La corsa ai paradossi per sminuire o rovesciare l’assoluzione di Salvini

Meloni e Salvini

Tra i paradossi offerti dalle reazioni all’assoluzione con formula piena di Matteo Salvini dalle accuse di omissione d’atto di ufficio e sequestro di persone -avendone bloccato per una ventina di giorni nel 2019 da ministro dell’Interno lo sbarco da una nave spagnola che le aveva soccorse in mare col proposito di scaricarle in Italia e in nessun altro posto- il maggiore resta quello del leader leghista liberato, ancor più da quelle accuse, dalla prospettiva politicamente più comoda per lui di un condannato ingiustamente. Avvolto chissà per quanto altro tempo nella figura di un perseguitato capace per questo di raccogliere consensi e voti nell’area elettorale del centrodestra, a discapito dei partiti alleati cominciando da quello della premier Giorgia Meloni. Che proprio per questo si sarebbe protetta garantendogli il massimo della copertura politica in caso di condanna nei vari gradi di giudizio.

Tanto, con i tempi della giustizia italiana fisiologicamente lenti come un’anziana e malmessa lumaca, sarebbe stato possibile scommettere su un processo capace, fra appello e Cassazione, di protrarsi per tutta la legislatura corrente e oltre. Come del resto potrebbero sperare o scommettere i giustizialisti ancora convinti della colpevolezza di Salvini e fiduciosi nel ricorso della Procura di Palermo contro la sconfitta pur piena subìta in primo grado.

Dal Foglio

Non meno grande tuttavia è il paradosso, sposato anche dal Foglio in un lungo articolo del suo direttore Claudio Cerasa, secondo cui -testuale, in un titolo stampato in rosso- Salvini sarebbe stato assolto, “il salvinismo no”. Condannato dall’alleata e superiora Meloni con una politica di contenimento dell’immigrazione condotta e riuscita non bloccando navi o sbarchi alla maniera di Salvini, appunto.

Da Domani

La Meloni -sempre secondo questo racconto o questa rappresentazione dei fatti riproposta oggi dal giornale debenedettiano Domani scrivendo di una “irrilevanza politica” ormai di Salini- starebbe limitando gli sbarchi, alla faccia del leader leghista ancora sulle coste col cannocchiale in mano, riducendo le partenze dalle coste africane o da altre parti con un’azione combinata a livello europeo. In particolare con la nuova commissione di Bruxelles presieduta da Ursula von der Leyen, composta anche da un commissario e vice presidente italiano come Raffaele Fitto contro cui -guarda caso-  gli eurodeputati di Salvini hanno votato ritrovandosi con altre componenti radicali della destra continentale.

Se la Meloni avesse davvero condannato e sconfitto il salvinismo inteso come politica dei porti chiusi all’’immigrazione clandestina, dovrebbe poter contare sul consenso, per esempio, del Pd. Che invece ne contesta progetti e iniziative. Perché? E’ qui che casca l’asino del paradosso proposto dai critici e dagli avversari del Salvini condannato dalla premier, corsa anche in Lapponia per contenere anche da lontano il suo vice leghista in Italia. 

Ripreso da http://www.startmag.it  

Se l’accusa a Salvini rinunciasse al ricorso in appello contro l’assoluzione

Da Libero

Non lo sto scrivendo io, ma lo ha scritto ieri sulla Stampa l’ex capo della Procura della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati. Lo ha scritto commentando l’assoluzione di Matteo Salvini a Palermo, ma un po’ anche quella dell’altro Matteo -Renzi- a Firenze. “Il processo è una pena, ma la lentezza è una pena doppia”.

         Lenti, lentissimi sono stati il processo a Salvini per il sequestro di 147 migranti, contestatogli dall’accusa per essere stati trattenuti più di cinque anni fa per una ventina di giorni sulla nave spagnola Open arms, e l’udienza preliminare -ripeto: l’udienza preliminare, senza neppure il rinvio al giudizio- a carico di Matteo Renzi e amici accusati di avere praticato con la fondazione Open il finanziamento illegale della loro corrente, praticamente travestita da partito. O viceversa, come preferite.

Edmondo Bruti Liberati

         Il processo a Salvini, dopo l’inchiesta e l’autorizzazione del Senato concessa per la disinvolta decisione del MoVimento 5 Stelle di ritirare all’ex ministro dell’Interno la copertura concessagli invece per un’analoga vicenda precedente del pattugliatore italiano Diciotti, è durato “oltre tre anni con sole 24 udienze”, ha osservato Bruti Liberati. L’udienza preliminare contro Renzi e amici è durata oltre due anni e non ricordo bene quante udienze. Un’enormità, in entrambi i casi, che Renzi e Salvini, stavolta in ordine alfabetico, hanno subìto con una pena personale, familiare, mediatica e politica sopravvissuta al loro proscioglimento e assoluzione, rispettivamente.

         Questo in un sistema giudiziario impostato semplicemente sulla logica e sull’umanità, da non confondere con il lassismo, dovrebbe bastare e avanzare per indurre l’accusa a rinunciare a prolungare la pena dei prosciolti o assolti ricorrendo all’appello e poi, magari, anche alla Cassazione. E dovrebbe ridurre l’arroccamento giustizialista attorno alla barriera levata a suo tempo dalla Corte Costituzionale bocciando un tentativo di limitare il ricorso contro le assoluzioni. Neppure la Consulta, purtroppo, nell’ondata termidoriana della giustizia e della politica prodotta dal clima, a dir poco, delle “Mani pulite” di una trentina d’anni fa è riuscita a impermeabilizzarsi, Ne è stata travolta anch’essa.

Matteo Renzi

         Ora il rischio che corrono non solo Renzi, i suoi amici e Salvini, sempre in ordine rigorosamente alfabetico, ma l’intero Paese, con la maiuscola, è che la pena doppia dei tempi lunghi -come l’ha chiamata Bruti Liberati- venga metaforicamente triplicata e ancor più indicando nel proscioglimento del primo e nell’assoluzione del secondo la prova che il sistema giudiziario funzioni com’è. E non serva perciò alcuna riforma:  dalla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri al contrasto della degenerazione delle correnti della magistratura, e delle  ricadute sulla composizione e sul funzionamento dell’omonimo Consiglio Superiore.

Dal Messaggero

         Se questo fosse o dovesse rivelarsi l’esito o il risvolto delle sconfitte subite dall’accusa in questa piacevole sorpresa trovata con qualche giorno di anticipo dai garantisti sotto l’albero di Natale, sarebbe una tragica beffa. Una specie di eterogenesi dei fini. Un omaggio non alla giustizia ma a chi la usa, anzi ne abusa in politica. Una smentita della speranza accesasi in qualche titolo di giornale -non di più- sulla fine della “via giudiziaria” alla lotta politica per fare nei tribunali ciò che non riesce nelle urne, o in Parlamento. +

Ah, se l’accusa si passasse una volta tanto la mano sulla coscienza decidendo di lanciare finalmente un segnale di spontanea, volontaria distensione, chiamiamola così, dopo una così lunga stagione di avvelenamento dei pozzi della giustizia e dei suoi rapporti con la politica.

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