Irritati ma non sorpresi a Palazzo Chigi per la giudice pro-migranti

La giudice Silvia Albano, del tribunale di Roma

A Palazzo Chigi se l’aspettavano. La decisione presa dalla giudice Silvia Albano, del tribunale di Roma, di trasferire in Italia i primi dodici migranti sbarcati in Albania per le operazioni preliminari alla definizione delle loro pratiche  è esattamente quella che una settimana fa il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, intervistato dal Foglio, aveva praticamente messo nel conto protestando contro la pretesa dei magistrati -peraltro suoi colleghi- di giudicare loro i paesi sicuri di provenienza o di rimpatrio dei migranti clandestini. Che il governo ritiene invece essere di sua esclusiva competenza per un decreto interministeriale adottato a suo tempo.

         L’Egitto e il Bangladesh da cui provengono i dodici migranti trasportati nei centri allestiti dall’Italia in Albania  non sono stati considerati sicuri, o del tutto sicuri, dalla giudice Albano. Che ha perciò disposto il trasferimento  dei dodici  in Italia non potendo essere respinti. E avendo diritto, proprio per la mancanza di sicurezza nei loro paesi, alla protezione internazionale negata invece dalle autorità amministrative italiane.

Da Repubblica

         La premier Meloni, raggiunta dalla notizia fra il Libano e la Giordania, in una missione peraltro servita anche a supplire alla sgradevole esclusione da un vertice a quattro fra americani, francesi, tedeschi e inglesi sulla guerra in Ucraina, oltre a protestare contro la “decisione pregiudiziale” della giudice di Roma ha annunciato per lunedì una riunione del Consiglio dei Ministri. Dove intende rendere più stringente la competenza del governo nella valutazione della sicurezza dei paesi di provenienza dei migranti. Più stringente, in particolare, con una legge d’urgenza che, sostituendo il decreto interministeriale in vigore, renderebbe possibile ricorrere anche alla Corte Costituzionale, oltre che ai gradi superiori della magistratura ordinaria, giù prenotati dal ministro dell’Interno, contro le decisioni giudiziarie di prima istanza.

         Al di là di questi aspetti giuridici della questione, si è aperto l’ennesimo scontro fra politica e magistratura. Anzi, fra governo e magistratura, potendo quest’ultima contare sistematicamente in questi casi sull’aiuto delle opposizioni di turno, accomunate dall’abitudine di usare la stampella giudiziaria nelle loro azioni politiche di contrasto. Lo dimostra il processo in corso a Palermo per il ritardato sbarco di 147 migranti nel 2019 disposto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Matteo Salvini a Palermo per il processo Open arms

A questo processo, dove sono stati chiesti dall’accusa sei anni di carcere per l’imputato, si è arrivati per l’autorizzazione concessa a suo tempo dal Senato col voto determinante dei grillini di sapore ritorsivo, dopo la crisi del primo governo di Giuseppe Conte. Che fu provocata nell’estate di quel 2019 da un Salvini eccitato, diciamo così, dal successo appena conseguito nelle elezioni europee. Che avevano portato d’un colpo la Lega dal 17 per cento delle elezioni politiche dell’anno precedente al 34.

L’antirenzismo dopo l’antiberlusconismo, l’anticraxismo, l’antileghismo

Dal Dubbio

Morto e cremato da più di un anno Silvio Berlusconi, lo “psiconano” dileggiato sulle piazze da Beppe Grillo prima che ne scoprisse i voti che continuava a prendere da defunto e li rinfacciasse al non più garantito Giuseppe Conte, il mondo pentastellato ha adottato come suo irriducibile nemico Matteo Renzi. Come una trentina d’anni il mondo comunista – post-comunista, considerando i cambi di nome e di simboli del Pci dopo il crollo del muro di Berlino e di ciò che esso aveva rappresentato- rivolse tutto il suo astio contro Bettino Craxi e, più in generale, i socialisti. Che potevano al massimo bussare uno alla volta alle porte della sinistra, ed assurgere anche a qualche carica istituzionale o di governo -dalla presidenza del Consiglio alla presidenza della Corte Costituzionale, entrambe assegnate a Giuliano Amato, per esempio- ma mai pensare di ricostituire davvero il loro partito e rimetterlo nel mercato elettorale. “Bisogna che non ritrovino il gusto di raccogliere voti”, venne una volta attribuito, non so francamente se a torto o a ragione, a Massimo D’Alema prima che Renzi si proponesse di rottamarlo.

Dal Fatto Quotidiano di ieri

         Mi ha colpito quel richiamo liberatorio  ieri sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di un articolo che riferiva all’interno la esclusione, mancanza e quant’altro del simbolo del partito di Renzi nelle elezioni regionali del mese prossimo in Umbria ed Emilia Romagna. Neppure in Liguria, dove si voterà fra una quindicina di giorni, sono state notoriamente accettate tracce renziane, si vedrà con quali effetti sui risultati della corsa dell’ex ministro del Pd Andrea Orlando alla presidenza della regione dopo la caduta per via giudiziaria di Giovanni Toti. Che si è rassegnato al patteggiamento per corruzione impropria allo scopo di sottrarsi al processo per corruzione non impropria allestitogli col rito accelerato dopo indagini durate quattro anni e condotte con i sistemi più invasivi: dal trojan intercettativo alla carcerazione preventiva.

Goffredo Bettini con Elly Schlein e Andrea Orlando

         Renzi è naturalmente, e comprensibilmente, il primo ad augurarsi che la corsa di Orlando in Liguria vada a sbattere contro i voti, pochi o molti che potranno essere, degli elettori della sua Italia Viva rimasti senza candidati perché discriminati da Conte in persona con il consenso dello stesso Orlando e, soprattutto, della segretaria del Pd Elly Schlein.  Alla quale Goffredo Bettini, sempre attivo dietro e davanti alle quinte del Nazareno, ha appena consigliato pubblicamente comprensione nei riguardi delle esigenze tattiche e strategiche del presidente delle 5 Stelle, assecondandolo quindi nelle azioni di contrasto a Renzi e non scambiando quest’ultimo per la personalità più rappresentativa dell’area moderata o centrista dello schieramento alternativo all’attuale governo.

Francesco Rutelli e Goffredo Bettini

         Piuttosto che a Renzi, e a Carlo Calenda, anche lui forse troppo polemico con Conte, bisognerebbe continuare o tornare a scommettere e a premere, secondo Bettini, su Francesco Rutelli per costruire la gamba di centro di un tavolo antimeloniano. E smetterla, sempre secondo Bettini, di sognare un distacco di Forza Italia dal centrodestra.

         L’antimelonismo, l’antirenzismo,  l’antiforzismo, naturalmente l’antisalvinismo e, più in generale, l’antileghismo, a dispetto dei tempi in cui un ancora influente Massimo D’Alema vedeva nella Lega di Umberto Bossi “una costola  della sinistra” caduta per errore nel campo di Silvio Berlusconi nel 1994. E tornatavi dopo una rottura durata cinque anni, nonostante nel frattempo lo stesso D’Alema e il suo successore a Palazzo Chigi, Giuliano Amato, avessero regalato al Carroccio, con la riforma del titolo quinto della Costituzione, l’ampliamento delle competenze regionali. Da cui è derivata la legge sulle autonomie differenziate impugnata dalle opposizioni col referendum e con alcuni ricorsi regionali alla Corte Costituzionale. Anti, anti, dicevo. Tutto contro, in un corpo a corpo infinito in cui Conte pensa di avere forse anche il fisico, oltre che le carte migliori per essere la punta più avanzata. O, come disse il già ricordato Bettini nel 2020, “il punto più alto di riferimento dei progressisti in Italia”.

La tomba di Bettino Craxi ad Hammamet

Di solito tuttavia il corpo a corpo in politica finisce male anche quando sembra riuscito bene per chi lo aveva voluto. Come accadde nel secolo scorso con l’anticraxismo finito nella vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, il più vistoso amico del leader socialista nel frattempo ritiratosi ad Hammamet per morirvi da esule, o da latitante per i suoi nemici.

Pubblicato sul Dubbio

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