Irritati ma non sorpresi a Palazzo Chigi per la giudice pro-migranti

La giudice Silvia Albano, del tribunale di Roma

A Palazzo Chigi se l’aspettavano. La decisione presa dalla giudice Silvia Albano, del tribunale di Roma, di trasferire in Italia i primi dodici migranti sbarcati in Albania per le operazioni preliminari alla definizione delle loro pratiche  è esattamente quella che una settimana fa il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, intervistato dal Foglio, aveva praticamente messo nel conto protestando contro la pretesa dei magistrati -peraltro suoi colleghi- di giudicare loro i paesi sicuri di provenienza o di rimpatrio dei migranti clandestini. Che il governo ritiene invece essere di sua esclusiva competenza per un decreto interministeriale adottato a suo tempo.

         L’Egitto e il Bangladesh da cui provengono i dodici migranti trasportati nei centri allestiti dall’Italia in Albania  non sono stati considerati sicuri, o del tutto sicuri, dalla giudice Albano. Che ha perciò disposto il trasferimento  dei dodici  in Italia non potendo essere respinti. E avendo diritto, proprio per la mancanza di sicurezza nei loro paesi, alla protezione internazionale negata invece dalle autorità amministrative italiane.

Da Repubblica

         La premier Meloni, raggiunta dalla notizia fra il Libano e la Giordania, in una missione peraltro servita anche a supplire alla sgradevole esclusione da un vertice a quattro fra americani, francesi, tedeschi e inglesi sulla guerra in Ucraina, oltre a protestare contro la “decisione pregiudiziale” della giudice di Roma ha annunciato per lunedì una riunione del Consiglio dei Ministri. Dove intende rendere più stringente la competenza del governo nella valutazione della sicurezza dei paesi di provenienza dei migranti. Più stringente, in particolare, con una legge d’urgenza che, sostituendo il decreto interministeriale in vigore, renderebbe possibile ricorrere anche alla Corte Costituzionale, oltre che ai gradi superiori della magistratura ordinaria, giù prenotati dal ministro dell’Interno, contro le decisioni giudiziarie di prima istanza.

         Al di là di questi aspetti giuridici della questione, si è aperto l’ennesimo scontro fra politica e magistratura. Anzi, fra governo e magistratura, potendo quest’ultima contare sistematicamente in questi casi sull’aiuto delle opposizioni di turno, accomunate dall’abitudine di usare la stampella giudiziaria nelle loro azioni politiche di contrasto. Lo dimostra il processo in corso a Palermo per il ritardato sbarco di 147 migranti nel 2019 disposto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Matteo Salvini a Palermo per il processo Open arms

A questo processo, dove sono stati chiesti dall’accusa sei anni di carcere per l’imputato, si è arrivati per l’autorizzazione concessa a suo tempo dal Senato col voto determinante dei grillini di sapore ritorsivo, dopo la crisi del primo governo di Giuseppe Conte. Che fu provocata nell’estate di quel 2019 da un Salvini eccitato, diciamo così, dal successo appena conseguito nelle elezioni europee. Che avevano portato d’un colpo la Lega dal 17 per cento delle elezioni politiche dell’anno precedente al 34.

L’antirenzismo dopo l’antiberlusconismo, l’anticraxismo, l’antileghismo

Dal Dubbio

Morto e cremato da più di un anno Silvio Berlusconi, lo “psiconano” dileggiato sulle piazze da Beppe Grillo prima che ne scoprisse i voti che continuava a prendere da defunto e li rinfacciasse al non più garantito Giuseppe Conte, il mondo pentastellato ha adottato come suo irriducibile nemico Matteo Renzi. Come una trentina d’anni il mondo comunista – post-comunista, considerando i cambi di nome e di simboli del Pci dopo il crollo del muro di Berlino e di ciò che esso aveva rappresentato- rivolse tutto il suo astio contro Bettino Craxi e, più in generale, i socialisti. Che potevano al massimo bussare uno alla volta alle porte della sinistra, ed assurgere anche a qualche carica istituzionale o di governo -dalla presidenza del Consiglio alla presidenza della Corte Costituzionale, entrambe assegnate a Giuliano Amato, per esempio- ma mai pensare di ricostituire davvero il loro partito e rimetterlo nel mercato elettorale. “Bisogna che non ritrovino il gusto di raccogliere voti”, venne una volta attribuito, non so francamente se a torto o a ragione, a Massimo D’Alema prima che Renzi si proponesse di rottamarlo.

Dal Fatto Quotidiano di ieri

         Mi ha colpito quel richiamo liberatorio  ieri sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di un articolo che riferiva all’interno la esclusione, mancanza e quant’altro del simbolo del partito di Renzi nelle elezioni regionali del mese prossimo in Umbria ed Emilia Romagna. Neppure in Liguria, dove si voterà fra una quindicina di giorni, sono state notoriamente accettate tracce renziane, si vedrà con quali effetti sui risultati della corsa dell’ex ministro del Pd Andrea Orlando alla presidenza della regione dopo la caduta per via giudiziaria di Giovanni Toti. Che si è rassegnato al patteggiamento per corruzione impropria allo scopo di sottrarsi al processo per corruzione non impropria allestitogli col rito accelerato dopo indagini durate quattro anni e condotte con i sistemi più invasivi: dal trojan intercettativo alla carcerazione preventiva.

Goffredo Bettini con Elly Schlein e Andrea Orlando

         Renzi è naturalmente, e comprensibilmente, il primo ad augurarsi che la corsa di Orlando in Liguria vada a sbattere contro i voti, pochi o molti che potranno essere, degli elettori della sua Italia Viva rimasti senza candidati perché discriminati da Conte in persona con il consenso dello stesso Orlando e, soprattutto, della segretaria del Pd Elly Schlein.  Alla quale Goffredo Bettini, sempre attivo dietro e davanti alle quinte del Nazareno, ha appena consigliato pubblicamente comprensione nei riguardi delle esigenze tattiche e strategiche del presidente delle 5 Stelle, assecondandolo quindi nelle azioni di contrasto a Renzi e non scambiando quest’ultimo per la personalità più rappresentativa dell’area moderata o centrista dello schieramento alternativo all’attuale governo.

Francesco Rutelli e Goffredo Bettini

         Piuttosto che a Renzi, e a Carlo Calenda, anche lui forse troppo polemico con Conte, bisognerebbe continuare o tornare a scommettere e a premere, secondo Bettini, su Francesco Rutelli per costruire la gamba di centro di un tavolo antimeloniano. E smetterla, sempre secondo Bettini, di sognare un distacco di Forza Italia dal centrodestra.

         L’antimelonismo, l’antirenzismo,  l’antiforzismo, naturalmente l’antisalvinismo e, più in generale, l’antileghismo, a dispetto dei tempi in cui un ancora influente Massimo D’Alema vedeva nella Lega di Umberto Bossi “una costola  della sinistra” caduta per errore nel campo di Silvio Berlusconi nel 1994. E tornatavi dopo una rottura durata cinque anni, nonostante nel frattempo lo stesso D’Alema e il suo successore a Palazzo Chigi, Giuliano Amato, avessero regalato al Carroccio, con la riforma del titolo quinto della Costituzione, l’ampliamento delle competenze regionali. Da cui è derivata la legge sulle autonomie differenziate impugnata dalle opposizioni col referendum e con alcuni ricorsi regionali alla Corte Costituzionale. Anti, anti, dicevo. Tutto contro, in un corpo a corpo infinito in cui Conte pensa di avere forse anche il fisico, oltre che le carte migliori per essere la punta più avanzata. O, come disse il già ricordato Bettini nel 2020, “il punto più alto di riferimento dei progressisti in Italia”.

La tomba di Bettino Craxi ad Hammamet

Di solito tuttavia il corpo a corpo in politica finisce male anche quando sembra riuscito bene per chi lo aveva voluto. Come accadde nel secolo scorso con l’anticraxismo finito nella vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, il più vistoso amico del leader socialista nel frattempo ritiratosi ad Hammamet per morirvi da esule, o da latitante per i suoi nemici.

Pubblicato sul Dubbio

I conti di Conte che non tornano negli attacchi alla manovra finanziaria

Dal blog personale di Beppe Grillo

         Giuseppe Conte, “con tutte le umoralità del caso” rimproverategli anche da un critico indulgente come Piero Ignazi su Domani, fa concorrenza alla segretaria del Pd Elly Schlein sul doppio fronte della politica estera e della politica economica. E’ in gioco la leadership dell’alternativa pur di là da venire, in un campo delle dimensioni variabili, secondo gli umori appunto di Conte. Che le lascia aumentare o le riduce guardando anche alla crisi dei suoi rapporti con Beppe Grillo all’interno del MoVimento 5 Stelle, a rischio di un’altra scissione. “#Riprendiamoci le nostre battaglie”, gli grida oggi l’ancora garante e consulente a contratto del movimento dal suo blog personale.

Dalla Stampa

         Stimolato anche da questa pressione, Conte ha indicato nella manovra appena varata dal governo “un imbroglio”. Ma a smentirlo c’è un economista indipendente che lo stesso Conte ha ben conosciuto e apprezzato avendolo avuto nel suo primo governo, di colore gialloverde, come ministro    dell’Economia e delle Finanze, come si diceva allora: il professore Giovani Tria.  Che aiutò l’esordiente e imprevisto presidente del Consiglio nel più difficile e stretto passaggio dei rapporti con l’Unione Europea giocando sui decimali di un 2,4 per cento di sforamento di un parametro diventato alla fine 2,04.

Dal Foglio d ieri

         Con la competenza che non ha perduto con la fine della sua esperienza ministeriale, sostituito nel secondo governo Conte con l’attuale sindaco piddino di Roma Roberto Gualtieri, il professore Tria ha assicurato in una intervista al Foglio che “anche questa legge di bilancio ci dice che Giorgetti sta gestendo bene i conti pubblici”. Si tratta non di un omonimo ma dello stesso uomo conosciuto e frequentato dall’allora ministro Tria come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo di Conte.

Conte, Tria e Giorgetti una volta insieme, e felici

Una foto galeotta rimasta impietosamente negli archivi internettiani  sorprese insieme i tre uomini compiaciuti e felici ai banchi del governo nell’aula del Senato. Da allora sono passati sei anni: non so se troppi o troppo pochi.  Ma chissà quanti anni dovranno ancora trascorrerne perché Conte si rassegni finalmente allo sfratto del 2021 da Palazzo Chigi. E rinunci all’ambizione, da cui si schermisce inutilmente davanti ai microfoni, di tornarvi con qualche “accrocco”, come Davide Giacalone sulla Ragione ha definito con ironia dichiaratamente benevola la manovra finanziaria protetta dal provvidenziale “vincolo esterno” e vissuta invece da Conte come una tragedia, oltre che come un imbroglio. Una tragedia quasi pari a quelle delle guerre che assediano l’Italia e in qualche modo la coinvolgono:  in Ucraina sostenendola dall’aggressione della Russia, in Medio Oriente presidiando purtroppo inutilmente con altri paesi sotto le insegne dell’Onu  zone sui confini tra Libano e Israele da dove le milizie terroristiche di Hezbollah devastano territori ebraici e i  loro abitanti.

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Enrico Berlinguer e la sua questione morale visti da lontano

Da Libero

Pur in debito professionale con Enrico Berlinguer per quello storico ”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, cioè del comunismo, strappatogli in una tribuna politica televisiva di fronte al  regime militare autoimpostosi dalla Polonia alla fine del 1981 per  evitare una occupazione sovietica, non mi piacciono né mi convincono le ricorrenti santificazioni del leader comunista. Neppure quella riproposta più ancora che dal film su di lui appena presentato al festival romano del cinema, da certi commenti che gli sono stati dedicati. Come quello che intesta a Berlinguer la palestra della buona politica chiusa o tradita dopo la sua morte.

Enrico Berlinguer in braccio a Roberto Benigni

         Con tutto il rispetto dovutogli, per carità, e anche con la simpatia che ancora mi procura, ogni volta che la ritrovo nelle ricerche di lavoro, quella foto che lo riprese sulle braccia di un giovane Roberto Benigni, imitato molti anni dopo da un ben più possente Guido Crosetto        con un’ancora più gracile Giorgia Meloni, continuo ad attribuire alla buonanima di Berlinguer, consapevole o inconsapevole che fosse stato, il ritorno in qualche modo del qualunquismo negli anni Ottanta, dopo la lontana  fine di quello di Guglielmo Giannini.

L’ultimo comizio di Enrico Berlinguer

La famosa “questione morale” nella quale fu incartata la celebre intervista di Berlinguer a Eugenio Scalfari, il 28 luglio 1981, a me sembra ancora oggi, o ancor più oggi, dopo tutto quello che è accaduto, la premessa o l’apertura di una stagione moralistica. Che si è tradotta nella delegittimazione della politica, nella sua rappresentazione, quando praticata da avversari, come di un’attività ai confini della malavita, e persino oltre. Come si gridava nelle piazze fra il 1992 e il 1993 inneggiando alle manette che scattavano ai polsi dei politici della cosiddetta Tangentopoli, molti dei quali poi assolti o neppure processati.  Berlinguer non c’era più, ma era cresciuto quello che egli aveva seminato nell’immaginario collettivo rivendicando orgogliosamente la “diversità” del suo partito rispetto a tutti gli altri. A cominciare dalla Dc, con la quale egli si era pure accordato fra il 1976 e le prime settimane del 1979 per la parentesi della “solidarietà nazionale” gestita da due governi monocolori di Giulio Andreotti.

Giorgio Napolitano

         Delle conseguenze di quella diversità, immediate sul piano delle alleanze e in prospettiva sul piano della cultura e della lotta politica, si resero conto subito anche dirigenti del partito di Berlinguer come Giorgio Napolitano. Da cronista parlamentare del Giornale di Indro Montanelli raccoglievo sfoghi riservati di deputati e senatori del Pci contro l’aureola nella quale si era avvolto il loro segretario isolandosi. La sua morte -e che morte, sul campo praticamente di un comizio nella campagna elettorale del 1984 per il rinnovo del Parlamento europeo- ridusse tutti nel Pci al silenzio. E al pianto.

         La diversità del suo partito dagli altri fu vantata, sventolata come una bandiera, da Berlinguer mettendo la pietra tombale sull’esperienza già ricordata della solidarietà nazionale, come per spiegarne e motivarne la fine. Che era stata d’altronde da lui stesso interrotta nel 1979, ma non per questioni morali, bensì un po’ per i voti costati al suo partito l’appoggio esterno ai governi monocolori democristiani, un po’ per la morte -e che morte, pure quella- del principale tessitore dei rapporti col Pci da parte della Dc, cioè Aldo Moro, e un po’, o forse soprattutto, dalla indisponibilità comunista ad accettare il riarmo missilistico della Nato imposto dal vantaggio acquisito dal blocco sovietico puntando gli SS 20 contro le capitali dell’Europa occidentale.

         Eppure era stato proprio Berlinguer, in una celebre intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, ripresa solo parzialmente dall’Unità, a parlare della Nato come di un ombrello sotto il quale i comunisti italiani avrebbero dovuto o potuto sentirsi protetti, dato il rapporto subordinato con i partiti comunisti “fratelli” che si concepiva e praticava a Mosca.

         Quando si trattò, con una convergenza soprattutto fra tedeschi e americani, di riparare quell’ombrello compromesso dal vantaggio del blocco dell’Europa dell’est, Berlinguer si tirò indietro. E il Pci alimentò le piazze mobilitate all’insegna del solito pacifismo a senso unico.

         Ricordare queste cose può risultare comprensibilmente scomodo, e persino ingiusto, per i cultori del mito berlingueriano, con o senza la tessera d’iscrizione al Pd su cui quest’anno sono riprodotti proprio gli occhi del leader comunista, ma credo sia doveroso per una cronaca o storia onesta.

Pubblicato su Libero

Un pò di esplorazione nella “palestra” del compianto Enrico Berlinguer

Già promosso a santino da Elly Schlein stampandone gli occhi sulla tessera di iscrizione del 2024 al Pd, Enrico Berlinguer è stato promosso a santo della sinistra, anzi della politica.

Da Repubblica

         “Enrico Berlinguer che fa ginnastica. Così inizia Berlinguer, la grande ambizione, il film di Andrea Segre che ha aperto ieri la Festa del Cinema di Roma. E’ quasi una promessa allo spettatore: entra in questa storia e farai due ore di palestra politica con il miglior personal trainer e alla fine l’emozione sarà pari al guadagno intellettuale. Il grande merito di questo film sul leader più amato dal popolo è la ricostruzione di come si fa la politica”, ha scritto Stefano Cappellini su Repubblica devotamente, a dir poco.

Dall’Unità

         Neppure l’Unità, nella versione riportata in edicola da Piero Sansonetti, è stata così generosa nel ricordo del leader comunista con quel titolo in rosso che propone “Il Noi di Berlinguer contro l’Io di oggi”. Un singolare egocentrico che accomuna sinistra, destra e soprattutto il centro, affossato dagli scontri furiosi fra gli uomini che due anni fa lo avevano proposto agli elettori come terzo polo: Carlo Calenda e Matteo Renzi.

L’attore Elio Germano nei panni di Enrico Berlinguer

         Dei morti, per carità, si deve avere sempre rispetto. Ma se ne può anche avere un ricordo diverso da quello solo enfatico di una cronaca propagandistica. La palestra -per restare all’immagine di Cappellini- che io ricordo di Enrico Berlinguer comprende di certo i tempi dei sacrifici impopolari che egli seppe accettare e difendere in condizioni difficilissime per il Paese, a costo di subire i fischi degli scioperanti sotto le finestre di casa raccolti da Giorgio Forattini in una vignetta celebre, forse più ancora di quella su Fanfani che salta come il tappo da una  bottiglia di champagne dopo la sconfitta referendaria sul divorzio. Ma in quella palestra c’è anche l’involuzione, secondo me, degli ultimi tre anni di vita del segretario più storico del Pci dopo Palmiro Togliatti.

Enrico Berlinguer ed Aldo Moro ai tempi della “solidarietà nazionale”

         C’è quella intervista ad Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981 rilasciata da un Berlinguer deciso a chiudere a doppia mandata la politica di cosiddetta solidarietà nazionale con la Dc, da lui stessa interrotta due anni prima pur di non sostenere il riarmo missilistico della Nato.  Sotto il cui ombrello egli aveva pur detto di sentirsi “più sicuro”. Quel riarmo, imposto dai missili che da est erano stati puntati contro le capitali dell’Europa occidentale, fece poi cadere il comunismo sotto il muro di Berlino senza sparare un colpo.

  Berlinguer coprì quel ritiro dalla solidarietà nazionale scoprendo, fra lo stupore di dirigenti comunisti come Giorgio Napolitano, una incompatibilità quasi genetica del Pci con gli altri partiti. La questione da lui sollevata fu definita “morale”. E segnò, a mio avviso, l’inizio della campagna di delegittimazione moralistica degli avversari e, più in generale, della politica. Una campagna proseguita anche dopo la scomparsa di Berlinguer e mai cessata, pur essendo morti i vecchi partiti ed essendone nati di nuovi.

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Le opposizioni unite solo negli insulti alla Meloni sulla politica estera e dintorni

Giorgia Meloni ieri alla Camera

         La maggioranza compatta nel sostegno con una risoluzione unica e le opposizioni divise fra cinque o sei documenti di contrasto all’azione e alle scelte di politica estera e dintorni del governo, alla vigilia di un Consiglio europeo e di un viaggio della premier Giorgia Meloni in Libano, sono uno spettacolo ormai così scontato, direi banale, a dispetto dei campi più o meno larghi annunciati e smentiti sulla strada dell’alternativa, che non se n’è trovata traccia nei titoli di prima pagina di tutti, ma proprio tutti i giornali. Anche di quelli di cosiddetta area governativa come Il Giornale. Che ha relegato all’interno, senza un rigo di richiamo in prima, la cronaca di Laura Cesaretti, meritevole anche per questo di essere citata e letta.       

Dal Giornale

“Al Senato -ha scritto la mia amica Laura- le opposizioni se la cavano grazie al regolamento: le loro sei diverse risoluzioni (che sulle crisi internazionali sono spesso opposte) vengono cestinate dopo l’approvazione di quella di maggioranza. Dal Pd un sospiro di sollievo: “C’è andata bene”. Alla Camera il regolamento è diverso e va in scena il consueto circo di voti per commi e intrecci di sì e no tra Pd, M5S, Azione, Avs, Iv, +Europa. Tutti contro la risoluzione di maggioranza, ognuno per suo conto sul resto. Una frasetta qua, una là, il Pd dà via alle chiacchiere innocue dei documenti altrui, poi vota contro la linea anti-Ucraina di 5S ma anche contro la linea  pro-Ucraina di Azione e +Europa, e contro le “sanzioni” anti-Israele chieste da 5S e Avs”.

Giuseppe Conte alla Camera

         Il racconto prosegue con una precisione da “servizio pubblico”, diciamo così, di cui personalmente ringrazio la cronista del Giornale. E che vale -per farsi un’idea di quanto è accaduto fra Camera e Senato- più degli insulti che la Meloni si è guadagnata dagli oppositori, in gara fra di loro a chi ne gridava di più forti: dalla “Calimero” di Giuseppe Conte e di Matteo, Renzi una volta tanto all’unisono, alla “bulla” della segretaria del Pd Elly Schlein in abito color crema, a vederne la foto, contro il rosso vivace della premier che l’ascoltava dal suo banco per niente sorpresa, pur dopo avere rispettato la stessa Schlein  consultandola al telefono quando la situazione in Medio Oriente si è fatta ancora più grave e pesante delle settimane e dei mesi precedenti, dopo il pogrom anti-ebraico dei terroristi di Hamas il 7 ottobre dell’anno scorso.

Elly Schlein alla Camera

         La cortesia, si sa, in politica non è né un obbligo né una consuetudine. La politica rimane o torna ad essere frequentemente quella miscela di “sangue e merda” lamentata una volta dal socialista Rino Formica, oggi quasi centenario. Quanto più gravi sono o diventano i problemi, e rischiosa elettoralmente appare la scelta di una linea responsabile, o di “coesione”, come dicono i presidenti di turno della Repubblica, tanto più le opposizioni dei nostri giorni si irrigidiscono. E si fanno concorrenza fra di loro continuando tuttavia a sognare, ripeto, una comune alternativa. Buon proseguimento.    

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Come ai grillini è passata la voglia beffarda di essere intercettati

Da Libero

Da presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte si è sempre vantato di avere portato in Parlamento due ex magistrati famosi come Federico Cafiero de Rhao, già procuratore nazionale antimafia, e Roberto Scarpinato, già procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo. Eletti nelle liste del partito dell’ex presidente del Consiglio due anni fa l’uno alla Camera e l’altro al Senato. E assegnati entrambi, per la loro indubbia competenza, alla Commissione parlamentare antimafia, l’uno assumendone la vice presidenza e l’altro senza gradi, da semplice componente.  

         Entrambi sono finiti in polemiche rumorose. Del primo è stata contestata la compatibilità per essere finita all’esame della Commissione una indagine della Procura di Perugia su uno scandalo di accessi abusivi a notizie riservate nella struttura della procura nazionale antimafia: scandalo esploso dopo la conclusione del mandato di vertice di Cafiero de Rhao ma di pratica anche antecedente, almeno secondo i sospetti degli inquirenti.

Paolo Borsellino

         Scarpinato si è trovato intercettato “casualmente”, ma per una trentina di volte, con un magistrato accusato di reati di mafia nella vicenda del depistaggio delle indagini sull’assassinio di Paolo Borsellino, finito anch’esso all’esame della commissione parlamentare antimafia.  

         Il senatore Scarpinato ha ragione a dolersi, a dir poco, della presunta casualità di tante intercettazioni in cui è finito senza la doverosa autorizzazione della Camera di appartenenza, sopravvissuta nell’articolo 68 della Costituzione alla riforma fortemente limitatrice delle prerogative parlamentari approvata nel 1993 a furor di piazza. Cui Camera e Senato cedettero nel clima -sempre a dir poco- avvelenato delle indagini note come “Mani pulite”, condotte sul finanziamento illegale dei partiti e sui reati di corruzione, concussione e quant’altro che secondo l’accusa ne derivavano, o ne erano a monte. Molti furono i processi neppure celebrati e molte le assoluzioni, ma l’impressione di una politica ridotta, anzi autoridottasi, ad un’associazione criminale rimase nell’immaginario collettivo. Con tutti quei cortei e quelle piazze inneggianti alle manette disposte nella solita via “cautelare” e ai magistrati che facevano “sognare” le folle.

Matteo Renzi

         Scarpinato, dicevo, ha ragione a dolersi delle sue troppe e troppo “casuali” intercettazioni.  Ma, vivaddio, ha ragione anche quel grande rompiscatole che è diventato per tutti Matteo Renzi prima a sinistra per il tentativo compiuto a suo tempo di modernizzarla, anche a costo di rottamarne i santini, o santoni, e poi anche a destra, almeno da quando si è offerto come componente di uno schieramento alternativo al governo in carica guidato dalla segretaria del Pd Elly Schlein, a dispetto dell’ambizione di Giuseppe Conte di tornare a Palazzo Chigi, E infatti Conte, che non gli ha mai perdonato di avergli fatto perdere nel 2021 la guida del governo mandandovi Mario Draghi, è insorto rivendicando l’incompatibilità con Renzi e liquidando come una invenzione giornalistica il cosiddetto campo largo antimeloniano.

         Ora, hanno voglia Conte e i suoi parlamentari di avercela con Renzi ma non possono certamente smentirlo quando egli ricorda i tempi non certo lontani -anzi ancora attuali, nonostante la solidarietà espressa a Scarpinato- in cui i pentastellati di ogni tendenza, contiana o grillina, difendevano a spada tratta qualsivoglia intercettazione, anche la più arbitraria o sospetta, gridando: “Intercettateci tutti”. Col sottinteso che solo a sentirsi a disagio da intercettati si è degni e meritevoli di perdere la copertura dell’articolo 15 della Costituzione, che ancora dice: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili: “La loro limitazione -prosegue la norma costituzionale- può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.

Ma che atto e atto, che garanzie e garanzie, hanno praticamente gridato per anni gli assatanati del giustizialismo, che hanno avvelenato la politica, anzi la società, più ancora di quanto non fosse già accaduto nella demolizione della cosiddetta Prima Repubblica. Vale per quegli o questi assatanati il vecchio proverbio che dice: “Chi semina vento raccoglie tempesta”.

Pubblicato su Libero

Novità anche nella guerra in corso sotto le cinque stelle di Conte e di Grillo

Dal Corriere della Sera

         Non è la guerra in Ucraina, e nemmeno quella su più fronti in Medio Oriente. Non si combatte con lancio di missili e sofisticati quanto mortali ricorsi all’elettronica che trasformano in ordigni telefonini e quant’altro si porta in tasca o si tiene fra le mani per comunicare. Ma è pur sempre una guerra politica, e personale, quella che si sta combattendo nel MoVimento 5 Stelle, a rischio della sua stessa sopravvivenza. Sono ormai ai ferri corti chi lo presiede, Giuseppe Conte, e chi lo fondò e tuttora ne è garante e insieme consulente a contratto per la comunicazione, Beppe Grillo.  

         Almeno da oggi, dopo l’intervista concessa dall’interessata al Corriere della Sera, debbono guardarsi da Chiara Appendino sia Conte, che la scelse quasi un anno fa come vice presidente, né Beppe Grillo, che a suo tempo era corso a Torino a festeggiare la sua elezione a sindaco.

Conte e Appendino una volta

         L’Appendino mi pare si sia stancata di sistemare amichevolmente il fazzoletto nel taschino della giacca di Conte, come da una celebre foto in uno studio televisivo, e abbia deciso invece di prenderne le distanze per il modo in cui sta guidando il MoVimento, che ha peraltro portato da circa il trenta per cento del 2018, quando ne ottenne a sorpresa l’investitura a presidente del Consiglio, a meno del 10 per cento nelle elezioni europee della primavera scorsa. Neppure Grillo, come dicevo, viene più trattato dall’Appendino col riguardo di un tempo, quando lui sventolava orgogliosamente da una finestra dell’albergo romano le stampelle dell’armadio per vantarsi delle prime cittadine pentastellate, allora, della stessa Roma e di Torino.

Grillo e Appendino una volta

         Adesso con prudenza, distacco e pare anche con un po’ di fastidio verso entrambi, la vice presidente del partito e deputata parla così di loro sul Corriere rispondendo alla domanda a favore di chi si sente schierata in questa che è da molti avvertita, anche nel MoVimento, come una corsa verso la scissione: “Sceglierei sempre e solo il movimento che ho visto crescere e nascere. Ora ci serve senso di appartenenza attorno a battaglie nuove. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono personalismi e mediatori”.

         Con un po’ di malizia, alla maniera di Giulio Andreotti convinto che a pensare male anche ai suoi tempi fosse un peccato ma s’indovinasse, potremmo sospettare dietro quelle “battaglie nuove” evocate dall’Appendino un riferimento polemico all’ambizione ormai consumata di Conte di tornare a Palazzo Chigi, condizionando a questa prospettiva anche la partecipazione al campo dell’alternativa perseguito dalla segretaria del Pd Elly Schlein. Che è spinta verso la guida di un eventuale altro governo, come leader del partito più votato fra quelli oggi all’opposizione, da un aspirante alleato come Matteo Renzi, cui già Conte non perdona di averlo prima salvato, nel 2019, e poi rovesciato, nel 2021, per fare arrivare a Palazzo Chigi Mario Draghi.

I brividi della Meloni dopo le soddisfazioni della politica estera

Dal Dubbio

Dev’essere costata molto a Giorgia Meloni la telefonata al premier israeliano Netanyau per dirgli a brutto muso che è “inaccettabile” la posizione da lui assunta contro la missione dell’Onu in Libiano, cui l’Italia partecipa con un importante contingente sotto attacco pur esso da parte dello Stato ebraico. Che reclama dalle forze multinazionali di sgomberare o arretrare per lasciare che gli israeliani proseguano le operazioni contro postazioni, arsenali e quant’altro dei terroristi di Hezbollah. Che hanno fatto in Libano come a Gaza, allestendo le loro macchine da guerra contro Israele sotto le abitazioni, le scuole, gli ospedali, le chiese, facendosene scudo. In Libano forse ancor più che a Gaza, usando come scudo anche l’Onu per la sua presenza militare nel territorio, disposta nell’ormai lontano 1978.

         Delle fotografie col premier israeliano sono pieni gli archivi e gli album della stessa Meloni, che da quando è a Palazzo Chigi si è mossa sul terreno internazionale con grande visibilità vantando non a torto una più incisiva presenza del governo a livello mondiale. Eppure a precedere Meloni a Palazzo Chigi era stato un uomo, Mario Draghi, che di credito internazionale aveva saputo guadagnarne moltissimo, già prima e non solo dopo quel viaggio ferroviario con Macron e Scholz verso l’Ucraina aggredita e invasa da Putin con un’operazione “speciale” progettata per concludersi in un paio di settimane.

         Purtroppo le cose negli ultimi mesi hanno preso a livello internazionale una piega che ha complicato azione, speranze, scommesse della premier. La quale deve centellinare incontri e telefonate con l’”amico Joe” in scadenza alla Casa Bianca, dopo averne raccolti baci e carezze sui capelli.  E la successione non è scontato a favore della vice Kamala Harris, rimanendo un osso duro l’ex presidente e concorrente Donald Trump. Nei cui riguardi la Meloni peraltro deve stare attenta già di suo, appartenendo lui a livello mondiale alla stessa famiglia conservatrice della quale lei è la leader in Europa.

La guerra in Ucraina

         In Ucraina la guerra si è sviluppata sino alla “stanchezza”, lamentata una volta dalla stessa Meloni nella trappola telefonica tesagli da comici russi, e alla decisione di  riparare con ripetuti incontri tutti  molto amichevoli alla impossibilità che ha sul piano politico ad aiutare Zelensky come lui  vorrebbe nell’uso delle armi occidentali per colpire obiettivi anche in territorio russo. E non solo per abbattere missili e altro che dalla Russia sono lanciati contro tutto ciò che ha la disgrazia di trovarsi sul suolo ucraino: oltre agli abitanti anche ospedali, scuole, centrali elettriche.

Carro armato israeliano in territorio libanese

         In Medio Oriente, poi, le complicazioni della guerra provocata dal pogrom di un anno fa si sono spinte sino a investire, come si è detto, la presenza dell’Unifil in Libano.

         Di una sola cosa può consolarsi la Meloni: del fatto che in politica estera le opposizioni sono messe peggio della maggioranza di governo per divisioni, confusioni e quant’altro.

Pubblicato sul Dubbio

Alberto Sordi chiama al telefono Meloni e Crosetto dall’aldilà….

Alberto Sordi nel film Tutti a casa

         Fra le cose che Giorgia Meloni non poteva prevedere arrivando quasi due anni fa a Palazzo Chigi, e ricevendo le consegne da un Mario Draghi visibilmente soddisfatto di dargliele in un clima di fiducia, a dispetto dell’opposizione praticatagli per un anno e mezzo, era sicuramente quella di ricevere, sia pure metaforicamente, la famosa telefonata di Alberto Sordi nel film Tutti a casa di Luigi Comencini, nel 1960.

Dal Fatto Quotidiano

         In quella telefonata, rimodulata oggi nella cattiveria di giornata del Fatto Quotidiano immaginando il ministro della Difesa Guido Crosetto come unico o principale destinatario, Alberto Sordi informava il comando, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, che americani e tedeschi si erano alleati fra loro sparando insieme contro i militari italiani.

         Ora in Libano terroristi di Herzobollah, cui i caschi blu avrebbero dovuto impedire di installare e sparare missili contro gli ebrei al di là dei confini, minacciano insieme e colpiscono con gli israeliani le postazioni e gli uomini e donne delle Nazioni Unite.

Postazione Unifil in Libano

         Al redivivo Sordi che chiama per comunicare l’imprevisto e chiedere istruzioni si risponde sia da New York, cioè dalla sede dell’Onu, sia da Roma di restare al proprio posto e di considerare “inaccettabile” la richiesta degli israeliani di allontanarsi per lasciare loro il terreno libero nelle operazioni di guerra avviate per neutralizzare le postazioni di Hezbollha sorte e sviluppatesi, ripeto, senza che l’Unifil, come si chiama la missione internazionale, glielo avesse impedito.  

Meloni e Nethanyau in passato

         La Meloni in persona si è incaricata di comunicare al premier israeliano il carattere inaccettabile della sua richiesta, pur avendo collezionato nei due anni alla guida di governo un bel po’ di fotografie di incontri con lui certificativi di eccellenti rapporti. Come possono cambiare rapidamente le cose, le situazioni, le impressioni e, diciamo pure, le convenienze politiche o d’altro tipo.  Che per la premier italiana sono ora quelle di condividere le posizioni critiche degli alleati, al di là e al di qua dell’Atlantico, nei riguardi degli israeliani arrivati, nelle lore azioni difensive dalla vecchia pretesa dei nemici di ricacciarli in mare, se non nelle camere a gas, a “sparare contro il mondo”, ha detto inorridito Romano Prodi. E ha condiviso il ministro della Difesa Guido Crosetto nella sua imponenza anche fisica.

Da Libero

         Il prodotto di questa drammatica situazione è quello degli “italiani tra due fuochi” gridato nel titolo di Libero. Che pur da posizioni di sostegno al governo, e al pari del Foglio di Giuliano Ferrara distante dallo stesso governo secondo i giorni e le occasioni, ha suggerito il ritiro degli italiani dal Libano. Se non la fine della missione Unifll decisa dall’Onu nel lontano 1978: l’anno dell’uccisione di Aldo Moro in Italia e del governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti appena riconfermato col voto di fiducia, e non più con l’astensione,  del Pci di Enrico Berlinguer. Preistoria, direi.

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