Se la lottizzazione si fa ma non si può dire alla Corte Costituzionale

Da Repubblica

Giuliano Amato, che ne ha fatto parte e l’ha presieduta dopo una lunga carriera politica che lo aveva portato due volte a Palazzo Chigi, la prima su designazione del Psi di Bettino Craxi e l’altra del predecessore Massimo D’Alema, più ancora del partito di quest’ultimo, ha appena detto in una intervista a Repubblica che      la Corte Costituzionale “non può essere lottizzata”. Come se fosse la Rai, dove al direttore di una importante testata giornalistica, peraltro di fatto ancora operativo, capitò di avvertire pubblicamente come suo “editore di riferimento” non l’azienda dalla quale dipendeva ma il partito che ne aveva sostenuto e determinato la nomina nei suoi organi deliberanti.  

         A nessuno dei tanti giudici costituzionali di elezione parlamentare, cioè di designazione politica, succedutisi nei quasi 70 anni di vita della Corte è mai scappato di sentirsi praticamente dipendente del partito che lo ha sostenuto, o lo ha sostenuto di più proponendone per esempio la candidatura agli altri e ottenendone l’appoggio. Questo è bastato al presidente emerito per mettere la Corte al riparo dalla rappresentazione lottizzatrice. Ma dubito che il modo di sentire e di esercitare un mandato sia sufficiente ad inserirlo o escluderlo dal fenomeno lottizzatorio, cioè di spartizione delle cariche fra chi ne determina l’assegnazione.

La sede della Corte Costituzionale

         La lottizzazione della componente di designazione parlamentare della Corte Costituzionale, pari a un suo terzo, è insita nel metodo della elezione, con una maggioranza sempre qualificata: dei due terzi nelle prime due votazioni, dei tre quinti dalla terza in poi. Una maggioranza che normalmente comporta un così largo coinvolgimento di parlamentari, e rispettivi partiti, da comportare una trattativa. Che è la premessa di una spartizione, specie quando le parti non a caso ma di proposito accorpano le diverse scadenze ed eleggono più giudici in una sola occasione. Bisognerebbe quanto meno impedire questo accorpamento per cercare -non so se riuscendovi- di allontanare o ridurre la pratica o solo la tentazione lottizzatrice, con tutto quello che di negativo comporta nell’accezione comune la lottizzazione.

Ignazio La Russa al Corriere della Sera

          Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha appena tentato di indorare la pillola lottizatrice, in una intervista al Corriere della Sera, chiamando “anime” i partiti e rispettivi gruppi parlamentari che trattano, singolarmente o a pacchetti, sui seggi che via via si liberano nel Palazzo della Consulta. E trattano in modo così pesante, direi anche spavaldo, da potere disporre dei loro parlamentari sino ad obbligarli di fatto a non votare, evitando di ritirare la scheda, per non lasciarsi neppure tentare di sottrarsi segretamente ad una certa scelta indicata dalla propria parte politica. Qualcosa di apparentemente democratico e legittimo. Ma apparentemente, appunto. In realtà, per niente democratico. Direi, piuttosto, vessatorio. Per non sconfinare nel dileggio delle istituzioni per il modo in cui esse vengono gestite in questi casi.  

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Mantovano sbotta contro la magistratura invadente e invasiva

Dalla prima pagina del Foglio

Pur discreto di suo sino alla reticenza, per carattere prima ancora che per professione di magistrato alla vecchia maniera e per le funzioni che ora svolge di sottosegretario di fiducia alla presidenza del Consiglio, preposto ai servizi segreti, Alfredo Mantovano è sbottato alla fine di una lunga intervista concessa al Foglio in occasione della festa annuale del giornale fondato da Giuliano Ferrara. Ed è sbottato sul tema che forse sembrava più adatto alla sua discrezione o, ripeto, reticenza: quello dei rapporti fra il governo e la magistratura, o viceversa. Un tema clamorosamente sollevato nei mesi scorsi dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che denunciò una “opposizione giudiziaria “, oltre che politica e mediatica, alla compagine ministeriale guidata da Giorgia Meloni. La quale con una nota diffusa da Palazzo Chigi rilanciò l’allarme fra le proteste dell’associazione nazionale delle toghe.  

Il sottosegretario Alfredo Mantovano al Foglio

         Ridotta in qualche modo a “impressione” con una certa prudenza dal direttore del Foglio Claudio Cerasa parlando di “magistratura ideologizzata”, Mantovano ha detto testualmente, e spiegato facendo un esempio: “Non è tanto un’impressione, è una constatazione. Quando, per esempio, nella disciplina dei migranti un giudice dice e scrive nei provvedimenti che deve essere il giudice stesso l’arbitro della decisione dei paesi cosiddetti sicuri, cioè dei paesi verso i quali può avvenire il rimpatrio dei migranti pervenuti illegalmente, mi pare che sia un’entrata a piedi uniti in un’area che non è la propria, perché la determinazione dei paesi sicuri viene fuori da un procedimento abbastanza complesso che spetta al governo”. “E’ un esempio fra i tanti. Ce ne potrebbero essere altri”, ha concluso e insistito il sottosegretario.

         E’ politicamente significativo, e grave sul piano giudiziario, che fra i “tanti” esempi, ripeto, a sua disposizione Mantovano ne abbia scelto uno che chiama in causa non solo e non tanto un pubblico ministero, sorpreso e condannato di recente ad occultare prove a favore di un indagato, ma un giudice. Da cui sarebbe ragionevole aspettarsi una condotta “imparziale”, da “giudice terzo”, come dice l’articolo 111 della Costituzione modificato proprio in questo senso 25 anni fa. Che sono purtroppo trascorsi inutilmente, in attesa peraltro che la nuova norma costituzionale si traduca coerentemente nella separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, appunto. Una prospettiva contro la quale il sindacato dei magistrati e le sue non poche appendici politiche hanno annunciato e conducono un’opposizione dichiaratamente irriducibile.

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La scommessa rischiosa di Conte sul voto regionale in Liguria

         E pensare che mentre Nando Pagnoncelli scriveva per il Corriere della Sera il resoconto e l’analisi del suo sondaggio sulle vicinissime elezioni regionali in Liguria, in cui il candidato del centrodestra Marco Bucci è avanti di tre punti sul candidato del cosiddetto centrosinistra Andrea Orlando, il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte si lasciava intervistare dal genovese Secolo XIX per vantarsi di avere ridato vigore alla coalizione di Orlando espellendone i renziani.  

Conte al Secolo XIX di ieri

         All’intervistatore che, quasi presagendo ciò che Pagnoncelli aveva appena rilevato e stava scrivendo per il Corriere, gli prospettava il rischio di un indebolimento della candidatura di Orlando senza il sostegno dei renziani Conte rispondeva, quasi stizzito: “Al contrario, l’ha rafforzata, perché non saremmo stati seri né credibili se avessimo imbarcato esponenti politici che fino a ieri erano nella Giunta di Bucci, oggi candidato a rappresentare la continuità con la Giunta uscente di Toti”.

Marco Bucci

         La Giunta Bucci è naturalmente quella comunale, la Giunta di Toti quella regionale dissoltasi con le dimissioni del presidente presentate dopo una novantina di giorni di arresti domiciliari proprio per riottenere la libertà, a costo dello scioglimento del Consiglio regionale e delle elezioni anticipate del 27 e 28 ottobre. Più che uscente, quindi, è uscita quella giunta. Della quale quella eventuale di Bucci non potrà essere la “continuazione” indicata, e deplorata, da Conte perché a parlare della “fine dell’era Toti”, dopo il suo patteggiamento per evitare il processo per corruzione, è stato Antonio Tajani in veste di segretario di Forza Italia. Che della coalizione raccoltasi attorno a Bucci è un partito più consistente di quel che rimane in Liguria delle truppe raccolte a suo tempo da Toti rompendo appunto con Forza Italia. E lasciandone gli esponenti fuori dalla giunta regionale “uscente”, come la chiama Conte.

         Sembrano sfuggite all’ex presidente del Consiglio e presidente, ora, solo del MoVimento 5 Stelle, e di ciò che potrebbe rimanerne in caso di scissione promossa questa volta addirittura dal fondatore, garante e consulente Beppe Grillo, le novità intervenute nel centrodestra dopo il patteggiamento a sorpresa scelto da Toti per evitare un processo per corruzione che aveva dato invece la sensazione di volere affrontare su posizioni irremovibili di difesa.

Andrea Orlando

         Del sondaggio di Pagnoncelli va detto anche che, mentre le originarie distanze di Alfredo Orlando da Marco Bucci si sono rovesciate a vantaggio di quest’ultimo, le previsioni di voto per le 5 Stelle sono rimaste ferme al non esaltante 7,8 per cento delle precedenti elezioni regionali, nel 2020: tre volte meno del Pd.  Cui Conte vorrebbe fare concorrenza per contendergli la leadership a sinistra con l’aiuto dei verdi e dei rossi di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Una Liguria amara, insomma, per l’ex premier.

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Prodi striglia anche Meloni per gli attacchi israeliani alle postazioni Onu in Libano

Una postazione Onu in Libano

         Affranto e cupo come mai si era visto in circostanze politiche sgradite, neppure quando fu costretto a interrompere con largo anticipo entrambe le esperienze di presidente del Consiglio per abbandono da parte di alleati o simili, Romano Prodi ha partecipato dalla “Piazza pulita” di Corrado Formigli, sulla 7, allo stupore, alle proteste, alle preoccupazioni e quant’altro per gli sviluppi delle guerre in Medio Oriente. Dove gli israeliani hanno esteso anche alle postazioni di pace e di sicurezza delle Nazioni Unite, a forte partecipazione italiana, l’offensiva contro le zone del Libano trasformate dai terroristi di Herzbollah in basi di lancio di missili e altro contro territori ebraici e le popolazioni che vi vivono, o vi vivevano.

         “Sparano contro il mondo”, ha protestato Prodi parlando degli israeliani, e pur riconoscendo -bisogna dirlo- la crisi di credibilità e di efficienza delle Nazioni Unite nella funzione propostasi alla fondazione di rappresentare e proteggere appunto il mondo.

         Dall’alto delle sue proteste in difesa, ripeto, del mondo assaltato dagli israeliani nei loro eccessi di difesa e di reazione ai sistematici e sanguinosi attacchi al loro sacrosanto diritto di vivere come ebrei e cittadini del loro Stato, sorto peraltro con tanto di deliberazione delle Nazioni Unite, Prodi ad un certo punto è sceso sul piano della politica interna per attaccare la premier Meloni. Alla quale aveva pur riconosciuto di recente -va detto anche questo- in un’altra trasmissione sempre della 7 di “saperci fare”. Persino meglio e più di quanti anche con i suoi consigli -quelli cioè di Prodi- cercano di allestire campi più o meno larghi per coltivare l’alternativa.

Meloni e Zelensky ieri sera a Villa Pamphili

         Alla premier, peraltro impegnata mentre Prodi parlava con Formigli in un incontro col presidente ucraino Zelensky per parlare di un’altra guerra, e non dei conti correnti bancari suoi e di sua sorella violati come tantissimi altri, l’ex premier ha rimproverato di non essere intervenuta adeguatamente contro Israele. Ma di essersi lasciata rappresentare nella protesta dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Che ha convocato l’ambasciatore di Gerusalemme in Italia, ha ribadito “l’ira del governo”, come ha titolato anche la insospettabile Repubblica, dalla sua postazione di opposizione, e indicato come “crimine di guerra” quello compiuto dagli israeliani colpendo le postazioni delle Nazioni Unite in Libano.      

Guido Crosetto in conferenza stampa

Potrei sbagliare, per carità, ma ho avvertito un senso di sorpresa e di disagio anche nel conduttore della trasmissione di fronte all’assalto, pur a suo modo, di Prodi alla presidente del Consiglio e al declassamento del ministro della Difesa, pur così imponente anche nel suo aspetto fisico, a una persona non abbastanza rappresentativa e autorevole per parlare a nome del governo italiano.   

Dal tavolo alla tavola della Corte Costituzionale

Da Libero

Non mi sto inventando nulla. Non mi sto arrampicando su nessuno specchio. Non vi propongo l’ennesimo retroscena delle nostre abbondanti cronache politiche. Mi limito a seguire le tracce generosamente fornite, in un provvidenziale abbandono alla franchezza, dal capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia per spiegarvi il mercato -tutto politico, per carità, ma sempre mercato- che si sta allestendo per il rinnovo quasi totale di una delle componenti della Corte Costituzionale: quella di elezione parlamentare. Sono cinque giudici su quindici, quanti ne nomina il presidente della Repubblica o provengono, come dice l’articolo 135 della Costituzione, dalle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”.

         Dei cinque giudici di elezione parlamentare, uno -la ex presidente della stessa Corte Silvana Sciarra- è scaduto quasi un anno fa. Altri tre scadranno a dicembre, fra i quali l’attuale presidente Augusto Barbera. Un pacchetto di quattro giudici da eleggere insieme è una tentazione irresistibile per una politica da tempo abituata a scambiare, volente o nolente, consapevole o non, il pluralismo per lottizzazione. Magari sarà stato anche per questo che le opposizioni, mobilitatesi solo quando la premier Giorgia Meloni ha tentato di non fare fallire anche la ottava votazione per l’assegnazione del seggio che fu della Sciarra, hanno lasciato trascorrere quasi un anno senza preoccuparsi del vuoto alla Consulta.

Il capogruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia, al Corriere della Sera

         Intervistato dal Corriere della Sera sull’appena rimancata elezione di un giudice e sugli altri tre che stanno per scadere, il capogruppo del Pd al Senato ha testualmente risposto: “Abbiamo due mesi di tempo per trovare un accordo su tutti e quattro”. Il plurale mette insieme maggioranza e opposizioni. “Noi    -ha aggiunto Boccia, non so se parlando solo a nome del suo partito o anche degli altri più o meno aspiranti al fantomatico campo largo dell’alternativa al governo- diamo la massima disponibilità a trovare una soluzione. Le scelte più importanti si risolvono con la politica, non con i muscoli dei numeri. Speriamo che Giorgia Meloni lo capisca. La Consulta può fare a meno di un giudice per qualche settimana ma di quattro, evidentemente, è impossibile”.

         Quando e se i giudici mancanti diventeranno quattro sui cinque di elezione parlamentare e sui 25 complessivi della Corte concepita dai costituenti nel 1947 e creata nel 1955 per diventare operativa l’anno dopo ancora, il Parlamento potrà correre anche con Mattarella, come accadde a suo tempo in analoghe circostanze con Francesco Cossiga al Quirinale, il rischio di finire sotto minaccia di scioglimento per inadempienza costituzionale.  

         Tutti insomma dovranno, con le buone o le cattive, accedere al già ricordato mercato -ripeto, tutto politico- della Corte e distribuirsi i seggi con la maggioranza qualificata necessaria per venirne a capo.

         Se questo spettacolo, scenario o com’altro lo si voglia o lo si debba chiamare vi sembra all’altezza della moralità che si reclama dalla politica, non so. A me non tanto, considerando anche l’articolo 54 della Costituzione tanto abusato nel dibattito politico, ai confini di quello giudiziario. Che dice: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

I parlamentari, in verità, i partiti che sono alle loro spalle e i rispettivi vertici non giurano. Ma non per questo, credo, possano o debbano sentirsi autorizzati a soprassedere sia alla disciplina sia all’onore. E a giocare invece, nel caso di cui stiamo parlando, quello cioè dell’elezione dei giudici costituzionali, con i candidati, reali o potenziali, coperti o scoperti, furbescamente protetti o no dalle schede bianche, come con i birilli, usando come elastici i cosiddetti conflitti d’interesse. Come quello contestato al consigliere giuridico della premier per la presunta paternità del disegno di legge ancora all’esame delle Camere sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, gestito in realtà dalla ministra delle riforme, ed ex presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. 

E pensare che nel non lontanissimo 1991 vi fu un ministro della Giustizia -ripeto, della Giustizia- nominato giudice costituzionale dall’allora presidente della Repubblica. I nomi non contano, bastando e avanzando il fatto per rimettere i piedi a terra.

Pubblicato su Libero

La “irruzione” del Comandante generale dei Carabinieri nella riforma della cittadinanza

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Non per volere sminuire tensioni, contrasti, equivoci veri o presunti che cronache più o meno retrosceniste vedono e raccontano nei rapporti fra la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia sulle tasse, o il ministro della Difesa sul grado di coinvolgimento dei servizi segreti nel dossieraggio di cui si sta occupando la Procura della Repubblica di Perugia, o i parlamentari del suo stesso partito che avrebbero tradito la segretezza dell’operazione predisposta a Palazzo Chigi, e perciò fallita, per eleggere all’ottava votazione del Parlamento in seduta congiunta a giudice costituzionale il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini; non per volere sminuire, ripeto, tutto questo e altro ancora che può comprensibilmente eccitare la curiosità di lettori ed elettori, ma la notizia del giorno mi sembra un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dal comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi.

         Quest’ultimo alla vigilia della scadenza del mandato e della sua sostituzione, e con l’esperienza maturata in tanti anni di servizio sul fronte dell’ordine e  della sicurezza ha condiviso e rilanciato il tema, controverso nella maggioranza, di una riforma delle norme sulla cittadinanza per favorire l’integrazione degli immigrati.

Il generale Teo Luzi al Corriere della Sera

         La legge risalente  al 1992, cioè a 32 anni fa, “non rispecchia più il cambiamento che c’è stato”, ha detto il generale. “Poi -ha aggiunto- come debba essere la nuova per tutelare la cultura italiana, tocca alla politica dirlo. La contrapposizione non porta da nessuna parte. Io personalmente sono molto aperto: occorre una normativa più moderna”: non quella. quindi, che il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini e una parte consistente, credo, del partito della premier considerano sufficiente. Per cui nelle manifestazioni leghiste il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani viene definito “scafista” e vaffanculato per sostenere che un figlio di immigrato dopo dieci anni di studio in Italia, insieme con i nostri figli e nipoti, potrebbe ben essere riconosciuto cittadino italiano chiedendolo con le dovute modalità.

         Che succederà adesso che si è pronunciato su questa materia il generale comandante, pur uscente, dellla popolarissima, peraltro, Arma dei Carabinieri in Italia? Verrà dato dello scafista pure a lui? Verrà vaffanculato, alla maniera grillina, pure lui? Gli verrà rimproverato, come ha già fatto Salvini personalmente con Tajani nei giorni scorsi, di avere “mangiato pesante”, e probabilmente bevuto troppo? Chissà.

Tutti gli errori nella partita sul seggio vacante della Corte Costituzionale

Dal Dubbio

Ho letto che la premier Giorgia Meloni sarebbe stata pronta a partecipare alla votazione a Montecitorio, in seduta congiunta delle Camere, se avesse avuto la sensazione di un contributo risolutivo all’elezione del suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini a giudice della Corte Costituzionale. Dove da un anno è vacante il seggio lasciato da Silvana Sciarra per scadenza di mandato. E avrebbe fatto bene, secondo la mia personalissima opinione, non foss’altro per motivi di coerenza rispetto all’iniziativa assunta nei giorni precedenti, e finita sui giornali per una fuga di chat telefoniche, di mobilitare la maggioranza per restituire alla Corte la sua completezza. Prima che scadano, fra poche settimane, altri tre giudici di elezione parlamentare, con la conseguente apertura di un sostanziale mercato politico per la distribuzione dei seggi fra i partiti e i loro rispettivi gruppi parlamentari. Un mercato che, sempre a mia modestissima opinione, non sarebbe il massimo per la credibilità della politica nei rapporti con un’opinione pubblica sempre meno attratta dalle urne.

I pacchetti su cui negoziare, generalmente dietro le quinte, senza alcuna trasparenza, diventano pacchi indigeribili agli occhi, e allo stomaco, di molti elettori purtroppo abituati da una trentina d’anni ad una campagna di demonizzazione e discredito della politica. Una campagna sfociata nella riforma imposta dai grillini nel loro momento di maggiore forza su una riduzione demagogica della consistenza delle Camere. Scambiate dal MoVimento 5 Stelle per la famosa scatola di tonno da aprire per svuotare. E riempirla poi, con il limite massimo dei due mandati ancora difeso e voluto da Beppe Grillo, anche a costo di una scissione del MoVimento per via giudiziaria, con un personale politico tanto rinnovabile, per carità, quanto impossibilitato, con minore carità, a maturare una competenza all’altezza dei problemi del Paese.

Giorgia Meloni

Quando è stata informata non solo e non tanto dell’aventinismo adottato dalle opposizioni per vanificare anche la ottava votazione per il ripristino del plenum della Corte Costituzionale quanto delle assenze nella maggioranza, che l’allontanavano ancora di più dai 363 voti necessari per l’elezione del candidato, a questo punto coperto dal ricorso alla scheda bianca, la premier è rimasta nel suo ufficio di Palazzo Chigi. E il suo nome è comparso sul tabellone di Montecitorio solo per la mancata risposta all’invito a votare.

Dal Riformista

In quel tabellone si è plasticamente materializzato così tutto il carattere paradossale della vicenda innescata proprio dalla Meloni. Che si è conclusa infelicemente per lei, d’accordo, ma male anche per le opposizioni unite solo nell’arroccamento ostile, in quella che il Riformista ha definito criticamente la “strategia dell’astensione”, contro quella dell’attenzione proposta nel 1968 da Aldo Moro a tutti i partiti per cercare di costruire meglio il futuro della politica italiana.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da www. startmag.it il 12 ottobre

Dietro e davanti alla mancata elezione del giudice costituzionale a Montecitorio

Dalla Ragione

         Dal pur metaforico Aventino dell’astensione parlamentare -o “Avventino”, come lo ha sarcasticamente definito la Ragione di Davide Giacalone- la segretaria del Pd Elly Schlein si è vantata di avere “fermato” la maggioranza di governo nell’assalto secondo lei predatorio al seggio della Consulta vacante da quasi un anno, dopo l’esaurimento del mandato di Silvana Sciarra, salita sino al vertice della Corte Costituzionale.          E tutti dalle opposizioni, una volta tanto unite, hanno applaudito e festeggiato. I barbari di Giorgia Meloni, sempre metaforici, avrebbero insomma avuto la lezione che meritavano con quelle 323 schede, peraltro bianche, raccolte a favore della candidatura virtualmente coperta di Francesco Saverio Marini, contro le 363 che sarebbero state necessarie per formare la maggioranza qualificata richiesta.

Dal Corriere della Sera

         “A vuoto”, ha titolato il Corriere della Sera sulla ottava votazione svoltasi inutilmente in seduta congiunta di deputati e senatori per il completamento di una Corte Costituzionale che peraltro sta per perdere altri tre giudici di elezione parlamentare. Cioè sta per entrare in una condizione di virtuale delegittimazione per la quasi assenza, a quel punto, della componente di spettanza parlamentare, diciamo così, dovendo cinque dei quindici giudici della Consulta essere eletti dal Parlamento, aggiungendosi ai cinque di nomina del Presidente della Repubblica e ai cinque spettanti, come dice la Costituzione, alle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”.

Dal tabellone di Montecitorio

         Otto votazioni “a vuoto”, per ripetere la formula del Corriere della Sera, non sono francamente indicative della buona salute, diciamo così, di un Parlamento e, più in generale, di un sistema istituzionale, anche se vi sono state altre elezioni di giudici costituzionali più tormentate. Non ne esce bene la maggioranza di governo propostasi di eleggere da sola un giudice pur con un così alto “quorum”, che presuppone normalmente il coinvolgimento di almeno una parte delle opposizioni. E non ne esce bene, in particolare, la premier Meloni, espostasi nel braccio di ferro scommettendo sugli ultimi nuovi arrivi nella maggioranza parlamentare da aree di opposizione o terzopoliste, ma paradossalmente sottrattasi pure lei alla votazione per ragioni, diciamo così, di stile.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         Non escono tuttavia bene neppure le opposizioni, che hanno montato uno scandalo sulla candidatura coperta del competentissimo consigliere giuridico della presidente del Consiglio dopo che alla Corte è toccato di accogliere nel 1991 fra i giudici un ministro della Giustizia, trasferitosi direttamente dal dicastero di via Arenula alla Consulta dirimpettaia del Quirinale. E destinato a concludere da presidente il suo mandato di alta garanzia.

I nomi qui non contano: né quello di allora né quello mancato di oggi. E’ questione di conoscenza della storia. E di civiltà nella conduzione anche dell’opposizione, oltre che della maggioranza, e del governo.  

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Mai una condanna esemplare per un pubblico ministero che sbaglia

Da Libero

  L’avvocato difensore dell’ex procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del collega Sergio Spadaro ha informato i giornalisti della “sofferenza dell’ingiustizia” avvertita dai suoi assistiti per essere stati condannati dal tribunale di Brescia a 8 mesi di carcere con attenuanti generiche e sospensione della pena per “rifiuto d’atti ufficio”.

         Ma maggiore è la sofferenza forse di chi ha seguito la lunga, complicatissima vicenda giudiziaria che è appena costata la condanna di De Pasquale e Spadaro ma fra il 2018 e il 2021, per non parlare degli anni delle indagini preliminari al processo, costò all’Eni, al suo amministratore delegato Claudio Descalzi e al management della più famosa azienda pubblica italiana nel mondo il sospetto di corruzione internazionale per una concessione petrolifera in Nigeria. Processo conclusosi con l’assoluzione piena degli imputati, contestata dall’accusa con un ricorso all’appello ritirato poi dalla Procura Generale.

         E’ a quel processo, e alla coda tagliata -ripeto- dalla stessa Procura Generale, che si riferisce il “rifiuto d’atti d’ufficio” contestato a De Pasquale e a Spadaro dalla Procura di Brescia e confermato dal tribunale. Atti d’ufficio consistenti in prove a discarico degli imputati, e a carico invece di un ex dipendente dell’Eni che dopo essere stato licenziato li aveva accusati di corruzione per quella concessione petrolifera nigeriana. E lasciati sulla graticola dello sputtanamento -scusate il termine- per un bel po’ di tempo grazie all’aiuto ricevuto dai due magistrati dell’accusa condannati per questo a Brescia.

         La sofferenza di chi ha seguito quella vicenda giudiziaria dell’Eni e dei suoi dirigenti, e che mi sono permesso di aggiungere a quella di chi subì quel processo e il tentativo di riaprirlo dopo la prima sentenza d’assoluzione, risulta maggiore, e ancora meno sopportabile, alla luce di un giudizio che, prima ancora del tribunale di Brescia, è arrivato a carico di De Pasquale dal Consiglio Superiore della Magistratura. Che nello scorso mese di maggio, occupandosi di lui e del suo ruolo di procuratore aggiunto riconobbe con 23 voti e quattro astensioni come “dimostrata l’assenza -testuale- in capo al dottor De Pasquale dei prerequisiti dell’imparzialità e dell’equilibro, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza misura e senza moderazione”.

         Il documento del Consiglio Superiore della Magistratura, diffuso nei maggiori dettagli dall’insospettabile Fatto Quotidiano, di solito molto riguardoso verso i magistrati, specie quelli d’accusa,  stigmatizzò “la pervicacia dimostrata” sempre da De Pasquale “in tutte le sedi in cui è stato chiamato a illustrare il proprio operato”: una pervicacia “idonea a dimostrare” come “le condotte poste in essere…lungi dall’essere contingenti e occasionali, rappresentino un modus operandi consolidato e intimamente connesso al suo modo di intendere il ruolo ricoperto”.

         “Per questo -raccontava Il Fatto Quotidiano– il magistrato decadrà dall’incarico di procuratore aggiunto e tornerà un semplice sostituto. Come spesso accade, però, la decisione del Csm sui primi anni del suo mandato di dirigente è arrivata quando il magistrato ha già concluso il secondo quadriennio, l’ultimo possibile in base alla legge. La conseguenza più pesante, dunque, sarà l’impossibilità per De Pasquale di candidarsi a ulteriori incarichi direttivi”.

Gabriele Cagliari

         Non per infierire, considerandogli giustamente il diritto di essere considerato sul piano penale innocente sino a condanna definitiva per il “rifiuto d’atti d’ufficio” nel processo di corruzione internazionale noto come Eni-Nigeria, ma per completezza d’informazione ricordo di Fabio De Pasquale anche la forte esposizione mediatica, a dir poco, procuratagli nel 1993 dal suicidio in carcere dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Che si uccise il 20 luglio, cinque giorni dopo essere stato interrogato da De Pasquale ricavando l’impressione di una possibile liberazione dopo 137 giorni di detenzione preventiva, o cautelare, per corruzione nell’ambito di Tangentopoli. Seguì invece solo il suicidio quando Cagliarsi si accorse della sua sensazione sbagliata.

Filippo Mancuso

         L’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso mandò a Milano due ispettori che esclusero negligenza da parte di De Pasquale. Successivamente il Guardasigilli Filippo Mancuso  tentò un’ispezione più generale a Milano sulla gestione delle indagini  note come “Mani pulite” ma, scontratosi anche col presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, finì sfiduciato dal Senato.

Pubblicato su Libero

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Meloni accorre, Schlein e Conte disertano la Sinagoga di Roma

Dal Corriere della Sera

Magari la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte non saranno andati alla Sinagoga di Roma, nel primo anniversario del pogrom del 7 ottobre in Israele da cui è nata la guerra su più fronti in corso in Medio Oriente, non volendosi incontrare dopo la rottura consumatasi fra di loro sul cosiddetto campo largo della futuribile alternativa al governo di centrodestra, o destra-centro, di Giorgia Meloni. Ma la loro assenza, specie se paragonata alla presenza puntuale della premier e alcuni suoi ministri ha prodotto mediaticamente e politicamente l’effetto opposto. Che è quello di avere riesumato, appunto nella comune assenza, quel campo dalla definizione controversa -largo, giusto, stretto, lungo, minato, santo- ma dalla contraddittorietà più clamorosa e inquietante nella valutazione di un evento così osceno come la strage di ebrei un anno fa nel loro territorio, e delle reazioni di Israele liquidate con pari oscenità come genocidio.

La premier Meloni accolta nella Sinagoga a Roma

         Politici come la Schlein e Conte ,anche se non di lunga esperienza, entrambi peraltro aspiranti a Palazzo Chigi, la prima per conquistarlo e il secondo per tornarvi dopo esservi stato due  anni e mezzo cambiando due volte maggioranza e tentandone inutilmente una terza per resistere all’arrivo di Mario Draghi; politici, dicevo, come la Schlein e Conte dovrebbero essere o diventare un po’ più accorti anche nella gestione delle loro assenze, oltre che delle presenze.

         Altrimenti nel confronto, diretto o indiretto, che entrambi cercano con la Meloni per proporsi come alternative nella leadership governativa continueranno ad uscire perdenti, divisi o uniti che siano nelle alterne fasi del dibattito o -come lo chiamava la buonanima di Silvio Berlusconi, partecipandovi pure lui- del teatrino politico.

Dal Riformista

         C’è voluto dello stomaco, a dir poco, a disertare la Sinagoga di Roma in una giornata come quella di ieri. Mentre in Medio Oriente, peraltro, Israele ha continuato a ricevere attacchi da chi ne contesta il diritto all’esistenza, fisica e di Stato.

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