa anche gestendo il passaggio politico delle polemiche su di lei: interne anche al suo partito, oltre a quelle provenienti dalle opposizioni con richieste di dimissioni e presentazione delle solite mozioni parlamentari  di sfiducia personale.

Dal Secolo XIX

         Stanca evidentemente di aspettare che la sua amica, collega di partito e premier Giorgia Meloni si chiarisca le idee -come ha pubblicamente dichiarato- sulla posizione della ministra, più in particolare sui riflessi che le vicende giudiziarie potrebbero avere sulla sua attività di governo, la Santanchè ha rotto gli indugi. E, riuscendo a guadagnarsi un po’ di spazio anche nelle prime pagine dei giornali dove si parla di memoria dell’Olocausto, deportazioni di immigrati in catene dagli Stati Uniti, fughe o tentativi di ritorno a Gaza eccetera, ha annunciato con linguaggio un po’ fascistico – bisogna ammetterlo- che “se ne frega” dei dubbi della Meloni e del malumore avvertito anche da lei fra i suoi “fratelli d’Italia”.

Da Repubblica

In particolare, la Santa…nchè ha  avvertito che a decidere del suo destino di ministro sarà lei, e solo lei, sicura -ha detto a Repubblica- di potere contare sulla solidarietà, condivisione, aiuto e quant’altro del presidente del Senato Ignazio La Russa. Oltre che di quella specie di certificazione che perfidamente il solito Fatto Quotidiano nella “cattiveria” di giornata ha attribuito a Paolo Berlusconi con queste parole: “Mio fratello Silvio sarebbe orgoglioso della Santanchè”.

Dal Fatto Quotidiano

In effetti la signora è sostenuta apertamente in questi giorni dal segretario forzista, vice presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, ex presidente del Parlamento europeo e quant’altro Antonio Tajani. Nonché dall’altro vice presidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture, ex ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini.

Meloni e Santanchè d’archivio

         L’artiglieria, diciamo così, c’è tutta. Ed ha comprensibilmente inorgoglito la ministra. O il ministro, se l’interessata -come la Meloni per le sue cariche istituzionali- preferisce il genere maschile scambiandolo per quello che secondo altri linguisti non è, cioè neutro, in un mondo e in una società dove le donne contano sicuramente più del passato. Per quanto anche nella storia non siano mancate donne di grande rilievo, e di forza superiore ai maschi disciplinatamente sottoposti.    

Duello al Centro tra Franceschini e Prodi sognando una vittoria improbabile

Dal Dubbio

In altre parole, per restare al titolo della trasmissione televisiva di cui è stato ospite, Romano Prodi ha rivendicato orgogliosamente il suo “metodo” di tessitore, diciamo così, preferendolo a quello proposto da Dario Franceschini nell’officina romana, all’Esquilino, adottata come ufficio con una fantasia da romanziere, quale lui è con un certo successo che gli va riconosciuto. E che potrebbe costituire, male che vada in politica, la stessa uscita di sicurezza che è stato il giornalismo misto alla Tv e al cinema per Walter Veltroni. Di cui Franceschini fu a suo tempo vice segretario nel Pd.

Romano Prodi

         Di fronte allo scontro ormai in corso al Nazareno e dintorni fra l’andare divisi alle elezioni, nell’area del cosiddetto centrosinistra, per raccogliere più voti e cercare di allearsi dopo, a tavolino, come vorrebbe Franceschini, e l’andare invece uniti già alle elezioni con tanto di programma concordato, fossero pure le 300 pagine dell’Unione del 2006, come ha riproposto Prodi dicendo che divisi non si va lontano, si rischia di giudicare con criteri morali che Benedetto Croce contestò in politica con l’autorevolezza che si era già conquistato.

         Il metodo Prodi è trasparente di sicuro. Ed anche coerente con lo spirito maggioritario della riforma elettorale che segnò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non meno del ciclone giudiziario di “Mani pulite”.

         Il metodo Franceschini sa più di furbizia che di trasparenza. E si sarebbe perciò portati a non preferirlo a quello di Prodi. Ma è anche vero che il metodo Prodi non gode di buona storia.

Francesco Cossiga e Massimo D’Alema d’archivio

         Il professore   emiliano, è vero, vinse due volte -nel 1996 e nel 2006- su Silvio Berlusconi e il centrodestra, ma in entrambe le occasioni i suoi governi durarono o poco più o poco meno di due anni. La seconda volta la sua crisi si trascinò appresso la legislatura con le elezioni anticipate. E in quella precedente la legislatura si era salvata, arrivando addirittura alla scadenza ordinaria del 2001, non per una ricomposizione miracolosa dell’Ulivo, ma grazie alla fantasia, chiamiamola così, dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che aveva improvvisato dal suo seggio di diritto e a vita al Senato un partito di transfughi dal centrodestra per permettere l’arrivo di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, poi sostituito da un Giuliano Amato di seconda edizione, dopo quella voluta o permessa da Bettino Craxi nel 1992.

         Con quell’operazione, che forse Franceschini sogna immaginando una rottura del centrodestra con la fuoruscita di Antonio Tajani, la buonanima di Cossiga andò ben oltre la elasticità, diciamo così, attribuita alla lontana e immeritatamente odiata prima Repubblica. Quando, diversamente dalla storia percepita, gli elettori erano sempre andati alle urne, dal 1948 al 1992, sapendo cosa avrebbero fatto i loro partiti dopo il voto. Persino la cosiddetta “solidarietà nazionale” fra Dc e Pci nel 1976 era nel conto dopo il rifiuto del Psi di Francesco De Martino di fare maggioranza con i democristiani senza i comunisti.

Pubblicato sul Dubbio

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A ottant’anni dalla fine…provvisoria dell’orrore dell’olocausto

         Avevo capito, sperato e quant’altro, non foss’altro per lo spazio e la visibilità offertagli, che Il Foglio condividesse la proposta del suo Pierluigi Battista di disertare la giornata odierna della memoria dell’Olocausto per denunciare il tradimento di chi da qualche tempo accusa Israele di essersi praticamente nazificata -come dice Putin dell’Ucraina di Zelensky- praticando il genocidio contro i palestinesi. In difesa dei quali i terroristi di Hamas hanno compiuto il 7 ottobre del 2023 un pogrom di cui ancora si vantano, tra bandiere e ostentazioni di forza, nello scambio fra i loro ostaggi e i detenuti strappati alle carceri israeliane che sta contrassegnando la tregua in corso -si fa per dire- a Gaza.

Liliana Segre oltraggiata a Milano

         Avevo capito, sperato e quant’altro, ripeto. Ma, pur dopo la diserzione di protesta annunciata dalle comunità ebraiche di Milano e di Bologna temendo una giornata della memoria alla rovescia, sostanzialmente antiebraica e filopalestinese anche nell’accezione terroristica di Hamas, Il Foglio ha mostrato qualche ripensamento. Forse indotto da dubbi o contrarietà espresse dalla pur dichiaratamente pessimista senatrice a vita Liliana Segre in un impeto sorprendentemente fiducioso: lei, sopravvissuta   alla shoah e insultata per le strade di Milano come “spia” di Israele da manipolatori della storia e dell’attualità.

Dal Foglio del 25 gennaio

         Riconosciuto  che la comunità ebraica bolognese, in particolare,  “ha ragione a dire che è diventata la giornata degli smemorati che piangono gli ebrei morti e che spesso difendono quelli che vorrebbero fare le pelle a quelli vivi”, è stato scritto in uno degli editoriali del Foglio di sabato 25 gennaio: “Resta il dilemma: se anche fosse ragionevole, è efficace disertare e lasciare il campo della memoria a chi vorrebbe svuotarla per riempirla, nel migliore dei casi, di mezze verità ipocrite, e nel peggiore, di menzogne antisemite?”.

         Per “battersi per la memoria viva” sostenuta nella conclusione di quell’editoriale impegnativo anche per l’anonimato che lo attribuisce tutto alla testata, credo che ci si debba sottrarre alla celebrazione di una memoria tradita, o traditrice, secondo la posizione dalla quale la si osserva.. E lasciare tutta intera ai responsabili la scena indecente che ne resta in questa giornata della smemoratezza.  Non è un Aventino. E’ una sfida. E il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto bene a decidere di celebrare l’Olocausto ad Aushwitz, dove avrebbe dovuto finire per sempre 80 anni fa.  

Il curioso galateo dell’associazione nazionale dei magistrati italiani

Il presidente della Repubblica l’altro ieri in Cassazione

         Il programma associativo o sindacale o protestatariochiamatelo come preferite- è stato quindi realizzato nelle cerimonie d’inaugurazione dell’anno giudiziario svoltesi nelle Corti d’Appello d’Italia. Lo sgarbo evitato il giorno prima in Cassazione al Presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, non è stato risparmiato ai rappresentanti del Governo, con la maiuscola riservatogli dalla Costituzione nella intestazione del terzo dei suoi sei titoli.

La vignetta del Corriere della Sera

Ministri e sottosegretari che hanno preso la parola senza la presenza di Mattarella, non ancora ubiquo, sono stati contestati dai magistrati iscritti all’associazione di categoria esibendo con una copia della Costituzione, come per difenderla dall’attacco che sarebbe la riforma della giustizia al libero esame dell’altrettanto libero Parlamento.

Il provvedimento proposto dal governo  per separare, fra l’altro,  le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, ormai intestato al guardasigilli Carlo Nordio, ha  superato di recente il primo dei quattro passaggi della doppia lettura prescritta per questo tipo di interventi legislativi dalla Costituzione. E anche quando avrà completato il suo percorso tra i due rami del Parlamento seguirà una verifica referendaria nel caso probabile di una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera raggiunta nella seconda votazione. Eventualità messa nel conto dal governo e per la quale si è già allertata l’associazione nazionale dei magistrati scommettendo sulla mancata conferma anche per il fatto che il risultato della prova referendaria prescinderà dalla partecipazione alle urne, diversamente dal referendum di tipo abrogativo.  

Giorgia Meloni

La premier Giorgia Meloni ha voluto difendere dall’”Apocalisse” avvertita dall’associazione dei magistrati la legittimità del tentativo del governo di riformare la giustizia nei termini concordati fra i partiti della maggioranza ricordando l’articolo 49 della Costituzione. Che dice. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E il carattere politico della riforma della giustizia attraverso modifiche alla Costituzione è evidente.

Di fronte alla durezza delle proteste e delle critiche dell’associazione nazionale dei magistrati alla riforma della giustizia, il cui carattere pregiudiziale è dimostrato dall’ormai sistematico no del sindacato delle toghe a interventi sulle materie che lo toccano, si potrebbe richiamare anche l’articolo 54 della Costituzione. Che dice: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. La buona educazione è rimasta nella penna dei costituenti, lo so, ma è ugualmente dovuta, non solo al presidente della Repubblica, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario se non si vuole ridurle ad oscenità.   

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Quel senso comune preferito da Donald Trump al buon senso….

         Donald Trump, il quarantasettesimo presidente   americano che sta producendo decreti come funghi nel bosco dopo una pioggia, probabilmente non ha letto in nessuna lingua i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. E non li ha letti neppure Elon Musk. Sennò forse -ripeto, forse- Trump non avrebbe insistito con quel “senso comune” che ritiene di rappresentare e si è proposto di ripristinare nei suoi Stati Uniti e altrove, con le buone o le cattive. Ma prevalentemente con le cattive, si ha la sensazione sentendone o leggendone le parole, in originale o nelle traduzioni di cui si deve accontentare chi non capisce l’inglese e vive quindi in condizioni di handicap.

Alessandro Manzoni

         Quell’ingenuo, sprovveduto, arcaico, cavernicolo romanziere milanese, alla cui lettura si sono formate generazioni di italiani, compreso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che lo cita ogni volta che può, scrisse dei disordini, delle paure e d’altro ancora cresciuti a Milano ai tempi della peste, nel Seicento, addebitandoli proprio al “senso comune”, che aveva sostituito il “buon senso”.

         Personalmente credo più al “buon senso” rimpianto dal Manzoni che al “senso comune” cavalcato da Trump, per cui sono rimasto di stucco nel leggere il politologo Giovanni Orsina, addirittura, che sulla Stampa di ieri ha optato più o meno consapevolmente pure lui più per Trump che per Manzoni.

Giovanni Orsina

         “La politica del senso comune- ha scritto Orsina- non tutelerà magari i “veri” interessi dei cittadini, ma guarda al mondo così come lo guarda la maggioranza di loro, prova a rispondere ai loro bisogni così come li pensa la maggioranza di loro, prova a rispondere così come li pensa la maggioranza di loro. Chiunque, in maniera del tutto legittima, detesti Trump e voglia vederlo sparire il prima possibile, dovrà confrontarsi col senso comune al quale lui parla, dovrà trovare dei modi alternativi per entrare nella concreta vita quotidiana dell’elettore medio. Ma, ad ascoltare il diluvio di parole che si stanno producendo in questi giorni contro il nuovo presidente, mi pare che quell’obiettivo sia ancora molto lontano”.

         Leggo e rileggo queste parole di Orsina, professore di storia contemporanea  alla Luiss, e non riesco a condividerle. Preferisco quelle di Manzoni. E vorrei che qualcuno trovasse il tempo e avesse la possibilità di tradurle a Trump sfidando anche i suoi sberleffi. E i cappelli della moglie.

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