Putin si incatena alle sue provocazioni nella guerra all’Ucraina

Zelensky a Bruxelles

         Sfrontato nelle sue provocazioni, Putin, diversamente dai titoli dei giornali italiani, si è dichiarato disposto a trattare la pace in Ucraina anche con l’odiato presidente Zelensky. Che lui  si era proposto di fare uccidere o comunque deporre con la cosiddetta operazione speciale disposta nel 2022 non mettendo nel conto né la resistenza degli ucraini né gli aiuti degli occidentali. Ma Zelensky per trattare con Mosca dovrebbe avere una legittimazione di cui sarebbe sprovvisto per la scadenza del mandato, al cui rinnovo non si può procedere per le elezioni impedite dalla legge marziale provocata dalla guerra cominciata proprio da Putin. Che così si morde la coda come un cane. O si incatena alle sue stesse provocazioni.      

         Basterebbe che il capo del Cremlino ordinasse la cessazione del fuoco e facesse tornare la normalità nell’Ucraina da lui devastata per consentire a Zelensky di far cessare il fuoco anche lui, con tutte le dovute garanzie internazionali, e restituire alla popolazione anche la normalità delle elezioni.

Putin e Berlusconi d’archivio

         O no? Che ne direbbe Donald Trump prima o dopo essersi insediato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato? Ma soprattutto che cosa direbbero gli italiani, intesi come cittadini e come collettività, sulle cui simpatie Putin ha detto di contare ancora, pur dopo la morte di Silvio Berlusconi da lui evocato -gli va riconosciuto- non a torto perché in effetti il suo amico non nascose una certa comprensione per la già ricordata “operazione speciale” russa in Ucraina. Ed era stato a suo tempo fra i primi ad occorrere in Crimea per festeggiarne la conquista, o riconquista, da parte di Putin.

Meloni a Bruxelles

         L’erede politico di Berlusconi nella sua Forza Italia è notoriamente il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che coerentemente con la buonanima non si lascia scappare occasione per precisare che, pur partecipando al fronte occidentale di sostegno politico, finanziario e militare all’Ucraina, “non si sente in guerra” contro la Russia. Come non si sente neppure l’altro vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, leader della Lega. Ma l’erede politico di Berlusconi a Palazzo Chigi, alla guida della coalizione di centrodestra, è Giorgia Meloni. Che sulla questione ucraina ha sensibilità e posizioni, credo, meno o per niente apprezzate da Putin. E da quanti in Italia, tra le opposizioni, accusano -come Giuseppe Conte e la sinistra radicale- il Pd della Schlein di condividere e praticare la durezza della Meloni nel sostegno a Zelensky, al pari della durezza del Pd di Enrico Letta.

         E’ una matassa, come si vede, alquanto aggrovigliata, anche sotto il profilo politico interno in Italia. Ma di un groviglio sempre minore di quello in cui si è messo Putin contestando le credenziali di Zelensky per una trattativa di pace. E non arrossendo di vergogna, o quanto meno di imbarazzo.

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Scholz vittima in Germania anche dell’eredità della Merkel

Da Libero

Scusatemi la franchezza, come al solito, ma della caduta del socialdemocratico Olaf Scholz in Germania, sfiduciato come cancelliere e rimasto in carica per gestire le elezioni anticipate di febbraio, non mi stupisce l’epilogo in soli tre anni. Mi stupisce che sia durato tanto. Così come mi stupisce ancora che fosse durata più di cinque volte -ben 16 anni- prima di lui la popolare Angela Merkel.  Popolare intesa come appartenente all’omonimo partito della famiglia europea democristiana. Ma sulla Merkel tornerò dopo. Lasciatemi continuare a scrivere di Scholz.

Merkel e Scholz

         Per quanto risulti dalla sua biografia un avvocato specializzato in diritto del lavoro, Scholz mi è sempre apparso più un funzionario di partito che altro. Il solo paragonarlo a predecessori della sua parte politica come Gerhard Schroeder e Willy Brandt mi sembra un esercizio acrobatico senza alcuna rete di sicurezza. La sua partecipazione, da socialista, alla demonizzazione del debito, che in Germania si chiama e viene percepito come il peccato, poteva e doveva bastare per capire la fine che lo aspettava. Ora, con la crisi nella quale è sprofondato il suo paese, che cosa farà mai il cancelliere uscente del vanto di avere un debito pubblico pari solo al 60 per cento rispetto al cosiddetto prodotto interno lordo, meno della metà del nostro? Di questo nostro tanto vituperato paese che secondo le previsioni formulate dalla sinistra con la Meloni a Palazzo Chigi avrebbe dovuto fallire. E invece quanto meno galleggia, come ha riduttivamente certificato di recente un avarissimo, quasi oppositorio Censis guidato da Giorgio De Rita, figlio del mitico Giuseppe.

Il giuramento di Scholz

         La circostanza attenuante che Scholz merita nel giudizio negativo accumulato fra sfiducia elettorale e sfiducia parlamentare è quella di avere raccolto l’eredità della Merkel, ritiratasi in tempo per non raccogliere lei i frutti lasciati appunto al successore. E per scrivere con calma, lautamente compensata, memorie tanto voluminose quanto generose verso se stessa. Generose e forse anche un po’ reticenti: per esempio, nella parte, enfatizzata nelle rappresentazioni per la stampa e per il pubblico italiano,, in cui la ex cancelliera nega di avere avuto un ruolo nel 2011 nella sostanziale e rassegnata deposizione di Silvio Berlusconi. Che scoprì e denunciò solo dopo qualche tempo di essere stato rimosso da Palazzo Chigi con un colpo di Stato internazionale, inutilmente contrastato oltre Atlantico dal Segretario di Stato americano al Tesoro.

Merkel e Giuseppe Conte

         Nel mio piccolo, anzi piccolissimo, prima ancora che scoppiasse quell’ondata di immigrazione da lei consentita in Germania innaffiando il terreno su cui sarebbe poi cresciuta elettoralmente  l’estrema destra tedesca, cominciai a dubitare della Merkel statista proiettata metaforicamente su tutti gli schermi cinematografici e televisivi, quando la vidi ripresa in un bar assorta a sentirsi raccontare e spiegare la politica italiana dal premier di turno spuntato come un fungo dai volgari comizi di Beppe Grillo. Alludo naturalmente a Giuseppe Conte, che raccontava alla Merkel come fosse bravo a vivere da equilibrista politico a Palazzo Chigi. Dove arrivò con una maggioranza e riuscì a rimanere con un’altra di segno opposto grazie anche al panico sopraggiunto all’esplosione della pandemia da Covid pure  in Italia.

Trump e Conte alla Casa Bianca

         Va detto, con onestà, che non fu solo la Merkel a farsi incantare, o a fingersi incantata, dai racconti politici di Conte fra un cappuccino e una birra. Ci cascò anche nella sua prima esperienza alla Casa Bianca Donald Trump, che gli raddoppiò il nome dandogli e scrivendogli del Giuseppi, al plurale. E ricevendone, una volta tanto in politica, una riconoscenza ben oltre il solo, mitico giorno della vigilia assegnatole con la consueta ironia dalla buonanima di Giulio Andreotti. Stavolta però quel plurale Trump a Conte glielo risparmierebbe, con o senza il consiglio di Elon Musk, amico e ammiratore piuttosto di Giorgia Meloni.  

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