I conti di Conte che non tornano negli attacchi alla manovra finanziaria

Dal blog personale di Beppe Grillo

         Giuseppe Conte, “con tutte le umoralità del caso” rimproverategli anche da un critico indulgente come Piero Ignazi su Domani, fa concorrenza alla segretaria del Pd Elly Schlein sul doppio fronte della politica estera e della politica economica. E’ in gioco la leadership dell’alternativa pur di là da venire, in un campo delle dimensioni variabili, secondo gli umori appunto di Conte. Che le lascia aumentare o le riduce guardando anche alla crisi dei suoi rapporti con Beppe Grillo all’interno del MoVimento 5 Stelle, a rischio di un’altra scissione. “#Riprendiamoci le nostre battaglie”, gli grida oggi l’ancora garante e consulente a contratto del movimento dal suo blog personale.

Dalla Stampa

         Stimolato anche da questa pressione, Conte ha indicato nella manovra appena varata dal governo “un imbroglio”. Ma a smentirlo c’è un economista indipendente che lo stesso Conte ha ben conosciuto e apprezzato avendolo avuto nel suo primo governo, di colore gialloverde, come ministro    dell’Economia e delle Finanze, come si diceva allora: il professore Giovani Tria.  Che aiutò l’esordiente e imprevisto presidente del Consiglio nel più difficile e stretto passaggio dei rapporti con l’Unione Europea giocando sui decimali di un 2,4 per cento di sforamento di un parametro diventato alla fine 2,04.

Dal Foglio d ieri

         Con la competenza che non ha perduto con la fine della sua esperienza ministeriale, sostituito nel secondo governo Conte con l’attuale sindaco piddino di Roma Roberto Gualtieri, il professore Tria ha assicurato in una intervista al Foglio che “anche questa legge di bilancio ci dice che Giorgetti sta gestendo bene i conti pubblici”. Si tratta non di un omonimo ma dello stesso uomo conosciuto e frequentato dall’allora ministro Tria come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo di Conte.

Conte, Tria e Giorgetti una volta insieme, e felici

Una foto galeotta rimasta impietosamente negli archivi internettiani  sorprese insieme i tre uomini compiaciuti e felici ai banchi del governo nell’aula del Senato. Da allora sono passati sei anni: non so se troppi o troppo pochi.  Ma chissà quanti anni dovranno ancora trascorrerne perché Conte si rassegni finalmente allo sfratto del 2021 da Palazzo Chigi. E rinunci all’ambizione, da cui si schermisce inutilmente davanti ai microfoni, di tornarvi con qualche “accrocco”, come Davide Giacalone sulla Ragione ha definito con ironia dichiaratamente benevola la manovra finanziaria protetta dal provvidenziale “vincolo esterno” e vissuta invece da Conte come una tragedia, oltre che come un imbroglio. Una tragedia quasi pari a quelle delle guerre che assediano l’Italia e in qualche modo la coinvolgono:  in Ucraina sostenendola dall’aggressione della Russia, in Medio Oriente presidiando purtroppo inutilmente con altri paesi sotto le insegne dell’Onu  zone sui confini tra Libano e Israele da dove le milizie terroristiche di Hezbollah devastano territori ebraici e i  loro abitanti.

Ripreso da http://www.startmag.it

Enrico Berlinguer e la sua questione morale visti da lontano

Da Libero

Pur in debito professionale con Enrico Berlinguer per quello storico ”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, cioè del comunismo, strappatogli in una tribuna politica televisiva di fronte al  regime militare autoimpostosi dalla Polonia alla fine del 1981 per  evitare una occupazione sovietica, non mi piacciono né mi convincono le ricorrenti santificazioni del leader comunista. Neppure quella riproposta più ancora che dal film su di lui appena presentato al festival romano del cinema, da certi commenti che gli sono stati dedicati. Come quello che intesta a Berlinguer la palestra della buona politica chiusa o tradita dopo la sua morte.

Enrico Berlinguer in braccio a Roberto Benigni

         Con tutto il rispetto dovutogli, per carità, e anche con la simpatia che ancora mi procura, ogni volta che la ritrovo nelle ricerche di lavoro, quella foto che lo riprese sulle braccia di un giovane Roberto Benigni, imitato molti anni dopo da un ben più possente Guido Crosetto        con un’ancora più gracile Giorgia Meloni, continuo ad attribuire alla buonanima di Berlinguer, consapevole o inconsapevole che fosse stato, il ritorno in qualche modo del qualunquismo negli anni Ottanta, dopo la lontana  fine di quello di Guglielmo Giannini.

L’ultimo comizio di Enrico Berlinguer

La famosa “questione morale” nella quale fu incartata la celebre intervista di Berlinguer a Eugenio Scalfari, il 28 luglio 1981, a me sembra ancora oggi, o ancor più oggi, dopo tutto quello che è accaduto, la premessa o l’apertura di una stagione moralistica. Che si è tradotta nella delegittimazione della politica, nella sua rappresentazione, quando praticata da avversari, come di un’attività ai confini della malavita, e persino oltre. Come si gridava nelle piazze fra il 1992 e il 1993 inneggiando alle manette che scattavano ai polsi dei politici della cosiddetta Tangentopoli, molti dei quali poi assolti o neppure processati.  Berlinguer non c’era più, ma era cresciuto quello che egli aveva seminato nell’immaginario collettivo rivendicando orgogliosamente la “diversità” del suo partito rispetto a tutti gli altri. A cominciare dalla Dc, con la quale egli si era pure accordato fra il 1976 e le prime settimane del 1979 per la parentesi della “solidarietà nazionale” gestita da due governi monocolori di Giulio Andreotti.

Giorgio Napolitano

         Delle conseguenze di quella diversità, immediate sul piano delle alleanze e in prospettiva sul piano della cultura e della lotta politica, si resero conto subito anche dirigenti del partito di Berlinguer come Giorgio Napolitano. Da cronista parlamentare del Giornale di Indro Montanelli raccoglievo sfoghi riservati di deputati e senatori del Pci contro l’aureola nella quale si era avvolto il loro segretario isolandosi. La sua morte -e che morte, sul campo praticamente di un comizio nella campagna elettorale del 1984 per il rinnovo del Parlamento europeo- ridusse tutti nel Pci al silenzio. E al pianto.

         La diversità del suo partito dagli altri fu vantata, sventolata come una bandiera, da Berlinguer mettendo la pietra tombale sull’esperienza già ricordata della solidarietà nazionale, come per spiegarne e motivarne la fine. Che era stata d’altronde da lui stesso interrotta nel 1979, ma non per questioni morali, bensì un po’ per i voti costati al suo partito l’appoggio esterno ai governi monocolori democristiani, un po’ per la morte -e che morte, pure quella- del principale tessitore dei rapporti col Pci da parte della Dc, cioè Aldo Moro, e un po’, o forse soprattutto, dalla indisponibilità comunista ad accettare il riarmo missilistico della Nato imposto dal vantaggio acquisito dal blocco sovietico puntando gli SS 20 contro le capitali dell’Europa occidentale.

         Eppure era stato proprio Berlinguer, in una celebre intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, ripresa solo parzialmente dall’Unità, a parlare della Nato come di un ombrello sotto il quale i comunisti italiani avrebbero dovuto o potuto sentirsi protetti, dato il rapporto subordinato con i partiti comunisti “fratelli” che si concepiva e praticava a Mosca.

         Quando si trattò, con una convergenza soprattutto fra tedeschi e americani, di riparare quell’ombrello compromesso dal vantaggio del blocco dell’Europa dell’est, Berlinguer si tirò indietro. E il Pci alimentò le piazze mobilitate all’insegna del solito pacifismo a senso unico.

         Ricordare queste cose può risultare comprensibilmente scomodo, e persino ingiusto, per i cultori del mito berlingueriano, con o senza la tessera d’iscrizione al Pd su cui quest’anno sono riprodotti proprio gli occhi del leader comunista, ma credo sia doveroso per una cronaca o storia onesta.

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