I dubbi della “cavia”, come si sente Andrea Orlando dopo la sconfitta

Emilio Giannelli sul Corriere della Sera

    Ma la “cavia” che Andrea Orlando ha dichiarato di sentirsi dopo la sconfitta nella corsa alla presidenza della Liguria con chi se la può o deve prendersela di più?  Bella domanda. Neppure lui ha saputo o voluto rispondere. Con Giuseppe Conte, che gli ha ristretto il “campo” dell’alternativa al centrodestra estromettendo i renziani? Con Elly Schlein, la segretaria del suo partito, il Pd, che ha accettato quella estromissione, cioè quel veto, mirando più a fare guadagnare voti al Nazareno, riuscendovi col 28,5 per cento che lo ha portato in testa alla classifica generale, senza curarsi del resto? Con Carlo Calenda, che sotto sotto ha spalleggiato Conte contro i renziani minacciando di sfilarsi dal “campo” piuttosto che ritrovarsi con loro? Con Beppe Grillo che, pur disertando personalmente le urne sentendosi tradito “dalle pecore”, è stato intravisto dietro la candidatura di disturbo di Nicola Morra? Che col suo pur misero 0,9 per cento ha sottratto al Movimento 5 Stelle quei pochi voti che gli sarebbero bastati per contribuire non alla sconfitta ma alla vittoria dell’ex ministro piddino?

Marco Bucci

         Dentro ciascuna di queste domande c’è drammaticamente, come in un romanzo giallo, la chiave per accedere alla causa principale della sconfitta della sinistra e della conseguente vittoria del centrodestra guidato dal sindaco di Genova Marco Bucci. Che era oggettivamente partito penalizzato dalla vicenda giudiziaria dell’ex governatore Giovanni Toti, specie dopo che quest’ultimo a sorpresa aveva preferito il patteggiamento al processo per corruzione.

          In verità, c’è anche chi pensa che la chiave per accedere alla causa della sconfitta della sinistra si trovi nell’affluenza alle urne, scesa ancora di più rispetto a quella già sotto il 50 per cento delle elezioni regionali di giugno. L’astensionismo tuttavia è una bestia nera ma ambivalente della democrazia, sempre più difficile, proprio per la sua crescente e trasversale consistenza, da classificare politicamente, a destra piuttosto che a sinistra, o viceversa.

Giuseppe Conte

          A individuare la ragione prevalente della sconfitta della sinistra in Liguria potrebbe contribuire il dibattito all’interno della stessa sinistra e dei partiti che la compongono. Ma anche questo è al momento bloccato, o quasi, dal perdurante clima elettorale che lo altera, dovendosi votare il 17 novembre in Emilia-Romagna e in Umbria. Sotto le 5 Stelle invece esso è sin troppo acceso per risultare, fra il parricidio attribuito a Conte e l’infanticidio attribuito o persino rivendicato da Grillo col “diritto all’estinzione” del movimento da lui fondato ma ormai sfuggitogli di mano e di testa. Si vedrà a fine novembre se e cosa rimarrà davvero delle 5 Stelle con l’assemblea costituente voluta dal suo presidente contro le diffide del fondatore e tuttora garante a termini di statuto, “bravissimo -ha scritto sul Fatto Quotidiano il suo disincantato ammiratore Andrea Scanzi- ad avere torto anche quando ha ragione”.

Dalla Cosa di Occhetto alla Cosa di Conte, dal Pci alle 5 Stelle

Da Libero

Come dalla casa si passò alla Cosa di Achille Occhetto dopo il crollo del muro di Berlino si è passati ora dalla casa alla Cosa di Giuseppe Conte dopo il crollo del muro di Beppe Grillo. Il paragone ha del paradossale, lo so, ma fino ad un certo punto.  E’ la storia della sinistra che quando finisce nelle mani sbagliate è compensata nel governo dalla destra: nel 1994 con Silvio Berlusconi, oggi con Giorgia Meloni.

Achille Occhetto aveva come casa addirittura il Pci che era già stato di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. E passò alla Cosa in attesa di trovare con i suoi compagni il nuovo nome da dare ad un partito finito sotto le macerie di un muro il cui crollo fu propedeutico a quello dell’Unione Sovietica e, più in generale, del comunismo.

Achille Occhetto ai tempi della “Cosa”

La Cosa di Occhetto sfociò nel 1991 nel Pds e nella Quercia, acronimo e simbolo -rispettivamente- del Partito Democratico della Sinistra. Seguirono sette anni dopo i Democratici di sinistra senza più il partito, passato generalmente di moda con l’irruzione di Berlusconi nella politica. E infine, dopo altri nove anni, tornò il Partito, con la maiuscola, seguito dal semplice aggettivo “democratico”, di cultura o ambizione americana, nelle corde del suo primo segretario Walter Veltroni. La rinuncia pur nominalistica alla sinistra, rimasta solo nei titoli del radicalismo verde e socialista, segnò un’altra rottura con la tradizione e la cultura dei comunisti, che avevano immaginato alla loro sinistra, appunto, solo i pidocchi nella criniera di memoria togliattiana.

         Pensate un po’ in quale pur paradossale e incidentale intreccio politico, culturale, ideologico è finito il povero Conte alla presidenza di una formazione che già ha perso da tempo la caratteristica dichiaratamente movimentistica, appunto, a vantaggio della formula partitica. Ma ha perso ormai anche la discendenza da Grillo. Che lo ha disconosciuto come figlio, disertando anche le urne, per come lo avrebbe ridotto Conte: a immondizia, sia pure “compostibile”. Dalla quale chissà cosa -la Cosa, appunto, con la maiuscola – potrà derivare dopo il passaggio per l’assemblea costituente programmata dall’ex presidente del Consiglio con procedure contestate da un garante presosi evidentemente troppo sul serio. E in fondo caduto nella trappola, diciamo la verità, di un contratto di consulenza che, visto a posteriori, con tutta l’arbitrarietà di un’analisi di questo tipo, forse non parve vero a Conte di accordargli.

Beppe Grillo

Quel contratto è bastato e avanzato per tirare giù il fondatore e sovrano del MoVimento 5 Stelle dal suo trono, trascinandolo via via in quel ruolo o in quel problema che lo stesso Conte ha definito “marginale” disinibendo Grillo nella reazione. Ed essendo a sua volta restituito all’immagine del “Mago di Oz” che Grillo gli aveva affibbiato già una volta, rinunciandovi poi con quel benedetto, o maledetto, contratto di consulenza da 300 mila euro l’anno.

         Probabilmente Grillo esagera a scaricare su Conte tutte la responsabilità della crisi pentastellata.  E a ignorare, esorcizzare, ridurre le sue, di responsabilità. A livello almeno di comunicazione, che è poi la remunerata competenza dallo stesso Grillo rivendicata.

A Conte, d’altronde, è capitato anche a me, e di recente, di attribuire qualche errore in più di quelli commessi, come la perfezione -dovuta invece a Mario Draghi, suo successore a Palazzo Chigi- della pratica di promozione di Dario Franceschini da ministro prudentemente dei Beni culturali a ministro, più aulico ma meno prudente, della Cultura. Ma Conte, benedett’uomo, deve pur riconoscere di avere anche lui delle responsabilità nella gestione di quella che è diventata una Cosa. Egli deve pur convenire che non solo come presidente del Consiglio, cambiando maggioranza da un giorno all’altro, ma anche come presidente del movimento si è assunto troppe parti politiche in commedia, come si dice in gergo popolare.

Pure a sinistra, dove ha voluto collocarsi fra i dubbi, le resistenze e ora pure i dileggi di Grillo, sino ad essere promosso al “punto di riferimento più alto dei progressisti” dal generoso Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio ha finito più per creare problemi che per offrire soluzioni. Prima, per esempio, rompendo col Pd di Enrico Letta per accelerare la fine del governo Draghi e l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi. E poi ingaggiando col Pd di Elly Schlein una partita più di concorrenza che di alleanza, più di impuntature che altro.  Ne è appena derivata la clamorosa sconfitta del campo ristretto da Conte in Liguria, a vantaggio di un centrodestra cui l’elettorato ha confermato, anche senza l’autorizzazione della solita magistratura, l’onere di governare.

Pubblicato su Libero

La rivoluzione esaurita e quella fallita sotto le cinque stelle

Dal Dubbio

La rivoluzione, a suo modo, del Beppe Grillo “vaffanculista” -scusate la parolaccia da lui sdoganata sulle piazze nel 2007- mi sembra finita senza aspettare i 70 anni e più accumulati dalla rivoluzione più seria e drammatica di Lenin. Ma la rivoluzione in qualche modo propostasi anche da Giuseppe Conte, strappando progressivamente e infine rompendo con Grillo, furioso più ancora dell’Orlando appena battuto nelle elezioni regionali in Liguria, è già fallita nella stessa Liguria. Dove non solo l’ex ministro piddino Andrea Orlando ha perduto, con l’onore tuttavia di un testa a testa fino all’ultima scheda, per il restringimento del campo della sinistra voluto appunto da Conte escludendovi Matteo Renzi, ma l’ex premier pentastellato ha più che dimezzato i voti del suo movimento in soli quattro mesi, quanti ne sono trascorsi dalle elezioni europee di giugno.

         Il Pd di Elly Schlein può almeno vantarsi, come Andrea Orlando del testa a testa, di essere salito al 28 per cento dei voti doppiando il partito della premier Giorgia Meloni, ma il movimento di Giuseppe Conte può solo registrare un arretramento che ne certifica e aggrava la crisi.

Stefano Rolli sul Secolo XIX

I giornali hanno attribuito a Conte la convinzione, espressa a caldo mentre da Genova gli arrivavano le notizie della sconfitta, secondo cui le cose sarebbero andate ancora peggio per le cinque stelle se lui non avesse puntato i piedi contro Renzi con un veto imposto alla Schlein. Ma è appunto una sua convinzione, conforme all’ostinazione che Conte ha dimosrato nella sua esperienza politica di sei anni, cominciata -credo, sfortunatamente per lui- dal gradino più alto della carriera: quello di Palazzo Chigi. Chi troppo rapidamente sale, cade sovente precipitevolissimevolmente, dice un vecchio proverbio scioglilingua.

         In Liguria tuttavia è spiaggiata anche la magistratura dopo avere ghigliottinato la precedente amministrazione regionale di centrodestra, passata soltanto dal timone di Giovanni Toti a quello di Marco Bucci.

Pubblicato sul Dubbio

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