Il diavolo veste verde, più che nero, sui prati di Pontida

Matteo Salvini e Viktor Orban al raduno della Lega

         Il diavolo, si sa, si nasconde nel dettaglio. Lo ha fatto anche nel raduno leghista a Pontida. Dove più dei ministri leghisti saliti sul palco per vantare la loro azione di governo, più di Matteo Salvini -sempre sul palco- fra gli ospiti eccellenti corsi al suo invito dagli altri paesi che soffrono la partecipazione all’Unione Europea, più di quella mano dello stesso Salvini incrociata col premier ungherese Viktor Orban, più ancora dell’antipasto dei giovani che avevano dato al segretario di Forza Italia Antonio Tajani dello “scafista” e poi lo avevano vaffanculato per le aperture alla cittadinanza ai figli degli immigrati istruitisi nelle nostre scuole; più di tutto questo, è forse destinata a rimanere nel ricordo della trentaseiesima  edizione della festa del Carroccio la maglietta verde di un militante di vecchio stampo, ancora convinto che venga “prima il Nord!”. Per quanti sforzi abbia fatto e faccia ancora Salvini di fare crescere la pianta della Lega anche al Sud.

         Quel “prima il Nord” di memoria e rivendicazione bossiana, che la buonanima di Silvio Berlusconi era riuscito tuttavia a smorzare, moderare, assorbire e quant’altro nell’alleanza di centrodestra, è stato riacutizzato ieri a Pontida sulla stessa maglia verde di quel militante con l’avvertimento che “l’Italia non è una e non lo sarà mai”. A sostegno autolesionistico della rappresentazione che fanno della Lega i promotori del referendum contro le autonomie differenziate e a dispetto dell’articolo 5 di quella Costituzione sulla quale hanno prestato giuramento anche i ministri succedutisi sul palco della trentaseiesima edizione della festa leghista. Esso dice, sia pure in un inciso, che l’Italia è “una e indivisibile”, anche se “La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali”.

Il generale Roberto Vannacci

         Eppure, non solo i ministri leghisti hanno giurato, ripeto, sull’articolo 5 della Costituzione, ma partecipano ad un governo la cui premier parla di Nazione, e non di Paese, e richiama ogni volta che può il senso “patriottico” della sua destra. C’è qualcosa che non funziona  in questa Lega  ora pur anche del generale Roberto Vannacci, senza tricolore. E rischia conseguentemente di non funzionare anche nella maggioranza e nella coalizione cui essa partecipa.

Alan Friedman sulla Stampa

         Ci si può anche consolare leggendo ciò che scrive Alain Friedman della sua America. Che è “un Paese –dalla Stampa di ieri- con gravi problemi di coesione sociale, un Paese diviso come mai prima era accaduto”, con tutto quel che “non promette di buono per l’Europa e per il resto del mondo, che vincesse Harris o Trump”. Ma è una consolazione alquanto relativa, perché l’America resta sempre l’America e l’Italia resta l’Italia con quell’inciso già ricordato dell’articolo 5 della Costituzione.

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La Schlein contesta alla destra la partecipazione alla Corte Costituzionale

Da Libero

La segretaria del Pd Elly Schlein è improvvisamente guarita dell’afonia, o quasi, procuratale da Giuseppe Conte annunciando di recente nei cinque minuti televisivi messigli a disposizione da Bruno Vespa la chiusura a Matteo Renzi del cosiddetto campo largo dell’alternativa a livello pure locale, e non solo nazionale. Anche a costo di fare svanire la vittoria che l’ex ministro piddino Andrea Orlando già pregustava nella corsa alla successione a Giovanni Toti alla presidenza della regione Liguria. Dove i renziani adesso potrebbero far vincere la partita al candidato del centrodestra Marco Bucci, da loro peraltro già apprezzato e sostenuto come sindaco di Genova.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         La voce alla Schlein è tornata per gridare a Giorgia Meloni di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale, essendosi la premier proposta di fare eleggere domani, martedì, dalle Camere in seduta congiunta un giudice di sua personale fiducia -hanno scritto su  Repubblica– al posto di Silvana Sciarra, scaduta l’anno scorso e non sostituita in sette votazioni svoltesi a Montecitorio.

         Quella di domani, per la quale i parlamentari di centrodestra sono stati mobilitati telefonicamente su imput personale della premier con chat finite sui giornali, potrebbe essere la votazione buona per i margini che si sono ristretti fra centrodestra e opposizioni con approdi nella maggioranza di parlamentari provenienti dalle file soprattutto di Conte e di Carlo Calenda. I 363 voti necessari per l’elezione del giudice non sono mai stati così a portata di mano della maggioranza di governo.

         Mai come ora anche la Schlein è apparsa scesa da Marte intimando, appunto, alla premier di mettere giù le mani dalla Corte Costituzionale e di non considerarla di sua proprietà. Eppure noi vecchi cronisti parlamentari, vissuti sempre fra i corridoi della Camera e del Senato, siamo stati abituati sin dalla nascita della Corte Costituzionale, 68 anni fa, per quanto concepita dai costituenti più di otto anni prima, a percepirla e raccontarla come un patrimonio sostanzialmente della sinistra.  Il combinato disposto, diciamo così, fra i cinque giudici costituzionali di nomina del presidente della Repubblica e i cinque di elezione parlamentare, a Camere congiunte, sui quindici che compongono la Corte Costituzionale, essendo gli altri cinque scelti dalle “supreme magistrature ordinaria ed amministrative”, come prescrive l’articolo 135 della Costituzione, ha praticamente tenuto sempre la destra fuori dai giochi. Ridotta a sola testimonianza.

         Abbiamo visto arrivare alla Corte Costituzionale -sempre noi vecchi cronisti parlamentari- fior di politici provenienti direttamente dai vertici, o quasi, dei gruppi parlamentari della sinistra. Forse più di quanto non avesse potuto immaginare la buonanima di Palmiro Togliatti, contrario per il suo connaturato parlamentarismo alla Corte Costituzionale perché non concepiva ch’essa potesse bocciare una legge approvata dalle Camere.

Francesco Saverio Marini

         Alla Meloni si contesta, in particolare, di volere fare arrivare alla Corte uno dei due mostri, per come li rappresentano al Nazareno e dintorni, che sarebbero l’attuale segretario generale di Palazzo Chigi, Carlo Deodato ma soprattutto il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini. Di cui non si sa bene se la colpa più grave, dopo quella di essere consigliere della premier, sia più la famiglia, essendo figlio di un giurista di destra cui toccò a suo tempo un turno di presidenza della Corte, Annibale, o la presunta paternità del disegno di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Che da quando la sinistra ha deciso di non sostenere più, dopo averla condivisa per un po’ di tempo, è diventata la minaccia più grave mai caduta sulla testa della democrazia italiana.

La ministra delle riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati

         Mi chiedo, sempre da vecchio cronista che non ha perso la voglia e la possibilità di seguire le cronache parlamentari e affini, se la paternità del disegno di legge sul premierato al primo dei due esami della Camera, dopo il primo superato al Senato, il 18 giugno scorso, non abbia anche o soprattutto una madre. Che è la ministra delle riforme, già presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia. Perchè declassarla -mi chiedo- a prestanome, o quasi, pur di rappresentare come una provocazione politica la candidatura a giudice della Corte Costituzionale del professore di istituzioni di diritto pubblico Francesco Saverio Marini? Che con le funzioni di consigliere giuridico della premier, come quelli che lo hanno preceduto con e in altri governi, non ha perso né i suoi diritti civili, né le sue competenze.

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