La Pontida orbanizzata contro il governo italiano a partecipazione leghista

Dal Dubbio

Viktor Orban, il premier ungherese ospite d’onore di Matteo Salvini più di tutti gli altri a Pontida, deve avere una concezione particolare dell’amicizia. Come quella, del resto, dello stesso Salviniquando ha difeso l’”amico”, appunto, Antonio Tajani offeso a voce e per iscritto dai giovani leghisti.  Che in fondo avevano preso sul serio quel “mangiare pesante”, e bere evidentemente troppo, rimproverato al collega e alleato di governo dallo stesso Salvini per avere espresso preoccupazioni dopo il successo elettorale conseguito in Austria da una destra orgogliosamente estremista, diciamo pure nazista.

         Fra le righe della promozione di Salvini ad “eroe” per il processo procuratosi, o procuratogli soprattutto dagli ex alleati grillini, ritardando da ministro dell’Interno cinque anni fa lo sbarco ci circa 150 migranti dalla nave Open arms, il premier ungherese ha voluto dare una lezione di rigore, intransigenza e altro al governo italiano. Del quale il leder leghista fa parte ora come vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, compresi i porti.

         In Ungheria -si è vantato Orban- non entra un solo immigrato irregolare. In Italia, si sa, continuano ad entrarne, anche se più contenuti, come puntualizzano la premier Meloni e lo stesso Salvini. Ma l’Ungheria non ha i confini italiani. Li ha tutti terrestri, senza un solo metro, anzi centimetro marino, con tutte le complicazioni che derivano dalle acque. C’è da chiedersi se Orban, già impettito di suo ma ancora di più quando si mette a dare lezioni agli altri, sappia leggere le carte geografiche.

         Capisco i doveri di ospitalità e annessi e connessi. Ma il leader leghista dovrebbe guardarsi da certi ospiti, appunto. E anche -visto che ci sono- da certi militanti della sua Lega rimasti fermi ai tempi in cui il Sud era considerato la Terronia da affidare alle energie dell’Etna e di tutti gli altri vulcani sparsi sul suo territorio, insulare e peninsulare.

         Quella maglietta verde a Pontida inneggiante al Nord prima di tutto, ma ancor più all’Italia che “non è una e non lo sarà mai”, col suo tricolore che il giovane Umberto Bossi una volta invitò una signora di Venezia che lo sventolava dalla finestra a buttarlo “nel cesso”; quella maglietta verde a Pontida, dicevo, è stata un po’ come -fatte le debite proporzioni, naturalmente- la guerriglia a Roma sabato scorso nella manifestazione a favore dei palestinesi.

         La 36.ma edizione del festoso raduno leghista rischia di essere ricordato più per quella maglietta che per altro, compresa la presenza “nera” -secondo il titolo di Repubblica- degli ospiti esibiti dal vice presidente del Consiglio. Una maglietta che -vedrete- sarà adoperata contro la Lega e il governo dai promotori del referendum contro le autonomie differenziate pur messe dalla sinistra nella Costituzione 23 anni fa con la riforma del titolo quinto, riguardante le Regioni, le Province e i Comuni.

Pubblicato sul Dubbio

Il diavolo veste verde, più che nero, sui prati di Pontida

Matteo Salvini e Viktor Orban al raduno della Lega

         Il diavolo, si sa, si nasconde nel dettaglio. Lo ha fatto anche nel raduno leghista a Pontida. Dove più dei ministri leghisti saliti sul palco per vantare la loro azione di governo, più di Matteo Salvini -sempre sul palco- fra gli ospiti eccellenti corsi al suo invito dagli altri paesi che soffrono la partecipazione all’Unione Europea, più di quella mano dello stesso Salvini incrociata col premier ungherese Viktor Orban, più ancora dell’antipasto dei giovani che avevano dato al segretario di Forza Italia Antonio Tajani dello “scafista” e poi lo avevano vaffanculato per le aperture alla cittadinanza ai figli degli immigrati istruitisi nelle nostre scuole; più di tutto questo, è forse destinata a rimanere nel ricordo della trentaseiesima  edizione della festa del Carroccio la maglietta verde di un militante di vecchio stampo, ancora convinto che venga “prima il Nord!”. Per quanti sforzi abbia fatto e faccia ancora Salvini di fare crescere la pianta della Lega anche al Sud.

         Quel “prima il Nord” di memoria e rivendicazione bossiana, che la buonanima di Silvio Berlusconi era riuscito tuttavia a smorzare, moderare, assorbire e quant’altro nell’alleanza di centrodestra, è stato riacutizzato ieri a Pontida sulla stessa maglia verde di quel militante con l’avvertimento che “l’Italia non è una e non lo sarà mai”. A sostegno autolesionistico della rappresentazione che fanno della Lega i promotori del referendum contro le autonomie differenziate e a dispetto dell’articolo 5 di quella Costituzione sulla quale hanno prestato giuramento anche i ministri succedutisi sul palco della trentaseiesima edizione della festa leghista. Esso dice, sia pure in un inciso, che l’Italia è “una e indivisibile”, anche se “La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali”.

Il generale Roberto Vannacci

         Eppure, non solo i ministri leghisti hanno giurato, ripeto, sull’articolo 5 della Costituzione, ma partecipano ad un governo la cui premier parla di Nazione, e non di Paese, e richiama ogni volta che può il senso “patriottico” della sua destra. C’è qualcosa che non funziona  in questa Lega  ora pur anche del generale Roberto Vannacci, senza tricolore. E rischia conseguentemente di non funzionare anche nella maggioranza e nella coalizione cui essa partecipa.

Alan Friedman sulla Stampa

         Ci si può anche consolare leggendo ciò che scrive Alain Friedman della sua America. Che è “un Paese –dalla Stampa di ieri- con gravi problemi di coesione sociale, un Paese diviso come mai prima era accaduto”, con tutto quel che “non promette di buono per l’Europa e per il resto del mondo, che vincesse Harris o Trump”. Ma è una consolazione alquanto relativa, perché l’America resta sempre l’America e l’Italia resta l’Italia con quell’inciso già ricordato dell’articolo 5 della Costituzione.

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La Schlein contesta alla destra la partecipazione alla Corte Costituzionale

Da Libero

La segretaria del Pd Elly Schlein è improvvisamente guarita dell’afonia, o quasi, procuratale da Giuseppe Conte annunciando di recente nei cinque minuti televisivi messigli a disposizione da Bruno Vespa la chiusura a Matteo Renzi del cosiddetto campo largo dell’alternativa a livello pure locale, e non solo nazionale. Anche a costo di fare svanire la vittoria che l’ex ministro piddino Andrea Orlando già pregustava nella corsa alla successione a Giovanni Toti alla presidenza della regione Liguria. Dove i renziani adesso potrebbero far vincere la partita al candidato del centrodestra Marco Bucci, da loro peraltro già apprezzato e sostenuto come sindaco di Genova.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         La voce alla Schlein è tornata per gridare a Giorgia Meloni di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale, essendosi la premier proposta di fare eleggere domani, martedì, dalle Camere in seduta congiunta un giudice di sua personale fiducia -hanno scritto su  Repubblica– al posto di Silvana Sciarra, scaduta l’anno scorso e non sostituita in sette votazioni svoltesi a Montecitorio.

         Quella di domani, per la quale i parlamentari di centrodestra sono stati mobilitati telefonicamente su imput personale della premier con chat finite sui giornali, potrebbe essere la votazione buona per i margini che si sono ristretti fra centrodestra e opposizioni con approdi nella maggioranza di parlamentari provenienti dalle file soprattutto di Conte e di Carlo Calenda. I 363 voti necessari per l’elezione del giudice non sono mai stati così a portata di mano della maggioranza di governo.

         Mai come ora anche la Schlein è apparsa scesa da Marte intimando, appunto, alla premier di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale e di non considerarla di sua proprietà. Eppure noi vecchi cronisti parlamentari, vissuti sempre fra i corridoi della Camera e del Senato, siamo stati abituati sin dalla nascita della Corte Costituzionale, 68 anni fa, per quanto concepita dai costituenti più di otto anni prima, a percepirla e raccontarla come un patrimonio sostanzialmente della sinistra.  Il combinato disposto, diciamo così, fra i cinque giudici costituzionali di nomina del presidente della Repubblica e i cinque di elezione parlamentare, a Camere congiunte, sui quindici che compongono la Corte Costituzionale, essendo gli altri cinque scelti dalle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”, come prescrive l’articolo 135 della Costituzione, ha praticamente tenuto sempre la destra fuori dai giochi. Ridotta a sola testimonianza.

         Abbiamo visto arrivare alla Corte Costituzionale -sempre noi vecchi cronisti parlamentari- fior di politici provenienti direttamente dai vertici, o quasi, dei gruppi parlamentari della sinistra. Forse più di quanto non avesse potuto immaginare la buonanima di Palmiro Togliatti, contrario per il suo connaturato parlamentarismo alla Corte Costituzionale perché non concepiva ch’essa potesse bocciare una legge approvata dalle Camere.

Francesco Saverio Marini

         Alla Meloni si contesta, in particolare, di volere fare arrivare alla Corte uno dei due mostri, per come li rappresentano al Nazareno e dintorni, che sarebbero l’attuale segretario generale di Palazzo Chigi, Carlo Deodato ma soprattutto il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini. Di cui non si sa bene se la colpa più grave, dopo quella di essere consigliere della premier, sia più la famiglia, essendo figlio di un giurista di destra cui toccò a suo tempo un turno di presidenza della Corte, Annibale, o la presunta paternità del disegno di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Che da quando la sinistra ha deciso di non sostenere più, dopo averla condivisa per un po’ di tempo, è diventata la minaccia più grave mai caduta sulla testa della democrazia italiana.

La ministra delle riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati

         Mi chiedo, sempre da vecchio cronista che non ha perso la voglia e la possibilità di seguire le cronache parlamentari e affini, se la paternità del disegno di legge sul premierato al primo dei due esami della Camera, dopo il primo superato al Senato, il 18 giugno scorso, non abbia anche o soprattutto una madre. Che è la ministra delle riforme, già presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia. Perchè declassarla -mi chiedo- a prestanome, o quasi, pur di rappresentare come una provocazione politica la candidatura a giudice della Corte Costituzionale del professore di istituzioni di diritto pubblico Francesco Saverio Marini? Che con le funzioni di consigliere giuridico della premier, come quelli che lo hanno preceduto con e in altri governi, non ha perso né i suoi diritti civili, né le sue competenze.

Pubblicato su Libero

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Se a Roma si piange, e si guerriglia, a Pontida non si ride…

Disordini a Roma

         Sarebbe sciocco archiviare la guerriglia di ieri a Roma, come purtroppo ho visto e sentire fare nella trasmissione televisiva condotta sulla 7 da Massimo Gramellini, dando per scontati i professionisti, ormai, dei disordini. Che si infiltrano nelle manifestazioni per devastare anch’esse, oltre alle forze dell’ordine ferendo una trentina di agenti, ai loro mezzi, ai beni privati, a inermi cittadini e a fotografi colpevoli solo di poterli o volerli riprendere nelle loro maschere. Sarebbe sciocco anche prendersela, sempre come ho visto e sentito fare nel salotto di Gramellini, col ministro dell’Interno -o “ministro di Polizia”, come l’ha chiamato Niki Vendola- che avrebbe eccitato i criminali non autorizzando la manifestazione indetta a favore dei palestinesi alla vigilia del primo anniversario della mattanza di ebrei compiuta dai terroristi di Hamas e complici.

Insulti a Pontida

         Sarebbe altrettanto sciocco, spostandosi da Roma a Pontida, archiviare gli insulti al vice presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia Antonio Tajani levatesi da giovani leghisti in corteo a Pontida,  alla vigilia del tradizionale raduno annuale del loro partito, definendoli “quattro scemi”, come ha fatto Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio pure lui e leader del Carroccio. Che, bontà sua, ha dato ha difeso  l’”amico” a Tajani, pur avendolo qualche giorno fa accusato di avere “mangiato pesante”, e prevedibilmente anche bevuto troppo, per essersi preoccupato pubblicamente del successo elettorale appena conseguito in Austria dall’estrema destra, di linguaggio e atteggiamento nazisti.

         I manifestanti di Pontida, in verità, hanno insultato e vaffanculato Tajani  -scusate il termine sdoganato in politica quindici anni fa da Beppe Grillo – non per seguire Salvini nella difesa dell’estrema destra austriaca, ma solo perché il segretario forzista aveva appena annunciato una iniziativa legislativa di partito sulla cittadinanza italiana ai figli di immigrati che abbiano compiuto, con i nostri figli e nipoti un ciclo decennale di studi. Per questo Tajani è anche finito su uno striscione leghista come “scafista”.

         Vi sembrerò esagerato, ma sul piano politico considero ciò che è accaduto a Pontida alla vigilia- ripeto- del raduno nazionale della Lega più grave di quanto accaduto a Roma. Dove non è stata compromessa la serietà del governo. A Pontida sì. E ancora di più rischia di avvenire nel raduno di oggi per l’impostazione che ha voluto dargli lo stesso Salvini esibendo ospiti come il premier ungherese Viktor Orban.

Da Repubblica di ieri

         “L’interesse di Salvini -ha scritto giustamente Stefano Folli ieri su Repubblica– è solo uno: creare una massa critica, della quale dichiararsi leader, per scagliarla contro Giorgia Meloni. Per metterla in difficoltà, impedirle di sviluppare il rapporto con l’Unione europea di Ursula von der Leyen, sottrarle voti a destra per quanto possibile”. E sottrarne naturalmente anche all’amico “scafista” Tajani.

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Un pò troppe ansie, forse, nella maggioranza e nel governo di centrodestra

il presidente del Senato Ignazio La Russa

         Ore d’ansia, mentre scrivo, nel centrodestra a livello politico e persino istituzionale, dal quale comincio ricordando la decisione, o intenzione, del presidente Ignazio La Russa, fregando tutti sul terreno dei famosi diritti civili, ad aprire le porte del Senato anche agli animali. Che si spera adesso si dimostrino degni della fiducia contenendosi, per esempio, nei bisogni percorrendo i corridoi o stazionando negli uffici dei loro garanti.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi

         Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è invece col fiato sospeso ad attendere sviluppi ed esito finale della manifestazione romana a favore dei palestinesi, e di chi li usa come scudi umani per nascondere sotto le loro case, scuole, ospedali, mercati e quant’altro arsenali militari con cui attaccare Israele. Una manifestazione proibita sul piano ufficiale, con tutte le discussioni che ne sono derivate, e di fatto alla fine consentita scommettendo sulla misura dei dimostranti e sull’efficienza tecnica e nervosa delle forze dell’ordine.

Dalla prima pagina di Repubblica

         Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, reduce da un tentativo di infilare nella manovra finanziaria in arrivo per fare quadrare i conti qualche aumento della già alta pressione fiscale, si chiede – leggendo, per esempio, il titolo di Repubblica sul fatto di essere “rimasto solo”- se ad abbandonarlo con il no sia stato più l’alleato di governa forzista Antonio Tajani o il collega e insieme superiore di partito Matteo Salvini.

Salvini e Tajani insieme

         E’ infatti accaduto che i due -Tajani e Salvini- di solito distinti e distanti, come diceva la buonanima di Francesco Cossiga delle componenti di certe maggioranze che aveva gestito dal Quirinale e poi contributo a nascere e a disfarsi da presidente soltanto emerito della Repubblica, si siano improvvisamente trovati d’accordo nel contestare le tentazioni di Giorgetti. Che ora cerca, poverino, di cavarsela per il rotto della cuffia di qualche accorgimento verbale.

         Sembra, in particolare, che per far digerire meglio a banche ed altre imprese una tassazione dei loro extraprofitti il ministro dell’Economia abbia pensato di definirli “giusti”, per carità. Si vedrà se questa …concessione basterà a migliorare le reazioni degli interessati e di chi nella maggioranza intende proteggerli.

Dalla prima pagina del Foglio

         La posizione di Giorgetti nel rapporto, che è stato sempre un po’ difficile, col suo collega di partito, amico e -ripeto- superiore è aggravata dal sospetto che va forse aumentando nel leader leghista che Meloni, sotto sotto ma anche sopra sopra, voglia “condannare il salvinismo all’irrilevanza”, come ha titolato con perfidia politica, e non solo giornalistica, Il Foglio in prima pagina. Irrilevanza sia sul terreno della politica estera, dove Salvini ama muoversi con la maggiora disinvoltura, come dimostrerà domani anche nel raduno tradizionale di partito a Pontida con i suoi ospiti stranieri estremisti, sia sul terreno della politica fiscale, quanto meno, se non interna in senso più generale.  

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Meloni “tradisce” Conte preferendogli la Schlein nell’opposizione

Dal Dubbio

I retroscena politici, spesso non si sa se più alimentati o alimentatori dei colpi bassi delle polemiche, ci propongono ogni tanto Giorgia Meloni e Giuseppe Conte, direttamente o tramite i loro emissari, a passarsi la palla. A fare l’una la stampella dell’altro, o viceversa, come ha detto Matteo Renzi, per esempio, di recente cercando di spiegarsi e di spiegare la partecipazione delle 5 Stelle al rinnovo del Consiglio d’amministrazione della Rai, disertato invece dall’aventiniano Pd di Elly Schlein e dintorni.

Matteo Renzi

         Chissà che avrà pensato, e non ha ancora detto Renzi sino al momento in cui scrivo, del vuoto improvvisamente creatosi al vertice del Tg 3 con la nomina improvvisa di Mario Orfeo s direttore di Repubblica. Già si è letto e scritto, d’altronde, di una candidatura pentastellata alla successione, magari scambiabile col ripensamento di Conte sulla presidenza della Rai a Simona Agnes, la figlia del compianto Biagio sostenuta in particolare da Forza Italia con la consulenza, la diplomazia e quant’altro di Gianni Letta, fiduciario della famiglia Berlusconi.

         Ma davanti alle quinte lo spettacolo di Meloni e Conte, e loro annessi e connessi, è opposto a quello immaginato o raccontato, ripeto, dai retroscenisti. E’ appena accaduto, per esempio, che la premier, giustamente consapevole della opportunità, necessità e simili di una linea politica di coesione o solidarietà nazionale -come si diceva una volta- davanti ad emergenze come quelle costituite dalle guerre in corso, si sia consultata per telefono con Elly Schlein, e non con altri esponenti dell’opposizione volenterosamente chiamata al singolare.

         Di Conte la premier non è proprio passato per la testa di cercare o farsi cercare il numero di cellulare fino al momento -anche qui- in cui scrivo. E non è -credo-per vendetta sul filo del telefono a quanto della premier e della sua politica estera egli dice in ogni occasione, in Parlamento e fuori, fra i microfoni che lo seguono per le strade che percorre nei dintorni di Montecitorio o nei convegni lontanissimi ai quali è invitato. Una politica estera, secondo Conte, sostanzialmente guerrafondaia, subalterna agli Stati Uniti non più guidati dall’illuminato Donald Trump.

Stare a questo punto a inseguire il consenso del suo pur non diretto predecessore a Palazzo Chigi dev’essere comprensibilmente apparso alla Meloni tempo sprecato. O fornirgli solo l’occasione per vantarsi in qualche dichiarazione o intervista di avere contestato a dovere le scelte del governo, senza neppure fare le distinzioni che forse Matteo Salvini si aspetterebbe dal suo ex alleato, nella loro prima e comune esperienza, rispettivamente, di presidente del Consiglio e vice. Una distinzione che il leader leghista probabilmente cercherà di meritarsi domani a Pontida, visti gli invitati stranieri di estrema destra al raduno del suo partito.  

L’autocaricatura di Beppe Grillo

Conte, del resto, non è tipo da fare sconti nelle sue partite, come sta sperimentando sulla sua pelle, e sulla barba cresciutagli a dismisura, il fondatore e garante del MoVimento 5 Stelle Beppe Grillo. Che rischia, nella polemica e nelle diffide ingaggiate con l’avvocato e professore sulla strada della Costituente, o ricostituente, delle 5 Stelle, o come altro dovessero essere chiamate, anche la sua consulenza ben remunerata nel campo della comunicazione. I cui risultati d’altronde Conte potrebbe rinfacciargli, piuttosto che riconoscere i propri errori e limiti ed assumersi la responsabilità addebitatagli da Grillo di avere raccolto nelle elezioni europee di giugno meno voti di Berlusconi da morto col partito forzista di cui è segretario Antonio Tajani. 

Sono d’altronde le nuove, ridotte dimensioni del movimento che presiede, più che gli atteggiamenti contestati alla Schlein, specie da quando ha aperto il cosiddetto campo largo a Renzi, a fare apparire Conte un “cespuglio”, come lui stesso ha lamentato, piuttosto che un ancora candidato a Palazzo Chigi se e quando dovesse realizzarsi un’alternativa al centrodestra guidato dalla Meloni.

Di cespugli vigorosi, a dire la verità, si trovano tracce nella storia della cosiddetta prima Repubblica, per esempio con l’arrivo di Giovanni Spadolini e del suo piccolo partito dell’edera alla guida del governo con una Dc dieci volte più forte. Ma era, appunto, la prima Repubblica: preistoria per Conte.

Pubblicato sul Dubbio

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Dietro gli avvicendamenti a sorpresa ai vertici della Repubblica di carta

         Le notizie a sorpresa sugli avvicendamenti ai vertici della Gedi, editrice, e della Repubblica, quella di carta, stanno naturalmente insieme ma non hanno lo stesso valore.

Mario Orfei

Più dell’arrivo di Mario Orfeo alla direzione del quotidiano fondato dal compianto Eugenio Scalfari, che è poi un ritorno con promozione, avendo lo stesso Orfeo già lavorato in quel giornale in posizioni centrali, conta forse -anche per il destino della testata- la rinuncia di John Elkann alla presidenza della società editrice, per quanto sostituito da una persona di fiducia, per carità.

Gianni Agnelli

         Il nipote del compianto avvocato Gianni Agnelli, per quanto alle prese con una vicenda giudiziaria e familiare di un certo imbarazzo, quanto meno, derivata da vertenze ereditarie, è forse più ricco di quando arrivò dove lo aveva designato il nonno. Del quale però non ha la forza politica, e neppure il fascino quasi regale. Che a lungo nella Repubblica vera, non quella di carta, fece apparire casa Agnelli come il dopo casa Savoia.

Un’edicola chiusa

         Più delle automobili, che non se la passano bene neppure oltre i confini italiani, sembrano piacere al nipote dell’avvocato i soldi. E a far crescere quest’ultimi, almeno in Italia, i giornali non servono più come una volta, né direttamente, per quel che si guadagna fra edicole, derivati e pubblicità, né indirettamente per gli affari che possono essere facilitati dall’indirizzo politico del giornale di proprietà. La cessione della Repubblica, sempre quella di carta, potrebbe essere gestita meglio senza John Elkann alla presidenza della società editrice, si è già scritto o insinuato.

         Questa realtà dovrebbe essere o quanto meno apparire consolante per il giornalismo inteso come professione, potendone favorire l’autonomia, l’autorevolezza. Ma non è detto che questo effetto maturi davvero perché noi giornalisti -diciamolo francamente- difendiamo la nostra autonomia senza la forza, per quanto spesso degenerata e degenerativa, con la quale difendono la loro i magistrati.

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L’avanzata di Bucci in Liguria grazie agli errori dei suoi avversari

Dal Corriere della Sera

         Il 31 ottobre, quattro giorni dopo le elezioni anticipate in Liguria provocate dalla rimozione praticamente giudiziaria dell’ex governatore di centrodestra Giovanni Toti, dimessosi per uscire dagli arresti domiciliari disposti sotto l’accusa di corruzione ed altro, Marco Bucci festeggerà i suoi 65 anni. Non si sa se in veste ancora e solo di sindaco di Genova al suo secondo mandato o di nuovo presidente della regione per il centrodestra.

         Partito in svantaggio nella sua campagna elettorale per la sorpresa del patteggiamento preferito da Toti al processo dopo una resistenza all’accusa che sembrava irremovibile, e per le dimensioni ancora ”larghe” del campo allestito attorno alla candidatura alternativa dell’ex ministro del Pd Andrea Orlando, il sindaco di Genova sta recuperando parecchio grazie agli errori, incidenti e quant’altro dei suoi avversari.

Giuseppe Conte

         Prima Bucci è stato soccorso personalmente da Giuseppe Conte espellendo dal campo di gioco della sinistra Matteo Renzi e restituendone parti almeno dell’elettorato ad una reazione quasi istintiva a favore di Bucci, appunto. Col quale i renziani avevano collaborato al Comune, prima di uscirne per seguire il loro leader nel campo opposto. Per quanto pochi possano essere nel frattempo diventati i voti di Renzi in Liguria, essi potrebbero risultare decisivi nella partita.

Nicola Morra

         Poi è intervenuto a favore di Bucci un concorrente diretto, per quanto minore:  l’ex grillino Nicola Morra con dichiarazioni al Foglio sul voto inutile, secondo lui, a Bucci perché destinato a morire presto per il suo “tumore metastatico”, come accadde nel 2020 alla presidente eletta, sempre per il centrodestra, alla regione Calabria Jole Santelli.

Dal Foglio

         Persino Orlando, l’avversario ancora più diretto di Bucci nella corsa alla presidenza della Liguria, ha dovuto criticare Morra, che ha penosamente cercato di difendersi sentendosi tirato “in un tranello” dal Foglio per l’uso fatto delle sue parole nella titolazione dell’articolo. Parole, ripeto, che si sono ritorte, nelle polemiche che ne sono seguite, contro di lui e a favore di Bucci. Il quale ne ha comprensibilmente profittato lasciandosi intervistare pure lui dal Foglio per assicurare naturalmente di sentirsi bene e ben curato, guadagnarsi la simpatia e la prevedibile solidarietà umana, quanto meno, di qualcuno forse ancora indeciso se votare e procurarsi infine un titolo che da solo sarà apparso allo sprovveduto Morra un altro tranello: “Curare la politica malata” degli avversari di Bucci.

Sandro Pertini

         La vicenda mi ricorda un po’ il clamoroso infortunio del capogruppo democristiano della Camera Flaminio Piccoli nelle elezioni presidenziali del 1978, quando si arrese alla candidatura del socialista Sandro Pertini prevedendone la morte durante il mandato per i suoi 82 anni quasi compiuti. Che non impedirono invece a Pertini di tentare, dietro le quinte, la rielezione dopo sette anni felicemente trascorsi al Quirinale, guadagnandosi una popolarità ancora  imbattuta.

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Il chiodo che ha guastato a Matteo Salvini la vigilia della festa a Pontida

Matteo Salvini

         Già alle prese con i noti guai giudiziari a Palermo, dove sono stati chiesti per lui sei anni di carcere per sequestro di persone e altro dopo avere ritardato cinque anni fa come ministro dell’Interno lo sbarco di circa 150 migranti, Matteo Salvini è appena finito nei guai mediatici per gli affari ferroviari di sua competenza come ministro dei trasporti, o delle Infrastrutture come si dice da quando sono stati unificati i dicasteri, appunto, dei trasporti, dei lavori pubblici e della marina mercantile.

Dalla Stampa

         Un chiodo che i tecnici hanno scoperto piantato per errore su un cavo da un operaio di una società privata che esegue lavori per le ferrovie dello Stato ha paralizzato mezza Italia, trasformato le stazioni in bivacchi ed esposto il leader leghista ad attacchi, dileggi e altro fra Camere e giornali. Dove Mattia Feltri, per esempio, gli ha dato del “giocatore di biglie” scrivendone sulla Stampa.

Dal Corriere della Sera

         Massimo Gramellini sul Corriere della Sera gli ha ironicamente riconosciuto il merito, per quanto involontario, di avere fatto giadagnare al governo della Meloni la qualifica di “antifascista” per i ritardi dei treni di oggi contrapposti alla puntualità vera o presunta, degli anni di Mussolini. Una puntualità sulla quale scherzava la buonanima di Giulio Andreotti dando del “Napoleone” a chiunque, nei suoi governi o negli altri della Repubblica, si proponesse d far viaggiare i treni in orario in Italia come nella leggendaria Svizzera.  

         I ministri dei trasporti di una volta, come quelli dei Lavori Pubblici, erano particolarmente a rischio. I primi per i ritardi, appunto, dei treni o per le sciagure che puntualmente si vedevano attribuire, come se fossero stati loro alla guida dei convogli deragliati o rottamati negli scontri fra morti e feriti.  Gli altri, quelli dei lavori pubblici, finirono a rischio di indagini, processi e carcere per l’abitudine che avevano i partiti, o i loro derivati o referenti, di ogni colore, di finanziarsi con o nei cantieri. 

         Un mio amico che arrivò a guidare il Ministero di Porta Pia negli ultimi anni della cosiddetta prima Repubblica percorse le scalinate dell’edificio facendo gli scongiuri alla vista di ogni foto o busto dei suoi predecessori. E non fu per niente grato all’amico segretario di partito che ve lo aveva mandato senza preavviso, o quasi.

         Al Ministero dei Trasporti, a poca distanza, nacque una volta con l’arrivo di un giovane socialista molto attivo una corrente politica chiamata “sinistra ferroviaria”. Che faceva la sua brava concorrenza alle altre di via del Corso, dove c’era la sede del Psi.

Dal Giornale

         Erano tuttavia altri tempi.  Adesso è arrivata l’ora dei chiodi. O del chiodo, visto che ne è bastato uno per guastar, fra l’altro,e a Salvini la preparazione della tradizionale festa della Lega sui prati di Pontida. Dove comunque si arriva in pullman più che in treno.

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Il secondo strappo di Enrico Letta dal Nazareno: Madrid dopo Parigi di 10 anni fa

Da Libero

Anche a Madrid, dove ha deciso di fare dal mese prossimo l’insegnante universitario, come dieci anni fa a Parigi, rinunciando al mandato parlamentare in Italia Enrico Letta chiederà probabilmente di non essere considerato “esule”. Ma in entrambe le circostanze egli ha dato l’impressione, a torto o a ragione, di aver voluto fuggire da qualcosa, o da qualcuno, o insieme dall’una e dall’altro.

Il commiato di Enrico Letta da Matteo Renzi nel 2014

         Nel 2014 Letta jr, per non confonderlo con lo zio Gianni, anziano e ancora attivo come consigliere, ambasciatore, fiduciario dei figli di Silvio Berlusconi, come era stato col padre, andò a smaltire a Parigi la delusione, a dir poco, procuratagli da Matteo Renzi. Che come nuovo segretario del Pd gli aveva detto sotto Natale del 2013 di “stare sereno” a Palazzo Chigi, dove era approdato il 28 aprile di quello stesso anno, ma nel giro di qualche settimana gli procurò un clamoroso sfratto sostituendolo di persona.  E cumulando baldanzosamente le massime cariche di partito e di governo. Cosa che non aveva portato fortuna nella cosiddetta prima Repubblica a esponenti democristiani pur di un certo temperamento come Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita. E non portò fortuna neppure a lui, che pur nel giro di quasi tre anni dovette rinunciare ad una delle due, quella di governo. Per perdere rapidamente anche l’altra.

Lo scambio delle consegne fra Letta e Renzi a Palazzo Chigi

         Enrico Letta ci rimase naturalmente male quando fu allontanato da Palazzo Chigi con un voto quasi unanime della direzione del Pd.  E non fece nulla per nasconderlo. Anzi, ostentò la sua rabbia -chiamiamola pure col suo nome- in una cerimonia di frettoloso, infastidito passaggio della campanella d’argento del Consiglio dei Ministri al suo sgradito successore. Del quale poi si scoprì, grazie ad una intercettazione telefonica sfuggita al segreto istruttorio, che aveva parlato con un generale della Guardia di Finanza come di una persona non adatta alla guida di un governo. Pur adatto invece-pensate un po’- al lavoro di presidente della Repubblica, non disponibile però perché appena riassegnato a Giorgio Napolitano.

         Voi capite, amici miei, quali e quanto buone ragioni poteva avere avuto Enrico Letta per andarsene da Montecitorio e dall’Italia dieci anni fa.   E tornare a Roma in modo stabile solo quando andarono a supplicarlo a Parigi per assumere la segreteria del Pd improvvisamente lasciata da Nicola Zingaretti, troppo assediato dalle correnti.

         Quale buona ragione abbia potuto avere anche questa volta Enrico Letta per cercarsi e trovare un lavoro all’estero più gratificante di quello a Montecitorio, pur rimanendo in Europa, la sua Europa, non è difficile immaginare.

Lo scambio delle consegne fra Enrico Letta ed Elly Schlein l’anno scorso al Nazareno

         Il Pd da lui lasciato ad Elly Schlein l’anno scorso fra baci, abbracci, incoraggiamenti e quant’altro, dopo un congresso risolto in un modo dagli iscritti e in un altro dai non iscritti partecipanti alle primarie, ha preso una strada non diversa ma opposta a quella percorsa da Enrico Letta. Che non perdonò, per esempio, a Giuseppe Conte di avere fatto cadere, peraltro pochi mesi prima della conclusione ordinaria della legislatura, il governo di Mario Draghi, nella cui “agenda” al Nazareno si riconoscevano un po’ tutti, persino Goffredo Bettini. Che è ancora fra i consiglieri e gli amici del presidente pentastellato, da lui promosso al “punto di riferimento più alto dei progressisti” in Italia. Ora invece il Pd di Elly Schelin insegue Conte sulla strada pur fantomatica di un “campo largo” dell’alternativa al centrodestra che il presidente delle 5 Stelle ha appena liquidato come una invenzione giornalistica. E dal quale si è tirato indietro, non solo nella Liguria dove si voterà a fine mese, ma anche nell’Emilia-Romagna e nell’Umbria dove si voterà il mese prossimo.

Giuseppe Conte

La Schlein, sbiancata secondo una cronaca di Repubblica, spera forse di rianimare un morto. Ma, per quanto credente e praticante, credo, più della segretaria del Pd, Enrico Letta dubita, quanto meno, dei miracoli in politica. E preferisce andare a pregare, oltre che a lavorare, a Madrid. Buon viaggio, presidente.

Pubblicato da Libero

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