Meloni-Trump e Schlein-Renzi nelle due foto emblematiche dell’anno in uscita

         Più che fatti, vorrei proporvi due foto per rappresentare la politica italiana dell’anno che se ne va con affaccio su quello che arriva. La prima, e più recente, o meno distante, è quella dell’incontro a Parigi, il 9 dicembre scorso, tra Donald Trump, reduce dalle elezioni presidenziali americane vinte con nettezza, e la premier Giorgia Meloni. La seconda, memo recente, è quella dell’abbraccio, sul campo di una partita di calcio amichevole e di beneficenza giocata tra politici e cantanti il 17 luglio scorso, fra la segretaria del Pd Elly Schlein e Matteo Renzi. Che le aveva appena passato la palla per una rete però nulla, tirata in fuori gioco contro la porta. Cosa, quella, che avrebbe già dovuto indurre ad una certa prudenza nell’immaginazione degli effetti.

         La foto di Trump con la Meloni è indicativa del ruolo di interlocutore privilegiato del nuovo presidente americano che la Meloni ha garantito e garantisce al governo italiano nell’Europa contrassegnata dalle crisi del presidente francese Emmanuel Macron e del cancelliere tedesco uscente Olaf Scholz, destinato a lasciare il campo dopo le elezioni anticipate già fissate in Germania per febbraio.

         Il legame anche di empatia personale fra Trump e Meloni, propiziato anche dai rapporti ugualmente empatici, e precedenti all’elezione del presidente americano, fra la stessa Meloni ed Elon Musk, è stato già messo alla prova dal regime iraniano con la vicenda della giornalista italiana Cecilia Sala. Che è sotto sequestro e detenzione, al tempo stesso, in Iran per cercare di scambiarla, praticamente, con un iraniano appena arrestato in Italia, su ordine di cattura internazionale, e rappresentato eufemisticamente anche dalle nostre cronache giudiziarie e politiche come un ingegnere “esperto” di droni, così abbondantemente usati nelle guerre alle quali il regime degli ayatollah partecipa a suo modo.

         Questo ingegnere “esperto” di droni dovrebbe essere salvato, nei propositi iraniani, dall’estradizione negli Stati Uniti, che lo vorrebbero processare con altri, per potere poi tornare libero alle sue specialità tecniche, commerciali e quant’altro. Alla Meloni si è praticamente chiesto, dietro tutte le ipocrisie delle quali è capace anche la libera informazione italiana, di fare ingoiare a Trump il rospo di una mancata estradizione per ordine consentito al ministro della Giustizia Carlo Nordio.

         Quella di Matteo Renzi -passando all’altra foto dell’anno- è una mezza estradizione, per niente sgradita e perseguita però dall’interessato per passare dall’ormai fallito campo del terzo polo a quello di cosiddetto centrosinistra alternativo al centrodestra. Dove la Schlein lo vorrebbe ma Giuseppe Conte e la sinistra radicale di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni no. E da questo conflitto aperto a sinistra l’una a guadagnarne è naturalmente la Meloni. Che può fare spallucce all’araba fenice dell’alternativa per questa legislatura, ma forse anche dopo.  

Le reticenze non dovute al regime iraniano sul sequestro di Cecilia Sala

Dal Dubbio

Francesco Merlo, collegato con lo studio televisivo di Marianna Aprile e Luca Telese, de la 7, deveavere pensato a Eugenio Scalfari quando ha ribadito i dubbi appena espressi su Repubblica sulla sostanziale copertura che il giornalismo italiano sta dando alla vicenda della giovane collega Cecilia Sala. Che il regime iraniano ha odiosamente sequestrato, incarcerandola, per strappare al governo italiano -diciamolo senza infingimenti- il rifiuto all’estradizione chiesta dagli Stati Uniti per un ingegnere arrestato a Malpensa, di doppia nazionalità, iraniana e svizzera. Un ingegnere “esperto”, eufemisticamente, in droni usati nelle guerre in corso cui partecipa a suo modo, direttamente e indirettamente, l’Iran degli ayatollah. 

         Se il mio amico Francesco Merlo ha pensato a Scalfari parlando genericamente degli scomparsi maestri della nostra professione presumibilmente in sofferenza dove potrebbero seguirci, io ho pensato a Indro Montanelli e agli anni trascorsi insieme al Giornale. Quando, per esempio, il terrorismo contava anche sull’informazione per portare avanti le sue scellerate campagne. Ci ho pensato e mi son detto che sì, anche lui, Montanelli, non se ne sarebbe stato zitto di fronte a quella forma di complicità, aiuto, distrazione che è stata chiesta e concessa di fronte ai guai nei quali Cecilia Sala -sia chiaro- non si è messa ma è stata messa dal regime iraniano che ha deciso così indecentemente di usarla per cercare di non privarsi di qualcuno un po’ più consistente di un esperto in droni e simili. E in ciò a cui servono.

         Ecco, è proprio in questa rappresentazione riduttiva di quell’uomo, e di ciò che gli sta dietro e intorno, in un orribile intreccio internazionale, in difesa del quale il regime iraniano si è mobilitato usando come ostaggio una giornalista colpevole solo della professione che esercita, e delle circostanze del tutto casuali che l’hanno voluta in quei giorni in Iran piuttosto che altrove, che io trovo personalmente non condivisibile il comportamento scelto da noi, suoi colleghi, in Italia nella presunzione di proteggerla di più e meglio. E non mi si venga a invocare per favore, il garantismo per giustificare la pretesa del regime iraniano di considerare quell’ingegnere, appunto, solo e non più di un esperto in droni e simili.

         Il garantismo è quello che pratichiamo ogni giorno qui, sul Dubbio, raccontando e commentando ciò che accade, non quello che vorrebbe imporre all’Italia e al suo governo, e non solo al giornalismo italiano, il regime iraniano.

Pubblicato sul Dubbio

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Qualche impresa impossibile nel pur festoso contesto di fine anno

         Voglio dedicare questo penultimo giorno dell’anno a qualche impresa impossibile, almeno nel contesto in cui si muovono gli interessati. E comincio dal più alto in grado sul piano istituzionale, che è il Capo dello Stato.

Cecilia Sala

         Sergio Mattarella è alle prese col consueto messaggio di Capodanno a reti unificate cercando parole, concetti e quant’altro nuovi o diversi da quelli che ha trattato nei giorni e nelle scorse settimane incontrando autorità, diplomatici, giornalisti parlamentari e via via scorrendo l’elenco dei suoi ospiti al Quirinale. Certo, la cosiddetta attualità qualcosa gli ha lasciato a disposizione, come la clamorosa provocazione del regime iraniano di arrestare una giornalista italiana, Cecilia Sala, per poterla scambiare con un iraniano di cittadinanza anche svizzera, trafficante di droni e simili nelle guerre in cui l’Iran è impegnato direttamente e non. Costui è stato legittimamente arrestato in Italia su mandato di cattura internazionale degli americani, che ne attendono l’estradizione.

Francesco Merlo

         Vedremo se e come il capo dello Stato vorrà o potrà esporsi su questo fronte, che è costato ieri sera in televisione, in onda su la 7, una imbarazzata e imbarazzante esperienza al collega Francesco Merlo. Coraggiosamente invitato a spiegare le perplessità espresse sulla sua Repubblica sul contributo che il giornalismo ha voluto dare alla politica nell’azione fiancheggiatrice di questa sfida iraniana, ma trovatosi solo fra gli ospiti e i due conduttori della trasmissione. Che ad un certo punto non vedevano l’ora di ringraziarlo e scollegarlo dallo studio.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa

         Ma torniamo, o continuiamo nel nostro ragionamento risalendo all’inizio e passando dal presidente della Repubblica al presidente del Senato Ignazio La Russa. Il quale all’indomani del “camerata” e del sordo ricevuto in aula da Matteo Renzi ha cercato, in una intervista al Corriere della Sera, di declassarsi addirittura a “vigile urbano” del traffico interno a Palazzo Madama per spiegare come e perché si sia contenuto nella seduta, peraltro in diretta televisiva. E non si è detto per niente offeso, salvando quel poco che resta dei suoi rapporti con Renzi, senza i quali, perdurando allora una certa diffidenza o resistenza di Silvio Berlusconi, documentata anche da immagini d’aula, La Russa non sarebbe riuscito ad essere eletto alla presidenza del Senato, almeno così presto in apertura della legislatura partorita dalle elezioni vinte nel 2022 dal centrodestra.

Dalla Stampa

         Renzi, dal canto suo, pago di uno scontro cercato anche per accreditarsi nel campo dell’alternativa al centrodestra dove ha deciso di collocarsi, e di restare nonostante l’ostilità di Angelo Bonelli, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, in ordine rigorosamente alfabetico, ha affidato alla Stampa il suo ultimo -ma sarebbe il caso di chiamare penultimo- progetto. Che è di “ricreare il Centro”, a sinistra, senza tuttavia guidarlo, visto che non riesce ad andare d’accordo con nessuno. Vasto programma, diceva la buonanima di Charles De Gaulle.

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Tempo di concerti, e di stecche, di fine anno pur tra le guerre…

Dal Corriere della Sera

         In tempi -non dimentichiamolo- di concerti di fine anno, programmati ed eseguiti ad ogni livello nonostante il ferro e il fuoco delle guerre che continuano, persino aumentando di ferocia, ci possono anche stare le stecche. Come quelle che hanno offerto alle cronache i due Mattei della politica italiana che sono Renzi e Salvini, questa volta in ordine non solo alfabetico.  

Ignazio La Russa

         Renzi nell’aula del Senato ha colto l’occasione del solito, rapido esame del bilancio dello Stato in un sistema che già lui da Palazzo Chigi avrebbe voluto rendere monocamerale a Costituzione modificata, e che i successori avrebbero introdotto di soppiatto, a Costituzione invariata; Renzi, dicevo, ha colto l’occasione del suo intervento per dare del “camerata” al presiedente dell’assemblea Ignazio La Russa. Che aveva osato interromperlo in diretta televisiva. Del camerata e anche del sordo per non avere avvertito i “rumori” che dai banchi della maggioranza disturbavano le critiche di Renzi al governo e alla manovra finanziaria, contenente anche un intervento contro i suoi guadagni di conferenziere e altro all’estero.

         Ai battibecchi d’aula sono seguiti quelli fuori d’aula, comprensivi di un comunicato del presidente destinato ad archiviare davvero la pagina di quasi complicità fra lo stesso Renzi e La Russa con la quale si era aperta nel 2022 la legislatura in corso. Quando il secondo, come sanno ormai anche le pietre a Palazzo Madama, fu eletto alla Presidenza del Senato, seconda carica dello Stato, fra le resistenze di Silvio Berlusconi con l’appoggio dei renziani coperti dal voto segreto.

         Ora, nelle vesti ormai scelte e vantate in pubblico di partecipe di una pur improbabile alternativa al centrodestra, viste le divisioni che permangono fra le opposizioni, Renzi può anche inserire lo scontro con la Russa nelle prove a favore della sua nuova collocazione politica. Ma chissà se basterà a sopire la vigilanza che continua ad esercitare contro di lui, ancora sotto le insegne delle cinque stelle, quel Giuseppe Conte che non gli ha mai perdonato di avergli fatto perdere Palazzo Chigi per spingervi Mario Draghi.

Matteo Salvini

         La stecca di Salvini, l’altro Matteo, è consistita invece in un’altra delle sue dichiarazioni da ministro delle Infrastrutture che è tornata ad alimentare cronache e retroscena del suo rimpianto del Viminale. Che sembra cresciuto da quando egli ha visto nell’assoluzione con formula piena, appena avuta a Palermo dall’accusa giudiziaria di avere sequestrato come ministro dell’Interno, più di cinque anni fa, quasi 150 migranti clandestini ritardandone lo sbarco dalla nave spagnola che li aveva soccorsi col proposito di portarli in Italia, e in nessun altro paese bagnato dalle acque del Mediterraneo. “Ne parlerò con Giorgia”, è tornato a dire Salvini pensando al Viminale e riferendosi alla Meloni. Che però sembra avere ben altro per la testa, forse non a torto perché non siamo solo in tempi di concerti e di stecche.

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Tanta fatica per così poco, in fondo, nel sondaggio di fine anno

Cecilia Sala,la giornalista italiana arrestata in Iran

         Tra aperture di porte sante, segnali putiniani da Sibilla Cumana sulla guerra in Ucraina, il misterioso, forse ricattatorio  arresto della giornalista italiana Cecilia Sala in Iran, l’ormai abitudinaria scoperta di fine anno  del monocameralismo,  bocciato referendariamente nel 2016 ma impostosi di fatto  col bilancio approvato da una Camera e ratificato in pochi giorni  dall’altra a suon di voti di fiducia, i soliti retroscena delle altrettanto solite scalate sul vuoto, come quella  di ritorno al Viminale attribuita a Matteo Salvini assolto dall’accusa di aver fatto male il ministro dell’Interno nel 2019, addirittura sequestrando immigrati clandestini;  tra tutto questo, dicevo, era naturale che passasse quasi inosservato l’ultimo sondaggio del 2024. Che è stato chiuso il 20 dicembre dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli, steso su due intere pagine del Corriere della Sera del 27 dicembre, alla riapertura delle edicole dopo la pausa natalizia di 48 ore, e richiamato con una certa enfasi in prima.

Dal Corriere della Sera di ieri

         I numeri, cioè i risultati, giustificano la sproporzione fra lo spazio ad essi dedicato dal principale giornale e le scarse reazioni, a dir poco, raccolte.  Sì, rispetto alle elezioni politiche del 2022 il partito di destra di Giorgia Meloni è rimasto in testa alla classifica generale, prima salendo dal 26 al 28,8 per cento delle elezioni europee di giugno scorso e poi scendendo al 27,6 delle intenzioni di voto del 20 dicembre. E’ sempre un punto e mezzo abbondante in più, d’accordo, in poco di due anni ma solo questo.

Elly Schlein

         Il Pd dell’antagonista della Meloni, Elly Schlein, è salito dal 19,1 al 22,5, cioè di tre punti e mezzo scarsi, ma a giugno scorso nelle elezioni europee era salito al 24,1. Dove non è riuscito quindi a restare, anche se in alcune regioni ha vissuto l’ebbrezza autunnale del 30 e 40 e più per cento.

Giuseppe Conte e la sua Olivia

         Più contento del Pd della Schlein potrebbe sentirsi, nonostante i funerali celebrati dal suo fondatore e ormai ex garante Beppe Grillo, il movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Che, sceso dal 15,4 delle elezioni politiche del 2022 al quasi 10 per cento delle europee di giugno scorso, è risalito al 13,3 del 20 dicembre: una cifra da capogiro rispetto al 4,6 della Liguria e al 3,5 dell’Emilia Romagna. Se ha davvero tirato un sospiro di sollievo mangiandosi il panettone, e consolato anche la compagna Olivia per i debiti dell’albergo di famiglia, Conte qualche motivo lo ha pur avuto. Anche se non deve allargarsi troppo e pensare, magari, di sorpassare la Schlein nella inesorabilmente improbabile corsa a Palazzo Chigi, almeno in questa legislatura.

Matteo Salvini e Antonio Tajani

         Che dire poi, in particolare nel centrodestra stavolta, della tanta fatica compiuta per niente, nel tentativo di sorpassarsi a vicenda, dalla Lega di Matteo Salvini e dalla Forza Italia di Antonio Tajani?  La prima è scesa dall’8,8 all’8,6 per cento. La seconda è rimasta ferma all’8,1 dopo avere sognato per il 9,6 raccolto col partitino di Marcello Lupi nelle europee di giugno.

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La sospetta smania di pace di Putin nell’Ucraina da lui messa a ferro e a fuoco

Dal Corriere della Sera

         Spero che sul pessimismo della ragione avvertito o praticato dal mio amico Paolo Mieli prevedendo oggi sul Corriere della Sera il sostanziale crollo dell’Ucraina, fra la “distrazione” dell’Europa, nella guerra che da quasi tre anni conduce Putin, ora deciso a “chiuderla” piuttosto che “congelarla”, venga smentito dall’ottimismo non dico della ragione, gramscianamente, ma della casualità.

Da Repubblica

         Sarebbe uno spettacolo ben triste, peggiore di un incubo, quello di un’Europa che il giornalista inglese Bill Emmott, già direttore del mitico Economist, immagina persino tentata dall’idea di spingere il presidente ucraino Zelensky a dimettersi, a godersi finalmente una “meritata” vacanza, per rimuovere l’ostacolo alle trattative con Putin costituito appunto da una sua partecipazione. L’’uomo del Cremlino        si era proposto di rimuoverlo e persino ammazzarlo in una quindicina di giorni di cosiddetta “operazione speciale”, nel febbraio del 2022. Adesso  si accontenta, diciamo così, di contestarne la legittimità per la scadenza di un mandato che non ha potuto rinnovare con libere elezioni  nella sua terra messa a ferro e fuoco proprio da Putin.

Il premier slovacco Fico con Putin

         Un incubo, dicevo. Osceno, aggiungerei, anche nella scelta che Putin ha fatto del terreno in cui dovrebbe svolgersi la trattativa, cioè la resa, dell’Ucraina.  A Bratislava, Capitale della Slovacchia preferita nelle stanze del Cremlino, fra gli Stati membri dell’Unione Europea, all’Ungheria di Viktor Orban, pur tanto espostosi in questi anni a favore di Putin.

         Il presidente slovacco Robert Fico, da non confondere col quasi omonimo italiano a 5 Stelle aspirante più modestamente alla presidenza della regione Campania, è appena corso a Mosca per lasciarsi preferire dal despota.

Giorgia Meloni

         Fra gli elementi dell’ottimismo che ho chiamato “delle casualità” per contrapporle -ripeto- al pessimismo della ragione di Paolo Mieli, mi piacerebbe mettere o vedere bene in evidenza la premiership italiana di Giorgia Meloni. Così diversa da quelle alquanto ammaccate e disattente sempre -per ripetere un termine di Paolo Mieli- del francese Emmanuel Macron e del tedesco Olaf Scholz. Sarebbe bello che Putin inciampasse, appunto, nel passo della Meloni. Ancora più bello se vi inciampasse anche Donald Trump, oltre Atlantico. Mai dire mai in politica. Ma forse non solo in politica.

Solo 2 in 78 anni e mezzo di Repubblica le crisi di governo in tempi natalizi

Oscar Luigi Scalfaro

         Trent’anni fa la Repubblica visse la sua prima crisi natalizia di governo. Silvio Berlusconi aveva dovuto dimettersi il 22 dicembre, dopo soli sette mesi mal tollerati dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, così attivo nei tentativi di liberarsene da parlarne anche con il cardinale Camillo Ruini. Il cui dissenso forse non lo sorprese, ma di certo non lo dissuase dal perseguimento della crisi, sino a garantire all’insofferente Umberto Bossi che non avrebbe corso il rischio delle elezioni anticipate se avesse rotto l’alleanza di centrodestra che aveva vinto le elezioni del 1994.

Lamberto Dini

         E infatti, una volta aperta la crisi, dopo tre settimane Scalfaro l’avrebbe chiusa con la formazione del governo di Lamberto Dini, ministro del Tesoro con Berlusconi.  Le elezioni arrivarono non dopo qualche mese, come lo stesso Berlusconi accusò poi il Capo dello Stato di avergli promesso, ma il 21 aprile del 1996. Dopo che  l’opposizione al centrodestra si era organizzata in una coalizione di cosiddetto centrosinistra federata all’insegna grafica dell’Ulivo da un Romano Prodi incoronato, diciamo così, in una manifestazione politica da Massimo D’Alema. E approdato a Palazzo Chigi il 15 maggio scommettendo di durare sino al 2001, cioè per tutta la durata della legislatura. Ma cadde già il 9 ottobre 1998. Gli successero, prima delle elezioni ordinarie, lo stesso D’Alema in due edizioni di governo e un Giuliano Amato in versione politica assai diversa dal 1992, quando era stato designato a Palazzo Chigi da un Bettino Craxi ancora operativo. Cui lo stesso Scalfaro aveva negato la nomina attenendosene il coinvolgimento, dopo un incontro col capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, nelle indagini chiamate “Mani pulite” sul finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e quant’altro.

Mario Monti e Silvio Berlusconi

         La seconda e ultima crisi di governo in tempi natalizi sarebbe arrivata solo il 21 dicembre 2012 con le dimissioni del governo tecnico di Mario Monti, preludio alle elezioni cui avrebbe partecipato a sorpresa lo stesso Monti, per quanto nominato senatore a vita già prima di diventare presidente del Consiglio, con liste di centro moderato risultate utili solo a impedire una vittoria di Berlusconi, mancata per pochi voti, e una sua realistica scalata al Quirinale.

         Chi pensa -con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi nelle condizioni eccezionali di stabilità riconosciutele a livello anche internazionale, e in quelle assai precarie delle opposizioni a campo variabile- ad un’altra crisi fra luci e lucette dell’albero di Natale prima dell’esaurimento ordinario della legislatura in corso sogna chiaramente ad occhi aperti.   

Il Viminale conteso e appeso fra le palle dell’albero di Natale

         I due giorni di assenza natalizia dei giornali dalle edicole, sempre più ridotte di numero ma anche sempre meno disponibili ai calendari e ai sacrifici di una volta, quando i quotidiani raggiungevano i loro lettori puntuali quasi come l’alba o il tramonto, hanno fortunatamente interrotto la curiosa corrida attribuita a Matteo Salvini. Rappresentato come smanioso di tornare al Viminale  dopo la sua assoluzione con formula piena in primo grado -spero senza ricorso- dal’accusa di avere addirittura sequestrato come ministro dell’Interno più di cinque anni fa 147 migranti clandestini, facendoli trattenere a bordo della nave spagnola che li aveva soccorsi in mare per scaricarli solo sulle coste italiane.  

Giorgia Meloni

         Questa smania di Salvini, con tutte le reazioni negative attribuite alla premier Giorgia Meloni persino con parole virgolettata nelle solite cronache più meno retrosceniste, e insinuazioni anche sul Quirinale ancora più contrario di Palazzo Chigi, è stata più una montatura che una notizia. Più palle appese all’albero di Natale che una rappresentazione di fatti reali.

Matteo Salvini e Matteo, anche lui, Piantedosi

Non di sua iniziativa, ma sempre in risposta a qualche giornalista più malintenzionato che curioso, Salvini aveva solo detto dopo l’assoluzione a Palermo che il Ministero dell’Interno gli “era rimasto nel cuore”. E aggiunto che “se un domani la sorte mi riportasse al Viminale”, dove fa il ministro quello che gli era stato il Capo di Gabinetto, tuttora in eccellenti rapporti con lui, “sarei una persona felice, ma sono contento di quel sta facendo Piantedosi”. Peraltro Matteo come lui. Col quale ha firmato festosamente, tra fotografi e telecamere da spreco, una convenzione per la sicurezza delle stazioni e simili.

Il Viminale

         Nel proporre e condurre una polemica o un caso di panna montata -come una volta Eugenio Scalfari defini “l’avvocato” Gianni Agnelli che aveva osato dissentire da un suo consiglio- sono stati scomodati anche gli archivi dei giornali, compreso quello del Corriere della Sera. Sulle cui pagine ho visto ristampata, quasi come la prova diabolica della rivalsa perseguita dall’interessato, la foto del giuramento di Matteo Salvini al Quirinale, il 1° giugno del 2018, da vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, appunto, del primo governo di Giuseppe Conte. Uno scoop differito, chiamiamolo così, per non dire di peggio, come meriterebbe questa pratica, più che professione, giornalistica.

L’apertura della Porta Santa

         Lasciatemi esprimere l’auspicio che dopodomani i giornali, privilegiando le immagini e contorni della Porta Santa aperta dal Papa, non torneranno nelle edicole continuando a raccontarci questa frottola del Viminale rivendicato da Salvini e negatogli da una Meloni infastidita. Che gli ha concesso già troppo assecondandone il progetto, perseguito come ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, del ponte sullo stretto di Messina. Un ponte che gli avversari vorrebbero crollasse già in costruzione, magari solo per limitarne i danni. Purtroppo l’opposizione, al singolare, è anche questo.

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L’ultima stoccata di Luciano Violante ai magistrati “combattenti”

Dal Dubbio

Con la solita, generosa e inconsapevole copertura del compianto Giulio Andreotti, convinto che a pensare male si facesse peccato già ai suoi tempi ma s’indovinasse, non vedo solo stanchezza per il suo “impegno intensissimo, seppure molto gratificante” nella decisione annunciata da Giuseppe Santalucia di rinunciare a proporsi per un secondo mandato quadriennale alla presidenza dell’associazione nazionale dei magistrati. Ora che si è praticamente esaurito il primo, e non credo proprio che gli sarebbe mancato e gli mancherebbe l’appoggio per un secondo. Che sarebbe tuttavia per lui ancora più intenso, ma non so francamente anche se più gratificante dell’altro, con la sfida che il sindacato delle toghe, in una recente assemblea a Roma, ha lanciato al governo nella prospettiva di scioperi e referendum abrogativi contro la riforma della giustizia intestatasi dal guardasigilli Carlo Nordio.

         Le cose sono cambiate di parecchio non solo e non tanto rispetto all’inizio del primo mandato di Santalucia, ma rispetto a una trentina d’anni fa, quando i rapporti fra politica e giustizia si ribaltarono con le piazze che sognavano e reclamavano sempre più arresti eccellenti, di giorno e di notte, nella lotta alla pratica diffusa del finanziamento illegale dei partiti.

La più recente assemblea dei magistrati nella sede della Cassazione

Si sono avvicendate persino più edizioni della Repubblica: quella vera, con sede al Quirinale, non quella di carta. E le assoluzioni sono diventate più numerose, frequenti e clamorose. Come quelle appena raccolte dai due Mattei della politica in corso: Salvini dopo essere stato processato per sequestro di persona, addirittura, avendo ritardato cinque anni fa lo sbarco di 147 migranti clandestini da una nave spagnola che li aveva soccorsi in mare e non voleva lasciarli in altri porti che non fossero italiani, e Renzi dopo essere stato neppure processato ma pre-processato, in una udienza  appunto preliminare durata più di due anni, per i finanziamenti pur registrati alla sua corrente.

         L’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, già esperto della giustizia del Pci che una trentina d’anni fa era il più schierato con la magistratura inneggiata sulle piazze, già presidente della Camera, incorso negli anatemi dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, ha appena avvertito i suoi ex colleghi in una intervista alla Verità che debbono decidersi a cambiare registro. D’altronde, senza arrivare ai giorni nostri, già qualche anno dopo le famose “Mani pulite” di rito ambrosiano Violante aveva avvertito che prima o poi qualcuno sarebbe “intervenuto” a riequilibrare i rapporti fra giustizia e politica.

         Pur nel dissenso, anche lui, dalla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri e dal sorteggio per la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, Violante ha detto che le toghe “non possono essere controparte di nessuno, tanto meno del governo”. E ancor meno “organizzare un referendum” superando ulteriormente da “combattenti” quel “senso della misura” necessario a “tutti”.

Pubblicato sul Dubbio

La guerra italiana dei trent’anni fra magistratura e politica

Da Libero

Fra la rinuncia di Giuseppe Santalucia alla presidenza dell’associazione nazionale dei magistrati che si appresta -guarda caso- ad una offensiva di scioperi e referendum contro la riforma del giustizia,          le assoluzioni eccellenti sempre più numerose e frequenti e un’intervista dell’insospettabile Luciano Violante alla Verità contro i suoi ex colleghi “combattenti”, ormai senza più “senso della misura”, mi sono sentito ributtato indietro di una trentina d’anni. A quando tutto cominciò. Come se si stesse chiudendo un cerchio. E sapete qual è il volto che di più mi è tornato  e mi torna alla mente? Quello di Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici e persino Ninì per quell’amico speciale che gli fu per qualche tempo il sindaco di Milano Paolo Pillitteri, recentemente scomparso.

         Sono tornato indietro ai giorni in cui l’allora sostituto procuratore della Repubblica s’impose alla mia attenzione di direttore del Giorno per quel cartello appeso, anzi ostentato alla porta del suo ufficio milanese in tribunale per dissociarsi dalle proteste dei colleghi, invece associati al loro sindacato, che protestavano contro il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Al quale credo che sarebbe piaciuta la riforma della giustizia all’esame ora del Parlamento, comprensiva di quella separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici di recente condivisa pubblicamente anche da Di Pietro. Che da anni, si sa, non è più magistrato e neppure politico, come decise di diventare fra le perplessità neppure tanto nascoste del suo ormai ex superiore Francesco Saverio Borrelli.

         Di Pietro si trova, sia pure da ex, nei riguardi dell’associazione nazionale dei magistrati presieduta dall’uscente Giuseppe Santalucia critico come con l’associazione nazionale dei magistrati presieduta nel 1991 da Giacomo Caliendo, e poi da Mario Cicala, e poi da Elena Paciotti, e via via scalando con  Edmondo Bruti Liberati, Luca Palamara e -ripeto e concludo- Giuseppe Santalucia.

         Lui, Di Pietro, il molisano ruspante che ha rappresentato nell’immaginario collettivo e politico la magistratura di punta delle “Mani pulite” ambrosiane, che faceva sognare i manettari ghigliottinando la cosiddetta prima Repubblica, in una cosa è riuscito come in un miracolo: a sottrarsi alla storia e ai tentacoli dell’associazione nazionale dei magistrati. Ne ha visto da lontano-  “distinto e distante”, avrebbe detto Cossiga con una certa soddisfazione, dopo qualche delusione procurata da Di Pietro anche a lui- la crescita nella sua impropria, diciamo pure arbitraria dimensione politica. Trattata da più di un presidente della Repubblica, e non solo dall’immediato successore di Cossiga, che fu il collega di partito Oscar Luigi Scalfaro., come una istituzione, più che un sindacato. Con tanto di presenze deferenti ai suoi congressi e di promesse di non firmare questa o quella legge sgradita, a cominciare da quella forse o finalmente davvero in arrivo della separazione delle carriere fra toghe inquirenti e giudicanti. Ne ho almeno personalmente viste in più di trent’anni di tutti i colori, e sotto ogni maggioranza, di centrodestra o centrosinistra, e variazioni o deviazioni più o meno tecniche.

Claudio Martelli

         D’altronde, a rimanere estranei alla crescente politicizzazione dell’associazione dei magistrati, avvertita una volta come eversiva anche da Claudio Martelli, che pure si guadagnò da Francesco Saverio Borrelli l’apprezzamento di migliore ministro della Giustizia da lui visto all’opera, non è stato solo Tonino di Montenero di Bisaccia. Furono, essendo entrambi scomparsi, e di che morte, i poveri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

         Ora che il cerchio si è chiuso o sta chiudendosi, con l’associazione nazionale dei magistrati negli accampamenti sindacali e referendari delle proteste di più di 30 anni fa contro Cossiga e oggi contro la premier Giorgia Meloni avvertita come “più pericolosa” persino del temutissimo e pluriprocessato Silvio Berlusconi, c’è solo da augurarsi che la politica sappia e voglia procedere finalmente sulla sua strada. E riequilibrare un rapporto con la giustizia per troppo tempo sbilanciato. E a tal punto da essersi risolto per la magistratura in un progressivo calo della credibilità o popolarità, tanto è finito per essere avvertito dal pubblico per quello che è: sbilanciato, appunto, contro una politica che se ha perso anch’essa la fiducia popolare, come dimostra il crescente astensionismo, lo deve forse pure alla debolezza che ha dimostrato a lungo nella difesa di quel primato che è scritto nella Costituzione non meno dell’antifascismo implicito -dicono gli specialisti con o senza parrucca accademica- tanto decantato e opposto al presunto fascismo di ritorno visto nella Meloni.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 26 dicembre

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