La giustizia italiana tra assoluzioni e rinunce eccellenti

Da Repubblica

         Diffido francamente di quella bomba  di carta che mi sembra, francamente, il “duello sul Viminale” gridato da Repubblica enfatizzando, a dir poco, il rimpianto, le aspirazioni e quant’altro attribuiti a Matteo Salvini dopo l’assoluzione piena ottenuta nel processo di primo grado per gli sbarchi di migranti clandestini ritardati nel 2019 dall’allora ministro dell’Interno. Che perciò vorrebbe tornare ad esserlo se ne avesse la pur improbabile occasione.

Dal Corriere della Sera

Mi colpisce di più il pur meno vistoso annuncio sulla prima pagina del Corriere della Sera riguardante l’associazione nazionale dei magistrati. Il cui presidente Giuseppe Santalucia ha deciso di lasciare, di non riproporsi alla imminente scadenza del suo mandato quadriennale.

Dal Corriere della Sera

Nel proposito dichiarato di “evitare ogni personalizzazione”, Santalucia ha detto che “è giusto che altri prendano le redini della rappresentanza” delle toghe. Che tuttavia in un’assembla svoltasi di recente nel “Palazzaccio” romano della Corte di Cassazione ha inasprito l’agitazione contro la riforma della giustizia proposta dal governo al Parlamento, sino a mettere in cantiere anche il ricorso allo sciopero.

         La rinuncia di Santalucia -eccellente un po’ come le assoluzioni che hanno sconfessato le accuse al già ricordato Salvini e all’altro Matteo della politica italiana, Renzi, per finanziamento illegale della sua corrente- sembra un po’ la rinuncia di un generale a guidare l’ultimo assalto delle sue truppe.

Dalla Verità

         Una coincidenza ancora più clamorosa è tuttavia quella fra la rinuncia annunciata da Santalucia e un’intervista nella quale Luciano Violante, già magistrato, già responsabile dei problemi della giustizia del defunto Pci, già presidente della Camera, ha ricordato ai suoi ex colleghi che “non spetta alle toghe riformare la giustizia”, ma al Parlamento. “Parola di Violante”, ha titolato in prima pagina La Verità.

Violante alla Verità

         I magistrati sul piede di guerra “non possono essere controparte di nessuno, tanto meno del governo. Così come -ha aggiunto Violante- mi sembra un errore che siano loro a organizare l’eventuale referendum abrogativo”, anch’esso minacciato contro la riforma. “In questo modo -ha aggiunto Violante parlando sempre dell’associazione dei magistrati -diventa protagonista di un conflitto. I cittadini devono avere fiducia nei magistrati, che perciò non possono comportarsi da combattenti. Serve il senso della misura, per tutti”.

Luciano Violante

         Dubito, personalmente, che questo “senso della misura” prevarrà. Come sospetto, probabilmente a torto, che ne dubiti pure il presidente uscente dell’associazione che ha deciso di lasciare. Ma il monito di Violante è l’ultimo passo compiuto dall’ex presidente della Camera sulla strada intrapresa da tempo per riequilibrare i rapporti fra la politica e la giustizia saltati a favore della seconda una trentina d’anni fa con mani presumibilmente “pulite”.

La corsa ai paradossi per sminuire o rovesciare l’assoluzione di Salvini

Meloni e Salvini

Tra i paradossi offerti dalle reazioni all’assoluzione con formula piena di Matteo Salvini dalle accuse di omissione d’atto di ufficio e sequestro di persone -avendone bloccato per una ventina di giorni nel 2019 da ministro dell’Interno lo sbarco da una nave spagnola che le aveva soccorse in mare col proposito di scaricarle in Italia e in nessun altro posto- il maggiore resta quello del leader leghista liberato, ancor più da quelle accuse, dalla prospettiva politicamente più comoda per lui di un condannato ingiustamente. Avvolto chissà per quanto altro tempo nella figura di un perseguitato capace per questo di raccogliere consensi e voti nell’area elettorale del centrodestra, a discapito dei partiti alleati cominciando da quello della premier Giorgia Meloni. Che proprio per questo si sarebbe protetta garantendogli il massimo della copertura politica in caso di condanna nei vari gradi di giudizio.

Tanto, con i tempi della giustizia italiana fisiologicamente lenti come un’anziana e malmessa lumaca, sarebbe stato possibile scommettere su un processo capace, fra appello e Cassazione, di protrarsi per tutta la legislatura corrente e oltre. Come del resto potrebbero sperare o scommettere i giustizialisti ancora convinti della colpevolezza di Salvini e fiduciosi nel ricorso della Procura di Palermo contro la sconfitta pur piena subìta in primo grado.

Dal Foglio

Non meno grande tuttavia è il paradosso, sposato anche dal Foglio in un lungo articolo del suo direttore Claudio Cerasa, secondo cui -testuale, in un titolo stampato in rosso- Salvini sarebbe stato assolto, “il salvinismo no”. Condannato dall’alleata e superiora Meloni con una politica di contenimento dell’immigrazione condotta e riuscita non bloccando navi o sbarchi alla maniera di Salvini, appunto.

Da Domani

La Meloni -sempre secondo questo racconto o questa rappresentazione dei fatti riproposta oggi dal giornale debenedettiano Domani scrivendo di una “irrilevanza politica” ormai di Salini- starebbe limitando gli sbarchi, alla faccia del leader leghista ancora sulle coste col cannocchiale in mano, riducendo le partenze dalle coste africane o da altre parti con un’azione combinata a livello europeo. In particolare con la nuova commissione di Bruxelles presieduta da Ursula von der Leyen, composta anche da un commissario e vice presidente italiano come Raffaele Fitto contro cui -guarda caso-  gli eurodeputati di Salvini hanno votato ritrovandosi con altre componenti radicali della destra continentale.

Se la Meloni avesse davvero condannato e sconfitto il salvinismo inteso come politica dei porti chiusi all’’immigrazione clandestina, dovrebbe poter contare sul consenso, per esempio, del Pd. Che invece ne contesta progetti e iniziative. Perché? E’ qui che casca l’asino del paradosso proposto dai critici e dagli avversari del Salvini condannato dalla premier, corsa anche in Lapponia per contenere anche da lontano il suo vice leghista in Italia. 

Ripreso da http://www.startmag.it  

Se l’accusa a Salvini rinunciasse al ricorso in appello contro l’assoluzione

Da Libero

Non lo sto scrivendo io, ma lo ha scritto ieri sulla Stampa l’ex capo della Procura della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati. Lo ha scritto commentando l’assoluzione di Matteo Salvini a Palermo, ma un po’ anche quella dell’altro Matteo -Renzi- a Firenze. “Il processo è una pena, ma la lentezza è una pena doppia”.

         Lenti, lentissimi sono stati il processo a Salvini per il sequestro di 147 migranti, contestatogli dall’accusa per essere stati trattenuti più di cinque anni fa per una ventina di giorni sulla nave spagnola Open arms, e l’udienza preliminare -ripeto: l’udienza preliminare, senza neppure il rinvio al giudizio- a carico di Matteo Renzi e amici accusati di avere praticato con la fondazione Open il finanziamento illegale della loro corrente, praticamente travestita da partito. O viceversa, come preferite.

Edmondo Bruti Liberati

         Il processo a Salvini, dopo l’inchiesta e l’autorizzazione del Senato concessa per la disinvolta decisione del MoVimento 5 Stelle di ritirare all’ex ministro dell’Interno la copertura concessagli invece per un’analoga vicenda precedente del pattugliatore italiano Diciotti, è durato “oltre tre anni con sole 24 udienze”, ha osservato Bruti Liberati. L’udienza preliminare contro Renzi e amici è durata oltre due anni e non ricordo bene quante udienze. Un’enormità, in entrambi i casi, che Renzi e Salvini, stavolta in ordine alfabetico, hanno subìto con una pena personale, familiare, mediatica e politica sopravvissuta al loro proscioglimento e assoluzione, rispettivamente.

         Questo in un sistema giudiziario impostato semplicemente sulla logica e sull’umanità, da non confondere con il lassismo, dovrebbe bastare e avanzare per indurre l’accusa a rinunciare a prolungare la pena dei prosciolti o assolti ricorrendo all’appello e poi, magari, anche alla Cassazione. E dovrebbe ridurre l’arroccamento giustizialista attorno alla barriera levata a suo tempo dalla Corte Costituzionale bocciando un tentativo di limitare il ricorso contro le assoluzioni. Neppure la Consulta, purtroppo, nell’ondata termidoriana della giustizia e della politica prodotta dal clima, a dir poco, delle “Mani pulite” di una trentina d’anni fa è riuscita a impermeabilizzarsi, Ne è stata travolta anch’essa.

Matteo Renzi

         Ora il rischio che corrono non solo Renzi, i suoi amici e Salvini, sempre in ordine rigorosamente alfabetico, ma l’intero Paese, con la maiuscola, è che la pena doppia dei tempi lunghi -come l’ha chiamata Bruti Liberati- venga metaforicamente triplicata e ancor più indicando nel proscioglimento del primo e nell’assoluzione del secondo la prova che il sistema giudiziario funzioni com’è. E non serva perciò alcuna riforma:  dalla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri al contrasto della degenerazione delle correnti della magistratura, e delle  ricadute sulla composizione e sul funzionamento dell’omonimo Consiglio Superiore.

Dal Messaggero

         Se questo fosse o dovesse rivelarsi l’esito o il risvolto delle sconfitte subite dall’accusa in questa piacevole sorpresa trovata con qualche giorno di anticipo dai garantisti sotto l’albero di Natale, sarebbe una tragica beffa. Una specie di eterogenesi dei fini. Un omaggio non alla giustizia ma a chi la usa, anzi ne abusa in politica. Una smentita della speranza accesasi in qualche titolo di giornale -non di più- sulla fine della “via giudiziaria” alla lotta politica per fare nei tribunali ciò che non riesce nelle urne, o in Parlamento. +

Ah, se l’accusa si passasse una volta tanto la mano sulla coscienza decidendo di lanciare finalmente un segnale di spontanea, volontaria distensione, chiamiamola così, dopo una così lunga stagione di avvelenamento dei pozzi della giustizia e dei suoi rapporti con la politica.

Pubblicato su Libero

Le assoluzioni eccellenti e a sorpresa sotto l’albero di Natale

Salvini e Renzi d’archivio

         Non bisogna dunque salire sino a Berlino con Bertold Brecht per trovare il giudice che sappia e voglia salvare il mugnaio di Postdam a rischio d’ingiustizia. Si può anche scendere a Firenze, dove Matteo Renzi ha trovato il giudice che, sia pure in tre anni, ha prosciolto lui e dieci amici nella cosiddetta udienza preliminare da un’ostinata accusa di illecito finanziamento. O scendere ancora più giù, sino a Palermo, dove un altro celebre Matteo della politica italiana -il leghista Salvini- è stato assolto dopo tre anni di processo, e a più di cinque di distanza dai fatti, dall’accusa di avere addirittura sequestrato come ministro dell’Interno quasi 150 migranti trattenendoli per una ventina di giorni su una nave spagnola che li aveva soccorsi in mare, decisa a  sbarcarli solo sulle coste italiane.      

Salvini con l’avvocato e senatrice Bongiorno

Sono due vicende, quelle di Renzi e di Salvini, a epilogo provvisoriamente positivo in un sistema giudiziario che generalmente produce più paura che fiducia: E a riformare il quale qualsiasi governo ci abbia provato ha dovuto rinunciarvi, o quasi, perché nessuna maggioranza -dico nessuna- è riuscita a resistere compatta all’arroccamento conservatore e castale dell’associazione nazionale dei magistrati. Per la quale separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri sarebbe eversivo, al pari di una reale, non fittizia  responsabilità civile delle toghe, paragonabile a quella di altri che rispondono personalmente dei loro errori.         

La vignetta del Corriere della Sera

Alla lunghissima udienza preliminare che ha scagionato Renzi ed amici non si sarebbe dovuti neppure arrivare se le indagini fossero state condotte ragionevolmente. Così come non si sarebbe dovuto arrivare al processo contro Salvini per la “Open arms” se l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo partito non avessero adottato il sistema dei due pesi e misure: proteggendo lo stesso Salvini dalle accuse giudiziarie per i ritardati sbarchi dal pattugliatore italiano “Diciotti” e non da quelle successive riguardanti la nave spagnola. E ciò perché fra la prima e la seconda vicenda era intervenuto un cambiamento dei rapporti personali e politici fra Conte e Savini nell’ambito dello stesso governo.

Dal manifesto

Paradossalmente i due Mattei rischiano di pagare cara la soddisfazione che hanno avuto nel primo giro della loro giostra giudiziaria perché i sostenitori del cosiddetto partito dei magistrati, politicamente trasversale, troveranno proprio nella pronuncia del giudice contro la posizione dell’accusa la dimostrazione della loro convinzione che il sistema giudiziario funzioni. E non ci sia quindi motivo di riformarlo. Una reazione, questa, che potrebbe anche essere non dico condivisa, ma almeno compresa se nei casi di Renzi e di Salvini l’accusa, considerando il tempo abbondante avuto per tentare il processo e la condanna, rinunciasse all’appello. Ma è un’ipotesi assai improbabile, come l’auspicio dell’”arma spuntata dei tribunali” espresso dal manifesto accanto al “buco nell’acqua” di Palermo.

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Putin si incatena alle sue provocazioni nella guerra all’Ucraina

Zelensky a Bruxelles

         Sfrontato nelle sue provocazioni, Putin, diversamente dai titoli dei giornali italiani, si è dichiarato disposto a trattare la pace in Ucraina anche con l’odiato presidente Zelensky. Che lui  si era proposto di fare uccidere o comunque deporre con la cosiddetta operazione speciale disposta nel 2022 non mettendo nel conto né la resistenza degli ucraini né gli aiuti degli occidentali. Ma Zelensky per trattare con Mosca dovrebbe avere una legittimazione di cui sarebbe sprovvisto per la scadenza del mandato, al cui rinnovo non si può procedere per le elezioni impedite dalla legge marziale provocata dalla guerra cominciata proprio da Putin. Che così si morde la coda come un cane. O si incatena alle sue stesse provocazioni.      

         Basterebbe che il capo del Cremlino ordinasse la cessazione del fuoco e facesse tornare la normalità nell’Ucraina da lui devastata per consentire a Zelensky di far cessare il fuoco anche lui, con tutte le dovute garanzie internazionali, e restituire alla popolazione anche la normalità delle elezioni.

Putin e Berlusconi d’archivio

         O no? Che ne direbbe Donald Trump prima o dopo essersi insediato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato? Ma soprattutto che cosa direbbero gli italiani, intesi come cittadini e come collettività, sulle cui simpatie Putin ha detto di contare ancora, pur dopo la morte di Silvio Berlusconi da lui evocato -gli va riconosciuto- non a torto perché in effetti il suo amico non nascose una certa comprensione per la già ricordata “operazione speciale” russa in Ucraina. Ed era stato a suo tempo fra i primi ad occorrere in Crimea per festeggiarne la conquista, o riconquista, da parte di Putin.

Meloni a Bruxelles

         L’erede politico di Berlusconi nella sua Forza Italia è notoriamente il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che coerentemente con la buonanima non si lascia scappare occasione per precisare che, pur partecipando al fronte occidentale di sostegno politico, finanziario e militare all’Ucraina, “non si sente in guerra” contro la Russia. Come non si sente neppure l’altro vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, leader della Lega. Ma l’erede politico di Berlusconi a Palazzo Chigi, alla guida della coalizione di centrodestra, è Giorgia Meloni. Che sulla questione ucraina ha sensibilità e posizioni, credo, meno o per niente apprezzate da Putin. E da quanti in Italia, tra le opposizioni, accusano -come Giuseppe Conte e la sinistra radicale- il Pd della Schlein di condividere e praticare la durezza della Meloni nel sostegno a Zelensky, al pari della durezza del Pd di Enrico Letta.

         E’ una matassa, come si vede, alquanto aggrovigliata, anche sotto il profilo politico interno in Italia. Ma di un groviglio sempre minore di quello in cui si è messo Putin contestando le credenziali di Zelensky per una trattativa di pace. E non arrossendo di vergogna, o quanto meno di imbarazzo.

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Scholz vittima in Germania anche dell’eredità della Merkel

Da Libero

Scusatemi la franchezza, come al solito, ma della caduta del socialdemocratico Olaf Scholz in Germania, sfiduciato come cancelliere e rimasto in carica per gestire le elezioni anticipate di febbraio, non mi stupisce l’epilogo in soli tre anni. Mi stupisce che sia durato tanto. Così come mi stupisce ancora che fosse durata più di cinque volte -ben 16 anni- prima di lui la popolare Angela Merkel.  Popolare intesa come appartenente all’omonimo partito della famiglia europea democristiana. Ma sulla Merkel tornerò dopo. Lasciatemi continuare a scrivere di Scholz.

Merkel e Scholz

         Per quanto risulti dalla sua biografia un avvocato specializzato in diritto del lavoro, Scholz mi è sempre apparso più un funzionario di partito che altro. Il solo paragonarlo a predecessori della sua parte politica come Gerhard Schroeder e Willy Brandt mi sembra un esercizio acrobatico senza alcuna rete di sicurezza. La sua partecipazione, da socialista, alla demonizzazione del debito, che in Germania si chiama e viene percepito come il peccato, poteva e doveva bastare per capire la fine che lo aspettava. Ora, con la crisi nella quale è sprofondato il suo paese, che cosa farà mai il cancelliere uscente del vanto di avere un debito pubblico pari solo al 60 per cento rispetto al cosiddetto prodotto interno lordo, meno della metà del nostro? Di questo nostro tanto vituperato paese che secondo le previsioni formulate dalla sinistra con la Meloni a Palazzo Chigi avrebbe dovuto fallire. E invece quanto meno galleggia, come ha riduttivamente certificato di recente un avarissimo, quasi oppositorio Censis guidato da Giorgio De Rita, figlio del mitico Giuseppe.

Il giuramento di Scholz

         La circostanza attenuante che Scholz merita nel giudizio negativo accumulato fra sfiducia elettorale e sfiducia parlamentare è quella di avere raccolto l’eredità della Merkel, ritiratasi in tempo per non raccogliere lei i frutti lasciati appunto al successore. E per scrivere con calma, lautamente compensata, memorie tanto voluminose quanto generose verso se stessa. Generose e forse anche un po’ reticenti: per esempio, nella parte, enfatizzata nelle rappresentazioni per la stampa e per il pubblico italiano,, in cui la ex cancelliera nega di avere avuto un ruolo nel 2011 nella sostanziale e rassegnata deposizione di Silvio Berlusconi. Che scoprì e denunciò solo dopo qualche tempo di essere stato rimosso da Palazzo Chigi con un colpo di Stato internazionale, inutilmente contrastato oltre Atlantico dal Segretario di Stato americano al Tesoro.

Merkel e Giuseppe Conte

         Nel mio piccolo, anzi piccolissimo, prima ancora che scoppiasse quell’ondata di immigrazione da lei consentita in Germania innaffiando il terreno su cui sarebbe poi cresciuta elettoralmente  l’estrema destra tedesca, cominciai a dubitare della Merkel statista proiettata metaforicamente su tutti gli schermi cinematografici e televisivi, quando la vidi ripresa in un bar assorta a sentirsi raccontare e spiegare la politica italiana dal premier di turno spuntato come un fungo dai volgari comizi di Beppe Grillo. Alludo naturalmente a Giuseppe Conte, che raccontava alla Merkel come fosse bravo a vivere da equilibrista politico a Palazzo Chigi. Dove arrivò con una maggioranza e riuscì a rimanere con un’altra di segno opposto grazie anche al panico sopraggiunto all’esplosione della pandemia da Covid pure  in Italia.

Trump e Conte alla Casa Bianca

         Va detto, con onestà, che non fu solo la Merkel a farsi incantare, o a fingersi incantata, dai racconti politici di Conte fra un cappuccino e una birra. Ci cascò anche nella sua prima esperienza alla Casa Bianca Donald Trump, che gli raddoppiò il nome dandogli e scrivendogli del Giuseppi, al plurale. E ricevendone, una volta tanto in politica, una riconoscenza ben oltre il solo, mitico giorno della vigilia assegnatole con la consueta ironia dalla buonanima di Giulio Andreotti. Stavolta però quel plurale Trump a Conte glielo risparmierebbe, con o senza il consiglio di Elon Musk, amico e ammiratore piuttosto di Giorgia Meloni.  

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La guerra d’Ucraina si riprende la scena dopo le distrazioni di cortile

         Finisce la distrazione, chiamiamola così, del cortile di casa dove si sono inseguiti per un po’ di giorni, fra Circo Massimo e aule parlamentari, gli scontri verbali, spesso da vero e proprio spettacolo, fra la premier Giorgia Meloni e i suoi avversari. Fra i quali qualcuno ha addirittura arruolato anche i leghisti per le loro numerose assenze, compresa quella del vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, alle comunicazioni del governo a Montecitorio sul Consiglio europeo al quale la premier si accingeva a partecipare.

Da Repubblica

         La politica estera e le guerre, a cominciare da quella in Ucraina, senza dimenticare quelle in Medio Oriente che si combattono su più fronti, si riprendono l’attenzione anche del lettore più distratto e svogliato. Cui è stata offerta, per esempio, da Repubblica come una “svolta” l’intervista ad un giornale francese in cui il presidente ucraino Zelensky ha ammesso la perdita ormai irrecuperabile della Crimea, presasi dai russi già prima della guerra in corso dal 2022, e del Donbass poi occupato.

Dal Fatto Quotidiano

         Per Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e la Verità di Maurizio Belpietro, spesso convergenti su più argomenti pur da fronti opposti, quella di Zelensky va vista invece come “una resa”, prima ancora dell’apertura di trattative e, soprattutto, dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca.  Su cui notoriamente dal Cremlino Putin puntava da tempo per poter chiudere i conti con l’Ucraina di quel mezzo nazistoide che lui ha sempre considerato Zelensky nel modo più conveniente per la Russia. La quale tuttavia ha mancato l’obiettivo iniziale della “operazione speciale” congegnata per arrivare a Kiev con le truppe in una quindicina di giorni e impadronirsi di tutto il paese.

Dal Giorno, Resto del Carlino e Nazione

         In considerazione di questo obiettivo mancato grazie agli aiuti militari e finanziari dell’Occidente, quella di Zelensky è apparsa, per esempio ai giornali del Quotidiano Nazionale del gruppo editoriale Riffeser Monti, “quasi una resa”. E tutto in un contesto militare e politico oggettivamente confuso nel quale Travaglio ha avuto facile gioco a inzuppare il suo biscotto paragonando la permanente guerra in Ucraina, con bombe, morti, feriti e distruzioni, a quella che il maresciallo Badoglio ereditò e annunciò di proseguire in Italia nel 1943 subentrando al deposto Mussolini.

Dal Foglio

         In attesa dell’armistizio, chissà dove e come paragonabile a quello di Cassibile annunciato dell’8 settembre sotto il governo Badoglio, appunto, Giuliano Ferrara sul Foglio ha cercato di spiegare al “cretino ibrido” la guerra d’Ucraina scrivendo nel titolo del suo articolo che “la volontà di potenza, la crudeltà, il coraggio, la resistenza non sono uno spreco evitabile con la pace senza giustizia”. “Bisognerà ricordarsene -ha ammonito- quando ci si siederà al tavolo con Putin” dopo le parole di Zelensky di una “dolorosa presa d’atto” delle condizioni sul campo. Dove si profila una interposizione di forze militari europee che l’Italia vorrebbe però intestare più all’Onu che all’Unione.

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Sergio Mattarella parla alle nuore perchè suocere intendano…..

Dal Corriere della Sera

         Più Sergio Mattarella parlava sotto i soffitti e gli stucchi dorati del Quirinale per accogliere e ricambiare alle autorità ospiti gli auguri di buon Natale e buon anno nuovo rivoltigli a loro nome dal presidente del Senato Ignazio La Russa, entrambi leggendo testi ben studiati, più le telecamere riprendevano tra le fila del pubblico questo o quel volto noto, più il giornalista che seguiva da casa la diretta televisiva, come chi scrive, si chiedeva quale potesse essere la nuora cui si rivolgeva via via il presidente della Repubblica perché suocera intendesse.

Questo è un vecchio proverbio al quale il capo dello Stato si è felicemente attenuto facendo le sue raccomandazioni, formulando i suoi richiami, esprimendo le sue preoccupazioni e i suoi auspici. Compreso quello di una democrazia davvero “amata”, e non solo rispettata: una democrazia davvero partecipata, in cui ogni istituzione rispetti l’altra e non cerchi di travalicarla creando confusioni e conflittualità che vanificano la stabilità quando essa sembra sopraggiunta a governi di breve, o brevissima durata. Una conflittualità che quando diventa esasperata, pregiudiziale non esprime né pluralismo né libertà, ma solo rancore distruttivo, all’interno come all’esterno, in un mondo non a caso contrassegnato da troppe guerre fra le quali si vorrebbe che le generazioni più giovani si abituassero raccogliendone e moltiplicandone gli effetti.

Meloni al Quirinale con Mattarella

Compariva agli occhi la sagoma indistinguibile di una presidente del Consiglio vestita peraltro di un rosso che ne aumentava la visibilità e il telespettatore pensava se Mattarella ce l’avesse con lei e con le polemiche che subisce e ricambia, reduce peraltro da una festa di partito in cui ha rischiato di perdere la voce alzandola troppo.

Elly Schlein

Compariva agli occhi il volto della segretaria del Pd Elly Schlein, fra i tanti che la circondavano, e il telespettatore pensava se Mattarella non si riferisse invece a lei, o anche a lei. Alla quale nessuna iniziativa del governo, nessuna parola della premier, neppure pronunciatale direttamente in qualche telefonata di consultazione o di saluto, pare andare bene.

Giuseppe Conte

Compariva quasi accanto a quello della Schlein il volto dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che contende alla segretaria del Nazareno il protagonismo oppositorio, quasi per difendersi dal conflitto ch’egli ha in casa col fondatore ed ex garante ormai del MoVimento 5 Stelle, con tutte le maiuscole al loro posto, e il telespettatore poteva chiedersi se Mattarella non ce l’avesse con lui, o anche con lui.

Schlein e Conte al Quirinale

Poi i due, Schlein e Conte, una volta finiti il discorso e il passaggio del presidente della Repubblica tra gli ospiti per salutarli quasi uno per uno, sono stati ripresi insieme a parlare: in verità, più lei a lui che viceversa. E l’ingenuo telespettatore, a dispetto di un disincanto professionale, si chiedeva se entrambi non si fossero riconosciuti, imbarazzati, nei panni della suocera di turno. Potenza dell’immaginazione.

Ripreso da http://www.startmag.it

Una Meloni morotea, e in rosso, decisamente spiazzante per gli avversari

Da Libero

L’Aldo Moro che Giorgia Meloni ha voluto citare e condividere parlando in Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo di sostanziale avvio della legislatura uscita dalle elezioni continentali di giugno è del 1974. Il Moro presidente del Consiglio di un bicolore Dc-Pri, con Ugo La Malfa vice presidente, durato dal 23 novembre di quell’anno al 7 gennaio 1976, quando l’allora segretario del Psi Francesco De Martino gli ritirò l’appoggio esterno annunciando che i socialisti non sarebbero mai più tornati in una maggioranza senza la partecipazione dei comunisti.

Aldo Moro

         Seguì a quella crisi il quinto e ultimo governo Moro, composto di soli democristiani e destinato a gestire le elezioni anticipate di giugno del 1976. Che si conclusero con “due vincitori”, come lo stesso Moro definì la sua Dc e il Pci guidato da Enrico Berlinguer, incapaci di governare numericamente in Parlamento l’uno contro l’altro, pur essendosi proposti in posizione alternativa agli elettori. Seguirono due monocolori democristiani presieduti da Giulio Andreotti ma praticamente concordati nel programma e nella composizione fra lo stesso Moro e Berlinguer all’insegna della politica di cosiddetta “solidarietà nazionale”. Che fu una variante del ben più stringente “compromesso storico” perseguito dal segretario del Pci per evitare -diceva- che l’Italia finisse come il Cile, passato da un governo di sinistra ad un governo militare di destra a regìa americana.  

         Dalla “solidarietà nazionale”, attraverso un passaggio elettorale del 1979 anch’esso anticipato, con Moro ucciso l’anno prima dalle brigate rosse, si uscì un po’ per l’indisponibilità di Berlinguer ad accettare il riarmo missilistico della Nato -che avrebbe alla fine portato al crollo dell’Unione Sovietica- e un po’ per il coraggio restituito da Bettino Craxi ai socialisti di governare con la Dc avendo i comunisti all’opposizione.

         Vi ho elencato dati e fatti tutti precedenti o quasi immediatamente successivi alla nascita non solo politica ma persino anagrafica di Giorgia Meloni, intervenuta il 15 gennaio 1977. Ve li ho elencati per sottolineare lo studio che deve avere preceduto e motivato la decisione della premier, ieri, di rifarsi a Moro -alla vigilia, ripeto, dell’importante Consiglio europeo alla quale parteciperà- per condividerne l’idea di Europa: “il luogo -disse lo statista democristiano- in cui le nazioni diventano più grandi senza perdere la loro anima, una casa comune per le differenze”.

         Si tratta delle stesse differenze, pur a 50 anni di distanza, che hanno permesso e permettono alla Meloni, e alla destra italiana che lei guida e rappresenta, di dissentire prima dalla conferma della tedesca Ursula von der Leyen, per quanto diventata sua amica, alla presidenza della Commissione europea e poi di parteciparvi con Raffaele Fitto nella doppia veste concordata di commissario e vice presidente.

         Con questo significativo richiamo a Moro la Meloni ha spiazzato come più clamorosamente non potesse fare tutti quelli che a sinistra e nel pur fantomatico centro, sempre alla ricerca di un federatore o simile, ne contestano l’affidabilità come partner europea. Per giunta “la più potente” -per riconoscimenti mediatici e politici internazionali- di fronte alle crisi che attraversano la Francia e la Germania, abituate per troppi anni a considerarsi le padrone d’Europa, o quasi.

Romano Prodi

         Fra i più spiazzati dalle parole e dagli studi della Meloni penso si possa e si debba indicare l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, guadagnatosi quello che meritava dalla Meloni alla chiusura della festa di Atreju, al Circo Massimo, per avere cercato di macchiettizzarla come una leader sì ma “obbediente” agli ordini delle consorterie di turno, al di là e al di qua dell’Atlantico. Questa di una Meloni morotea è l’ultima tranvata- come si dice a Roma- che poteva capitare a Prodi: l’uomo -non dimentichiamolo- di una famosa e, a dir poco, inquietante seduta spiritica proprio durante il sequestro Moro.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 dicembre

Stefano Bonaccini attende Conte all’ultimo miglio al Nazareno

         L’insofferenza per Giuseppe Conte cresce nel Pd, per quanti sforzi faccia la segretaria Elly Schlein di contenerla. Al presidente del partito Stefano Bonaccini è appena sfuggito di dire, in una intervista al Corriere della Sera, che il Movimento 5 Stelle “fatica a compiere l’ultimo miglio, e questo sta indebolendo sia loro che il centrosinistra”. E’ ormai d’archivio il Conte sorridente al seguito di Bonaccini in una festa dell’Unità.

La locandina del film del 1999

         L’ultimo miglio è il percorso finale di un prodotto da consegnare a chi lo ha acquistato a distanza. Ma è anche, forse soprattutto nell’immaginario letterario o cinematografico il percorso finale del condannato a morte. Un miglio chiamato verde in America per il colore che lo indica nel penitenziario e scolpito nella memoria di chi ha visto l’omonimo film del 1999, piaciuto al 92 per cento dei suoi numerosi spettatori.

Dal Corriere della Sera di ieri

         Sarà forse per questa assonanza non molto felice, diciamo così, con l’ esecuzione di una pena capitale, non adatta -temo- a ridurre le remore, le resistenze, le contrarietà di Conte ad un rapporto di alleanza organica o strutturale col Pd, aumentate dopo la rottura intervenuta anche su questo problema con Beppe Grillo, che il Corriere della Sera ha cercato di ridurre l’impatto delle parole di Bonaccini. L’ultimo miglio è diventato un “passo” nel titolo interno e nella sintesi del richiamo in prima pagina. “Il M5S fatica a fare il passo e si indebolisce”, hanno riassunto in via Solferino.

Paolo Gentiloni

         Né di ultimo miglio né di passo ha parlato in una lunga intervista al Foglio l’ex presidente del Consiglio ed ex commissario europeo Paolo Gentiloni, autorevole esponente pure lui del Pd. Che tuttavia, pur senza nominare Conte o il movimento che presiede, ha ammonito che “le coalizioni”, compresa quella che dovrebbe creare o costituire l’alternativa al centrodestra, “non possono essere ambigue sulle scelte di fondo e in particolare sulla politica internazionale. A volte -ha aggiunto Gentiloni pensando prevedibilmente proprio a Conte per la sua posizione sulla guerra in Ucraina- non si può mediare, bisogna solo scegliere, e anche non sciogliere a suo modo è una scelta”.

         Certo, anche nel centrodestra sulla guerra in Ucraina qualcosa di ambiguo, pur dietro il voto mai mancato in Parlamento a favore del Paese aggredito dalla Russia di Putin, si può avvertire nelle parole e negli umori di Matteo Salvini e della Lega. Ma Gentiloni ha detto di “non avere problemi ad ammettere” che “la posizione italiana in generale è stata molto buona, anche da parte del governo, e penso che abbia pure contribuito a far considerare l’esecutivo italiano e la presidenza del Consiglio del nostro paese come una componente di un occidente, di un’Europa occidentale, di un’Europa responsabile”. Con Conte nella maggioranza accadde invece che il governo di Mario Draghi solidale con l’Ucraina e deciso a sostenerla militarmente fu costretto nel 2022 alle dimissioni. E seguirono elezioni anticipate che accelerarono la vittoria della Meloni.

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