Il missile di Conte contro il campo largo coltivato dalla Schlein

Missili dell’Iran su Israele

Nel giorno dei duecento e più missili dell’Iran lanciati contro Israele in Italia  Giuseppe Conte, dalla postazione televisiva dei cinque minuti d Bruno Vespa, ne ha lanciato uno di parole distruttive contro quel poco che rimaneva del cosiddetto “campo largo”. Che dall’obbiettivo della segretaria del Pd Elly Schlein per coltivare l’alternativa al centrodestra, o destra-centro, è diventato nella rappresentazione del presidente delle 5 Stelle una semplice formula giornalistica. Un retroscena, un’invenzione di noi pennivendoli, come ogni tanto ci chiamava, adirato, il compianto Ugo La Malfa quando non scrivevano di lui e del suo partito repubblicano quello che si aspettava.

Dal Corriere della Sera

         Un campo largo con Matteo Renzi non è stato possibile in Liguria, dove si voterà verso la fine del mese, ma ora non lo sarà neppure in Emilia-Romagna e in Umbria, dove si voterà il mese prossimo. La Schlein magari farà finta di niente, per quanto si siano levate negli ultimi giorni molte voci critiche verso Conte anche da esponenti del Pd in altre occasioni pazienti verso l’ex presidente del Consiglio. Continua a pazientare Goffredo Bettini, ma prima o dopo anche lui si lascerà scappare qualche mugugno, come quando Conte decise due anni fa di ritirarsi dalla maggioranza del governo di Mario Draghi determinandone la crisi. E poi le elezioni politiche anticipate vinte da Giorgia Meloni.

Da Repubblica

         Prima di diventare il titolo dello spazio televisivo di Vespa dopo il Tg1 delle ore venti, i cinque minuti erano quelli che l’immaginazione assegnava all’uomo innervosito per sbottare, o disinibirsi. Questo di Conte, già accusato d’altronde da Renzi di essere “la stampella della Meloni”, è in fondo un contributo alle celebrazioni che la premier e i suoi fratelli d’Italia stanno facendo della vittoria elettorale già ricordata di due anni fa. Un contributo senza obbligo di ringraziamento, e tanto meno di riconoscenza.

Stefano Rolli sul Secolo XIX

         Ma anche di Renzi, a voler pensare male nella convinzione o solo speranza di indovinare, come diceva la buonanima di Giulio Andreotti, si può dire che con la sua disponibilità, a sorpresa, a fare parte del campo largo dell’alternativa è riuscito, diavolo di un uomo, in poche settimane a farlo restringere. E a diventare, o tornare, anche lui quella stampella della Meloni ch’era apparso agli avversari. Già qualche vignettista lo aveva rappresentato in estate come il cavallo di Troia.  Stefano Rolli invece oggi sul Secolo XIX lo “accusa” di vilipendio di cadavere, oltre che di assassinio della creatura cara alla segretaria del Pd. Che nel suo silenzio, almeno sino al momento in cui scrivo, si mostra incapace anche di piangere, o solo di dolersi. Al Nazareno si impedisce per ora il lutto, come in Marocco dopo l’eliminazione del capo di Herzobollah a Beirut.

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Quel che non sapevate ancora di Scalfaro, Amato, Ciampi, Barucci nel 1992…..

Da Libero

Del lungo e intrigante racconto di Andrea Monorchio al Corriere della Sera dei tredici anni vissuti da Ragioniere Generale dello Stato, tra prima e seconda Repubblica, fra il penultimo governo di Giulio Andreotti e il secondo di Silvio Berlusconi, la parte più divertente è sicuramente quella finale. Nella quale la buonanima del mio amico Francesco Cossiga supera per arguzia, ironia, sarcasmo tutto ciò che già sapevo di lui con quelle domeniche che sottraeva a Monorchio, e alla sua famiglia, per sapere di più dei nostri conti. E per concludere gli incontri stendendo all’ospite un biglietto di mille lire autografato come contributo personale al recupero del debito pubblico.

Giuliano Amato e Andrea Monorchio nel 1992

         La parte meno divertente, anzi più inquietante è tutto il resto, particolarmente quella che svela come il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari fosse stato predisposto nel l’estate del 1992 dal primo governo di Giuliano Amato all’insaputa di tutti i ministri, del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che tuttavia firmò il decreto legge, e dell’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Che protestò con una lunga telefonata al presidente del Consiglio, di cui nel 1993 avrebbe peraltro preso il posto su scelta personale di Scalfaro. E il suo fu l’ultimo governo, direi anfibio, della cosiddetta prima Repubblica, incaricato non tanto di rimettere a posto i conti quanto di preparare la nuova legge elettorale con la quale mandare gli italiani al più presto alle urne dopo il referendum contro il vecchio metodo proporzionale.

Scalfaro e Ciampi nel 1993 al Quirinale

         A Ciampi che alla chiamata obiettò di non sapere nulla di leggi elettorali Scalfaro rispose sbrigativamente -da quel che lo stesso Ciampi avrebbe poi raccontato in una intervista clamorosa quasi quanto quella di Monorchio dell’altro ieri al Corriere della Sera– di non farsene un problema perché avrebbe potuto contare sull’aiuto degli uffici del Quirinale. Questo per dirvi, cari amici, a che cosa noi più anziani, o meno giovani, siamo riusciti a sopravvivere in questo sorprendente Paese. O Nazione, come preferisce dire orgogliosamente la premier Giorgia Meloni.

Francesco Cossiga

         Cossiga dava mille lire la settimana a Monorchio per il debito pubblico e Amato avrebbe poi deciso, a quattr’occhi col ministro delle Finanze Giovanni Goria di prelevare in una notte, di soppiatto, e tutti in una volta, dai depositi bancari più di diecimila, se non undicimila miliardi di lire per tamponare un buco che impediva di pagare stipendi agli statali e pensioni. E Scalfaro zitto pure lui, pur avendo  qualche settimana prima avuto lo scrupolo di sbrogliare la matassa di una crisi di governo convocando al Quirinale, per la prima e speriamo anche unica volta nella storia della Repubblica, il capo di una Procura. Ne  ricavò la convinzione di non poter dare l’incarico di presidente del Consiglio a Bettino Craxi, che la Dc si apprestava a proporgli. Nacque così proprio il governo, il primo governo Amato, proposto dallo stesso Craxi con le spalle al muro, sei mesi prima che la Procura di Milano coinvolgesse formalmente il leader socialista nelle indagini note come “Mani pulite”.

         Monorchio non lo ha raccontato al Corriere, ma vi racconto io un altro inedito della buonanima di Scalfaro, rivelatosi al Quirinale tanto diverso da quello da me conosciuto e frequentato prima.

Piero Barucci

         Mandato Amato a Palazzo Chigi, e forse anche perché sorpreso pure lui da quel decreto che dovette firmare per poter pagare stipendi e pensioni in pericolo, Scalfaro se ne pentì a tal punto che cominciò ben prima delle dimissioni arrivate nell’aprile del 1993, dopo il referendum sul sistema elettorale, a pensare come sostituirlo.  E si rivolse per competenza e affinità politica all’allora ministro del Tesoro Piero Barucci. Che non ho visto citato da Monorchio nei preparativi del decreto sul prelievo dai depositi bancari. E che poi mi raccontò personalmente di avere declinato l’offerta di Scalfaro, per cui al Quirinale fu chiamato al momento opportuno, per la successione ad Amato, l’allora e già ricordato governatore della Banca d’Italia Ciampi. Con tutto il resto che seguì. Amato sarebbe tornato a Palazzo Chigi nel 2000, spintovi dal dimissionario presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Ma Scalfaro non era più al Quirinale, sostituito l’anno prima, per scadenza di mandato, proprio da Ciampi, come ho già ricordato. Può sembrare un gioco dell’oca, ma non lo era. O almeno non doveva esserlo.

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