Dietro e davanti alla mancata elezione del giudice costituzionale a Montecitorio

Dalla Ragione

         Dal pur metaforico Aventino dell’astensione parlamentare -o “Avventino”, come lo ha sarcasticamente definito la Ragione di Davide Giacalone- la segretaria del Pd Elly Schlein si è vantata di avere “fermato” la maggioranza di governo nell’assalto secondo lei predatorio al seggio della Consulta vacante da quasi un anno, dopo l’esaurimento del mandato di Silvana Sciarra, salita sino al vertice della Corte Costituzionale.          E tutti dalle opposizioni, una volta tanto unite, hanno applaudito e festeggiato. I barbari di Giorgia Meloni, sempre metaforici, avrebbero insomma avuto la lezione che meritavano con quelle 323 schede, peraltro bianche, raccolte a favore della candidatura virtualmente coperta di Francesco Saverio Marini, contro le 363 che sarebbero state necessarie per formare la maggioranza qualificata richiesta.

Dal Corriere della Sera

         “A vuoto”, ha titolato il Corriere della Sera sulla ottava votazione svoltasi inutilmente in seduta congiunta di deputati e senatori per il completamento di una Corte Costituzionale che peraltro sta per perdere altri tre giudici di elezione parlamentare. Cioè sta per entrare in una condizione di virtuale delegittimazione per la quasi assenza, a quel punto, della componente di spettanza parlamentare, diciamo così, dovendo cinque dei quindici giudici della Consulta essere eletti dal Parlamento, aggiungendosi ai cinque di nomina del Presidente della Repubblica e ai cinque spettanti, come dice la Costituzione, alle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”.

Dal tabellone di Montecitorio

         Otto votazioni “a vuoto”, per ripetere la formula del Corriere della Sera, non sono francamente indicative della buona salute, diciamo così, di un Parlamento e, più in generale, di un sistema istituzionale, anche se vi sono state altre elezioni di giudici costituzionali più tormentate. Non ne esce bene la maggioranza di governo propostasi di eleggere da sola un giudice pur con un così alto “quorum”, che presuppone normalmente il coinvolgimento di almeno una parte delle opposizioni. E non ne esce bene, in particolare, la premier Meloni, espostasi nel braccio di ferro scommettendo sugli ultimi nuovi arrivi nella maggioranza parlamentare da aree di opposizione o terzopoliste, ma paradossalmente sottrattasi pure lei alla votazione per ragioni, diciamo così, di stile.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         Non escono tuttavia bene neppure le opposizioni, che hanno montato uno scandalo sulla candidatura coperta del competentissimo consigliere giuridico della presidente del Consiglio dopo che alla Corte è toccato di accogliere nel 1991 fra i giudici un ministro della Giustizia, trasferitosi direttamente dal dicastero di via Arenula alla Consulta dirimpettaia del Quirinale. E destinato a concludere da presidente il suo mandato di alta garanzia.

I nomi qui non contano: né quello di allora né quello mancato di oggi. E’ questione di conoscenza della storia. E di civiltà nella conduzione anche dell’opposizione, oltre che della maggioranza, e del governo.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Mai una condanna esemplare per un pubblico ministero che sbaglia

Da Libero

  L’avvocato difensore dell’ex procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del collega Sergio Spadaro ha informato i giornalisti della “sofferenza dell’ingiustizia” avvertita dai suoi assistiti per essere stati condannati dal tribunale di Brescia a 8 mesi di carcere con attenuanti generiche e sospensione della pena per “rifiuto d’atti ufficio”.

         Ma maggiore è la sofferenza forse di chi ha seguito la lunga, complicatissima vicenda giudiziaria che è appena costata la condanna di De Pasquale e Spadaro ma fra il 2018 e il 2021, per non parlare degli anni delle indagini preliminari al processo, costò all’Eni, al suo amministratore delegato Claudio Descalzi e al management della più famosa azienda pubblica italiana nel mondo il sospetto di corruzione internazionale per una concessione petrolifera in Nigeria. Processo conclusosi con l’assoluzione piena degli imputati, contestata dall’accusa con un ricorso all’appello ritirato poi dalla Procura Generale.

         E’ a quel processo, e alla coda tagliata -ripeto- dalla stessa Procura Generale, che si riferisce il “rifiuto d’atti d’ufficio” contestato a De Pasquale e a Spadaro dalla Procura di Brescia e confermato dal tribunale. Atti d’ufficio consistenti in prove a discarico degli imputati, e a carico invece di un ex dipendente dell’Eni che dopo essere stato licenziato li aveva accusati di corruzione per quella concessione petrolifera nigeriana. E lasciati sulla graticola dello sputtanamento -scusate il termine- per un bel po’ di tempo grazie all’aiuto ricevuto dai due magistrati dell’accusa condannati per questo a Brescia.

         La sofferenza di chi ha seguito quella vicenda giudiziaria dell’Eni e dei suoi dirigenti, e che mi sono permesso di aggiungere a quella di chi subì quel processo e il tentativo di riaprirlo dopo la prima sentenza d’assoluzione, risulta maggiore, e ancora meno sopportabile, alla luce di un giudizio che, prima ancora del tribunale di Brescia, è arrivato a carico di De Pasquale dal Consiglio Superiore della Magistratura. Che nello scorso mese di maggio, occupandosi di lui e del suo ruolo di procuratore aggiunto riconobbe con 23 voti e quattro astensioni come “dimostrata l’assenza -testuale- in capo al dottor De Pasquale dei prerequisiti dell’imparzialità e dell’equilibro, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza misura e senza moderazione”.

         Il documento del Consiglio Superiore della Magistratura, diffuso nei maggiori dettagli dall’insospettabile Fatto Quotidiano, di solito molto riguardoso verso i magistrati, specie quelli d’accusa,  stigmatizzò “la pervicacia dimostrata” sempre da De Pasquale “in tutte le sedi in cui è stato chiamato a illustrare il proprio operato”: una pervicacia “idonea a dimostrare” come “le condotte poste in essere…lungi dall’essere contingenti e occasionali, rappresentino un modus operandi consolidato e intimamente connesso al suo modo di intendere il ruolo ricoperto”.

         “Per questo -raccontava Il Fatto Quotidiano– il magistrato decadrà dall’incarico di procuratore aggiunto e tornerà un semplice sostituto. Come spesso accade, però, la decisione del Csm sui primi anni del suo mandato di dirigente è arrivata quando il magistrato ha già concluso il secondo quadriennio, l’ultimo possibile in base alla legge. La conseguenza più pesante, dunque, sarà l’impossibilità per De Pasquale di candidarsi a ulteriori incarichi direttivi”.

Gabriele Cagliari

         Non per infierire, considerandogli giustamente il diritto di essere considerato sul piano penale innocente sino a condanna definitiva per il “rifiuto d’atti d’ufficio” nel processo di corruzione internazionale noto come Eni-Nigeria, ma per completezza d’informazione ricordo di Fabio De Pasquale anche la forte esposizione mediatica, a dir poco, procuratagli nel 1993 dal suicidio in carcere dell’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Che si uccise il 20 luglio, cinque giorni dopo essere stato interrogato da De Pasquale ricavando l’impressione di una possibile liberazione dopo 137 giorni di detenzione preventiva, o cautelare, per corruzione nell’ambito di Tangentopoli. Seguì invece solo il suicidio quando Cagliarsi si accorse della sua sensazione sbagliata.

Filippo Mancuso

         L’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso mandò a Milano due ispettori che esclusero negligenza da parte di De Pasquale. Successivamente il Guardasigilli Filippo Mancuso  tentò un’ispezione più generale a Milano sulla gestione delle indagini  note come “Mani pulite” ma, scontratosi anche col presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, finì sfiduciato dal Senato.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑