La Valencia di Giuseppe Conte dopo la disfatta delle 5 Stelle in Liguria

Giuseppe Conte

         Se non ce ne fosse una drammaticamente vera, con un centinaio di morti nell’uragano abbattutosi sulla lontana Valencia e dintorni, si potrebbe applicare la metafora dell’Apocalisse a quanto sta accadendo in via Campo Marzio, a Roma, a pochi passi da Montecitorio, nella sede del MoVimento 5 Stelle. Che Giuseppe Conte raggiunge di solito a piedi, a passo di carica, petto in fuori, con l’aria di sfidare tutto e tutti dall’alto della statua di carta erettagli a suo tempo sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio scrivendone come del migliore presidente del Consiglio, anzi ex, dopo la buonanima di Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour.

         Precipitato in quattro mesi in Liguria dal 10 e più per cento dei voti a meno del 5, ma sceso più lentamente da oltre il 20 per cento di altre precedenti elezioni, il partito -o quasi- di Conte che Beppe Grillo non va più neppure a votare, tanto lo disconosce, sembra un pò una delle macchine spagnole accatastate per l’uragano. Accatastata per essere magari smontata e poi rimontata nella sede di via Campo Marzio come in un museo.

Landini e Conte in piazza

         Dopo un editoriale, ieri, nel quale sembrava avere consigliato a Conte la rinuncia ad ogni progetto di alleanza con quel mostro menagramo che sarebbe sempre stato  il Pd,  ma peggiorato col voto in Liguria, Travaglio sul Fatto ha cercato oggi di correggere il tiro. Continuando sì a consigliargli una tendenza generale all’opposizione, per cercare di  ricaricare le batterie nelle piazze insieme col segretario generale della Cgil Maurizio Landini e compagni, ma suggerendogli anche accordi locali attorno a programmi e candidati davvero innovativi, non come quel triste uomo d’apparato del Pd-ex Pci Andrea Orlando scelto in terra ligure.  Dal quale gli elettori pentastellati sono fuggiti disertando le urne. O votandogli contro quei pochi che non sono rimasti a casa.

Dal Fatto Quotidiano

         Nell’aggiornamento dei consigli, o istruzioni o direttive, secondo i gusti, Conte è stato promosso o degradato da Travaglio, anche qui secondo i gusti, dal migliore presidente del Consiglio, anzi ex, dopo Cavour al “politico più sottovalutato del secolo”. Ma ancor più che sottovalutato, direi frainteso perché Travaglio, sempre lui, forse da psicanalista più che da cronista, a dispetto della guerra scoppiata fra di loro sui giornali, considera Conte “il politico più grillino di tutti”, cioè l’uomo che ha saputo meglio raccogliere e portare avanti le cause di Grillo. E avrebbe perciò meritato di succedergli nella gestione del movimento “carsico” delle 5 Stelle, o “compostibile”, come lo ha definito il fondatore pur buttandolo fra le immondizie.

  La morte annunciata della forza politica prodotta dai “vaffanculo” di Grillo del 2007 nelle piazze italiane sarebbe “fortemente esagerata” – ha scritto sempre Travaglio- come quella, a suo tempo, derisa in un auto-necrologio da Mark Twain. Funerali e tumulazione del movimento apriscatole del Parlamento e altro s’intendono quindi rinviati.  

Ripreso da http://www.startmag.it

I dubbi della “cavia”, come si sente Andrea Orlando dopo la sconfitta

Emilio Giannelli sul Corriere della Sera

    Ma la “cavia” che Andrea Orlando ha dichiarato di sentirsi dopo la sconfitta nella corsa alla presidenza della Liguria con chi se la può o deve prendersela di più?  Bella domanda. Neppure lui ha saputo o voluto rispondere. Con Giuseppe Conte, che gli ha ristretto il “campo” dell’alternativa al centrodestra estromettendo i renziani? Con Elly Schlein, la segretaria del suo partito, il Pd, che ha accettato quella estromissione, cioè quel veto, mirando più a fare guadagnare voti al Nazareno, riuscendovi col 28,5 per cento che lo ha portato in testa alla classifica generale, senza curarsi del resto? Con Carlo Calenda, che sotto sotto ha spalleggiato Conte contro i renziani minacciando di sfilarsi dal “campo” piuttosto che ritrovarsi con loro? Con Beppe Grillo che, pur disertando personalmente le urne sentendosi tradito “dalle pecore”, è stato intravisto dietro la candidatura di disturbo di Nicola Morra? Che col suo pur misero 0,9 per cento ha sottratto al Movimento 5 Stelle quei pochi voti che gli sarebbero bastati per contribuire non alla sconfitta ma alla vittoria dell’ex ministro piddino?

Marco Bucci

         Dentro ciascuna di queste domande c’è drammaticamente, come in un romanzo giallo, la chiave per accedere alla causa principale della sconfitta della sinistra e della conseguente vittoria del centrodestra guidato dal sindaco di Genova Marco Bucci. Che era oggettivamente partito penalizzato dalla vicenda giudiziaria dell’ex governatore Giovanni Toti, specie dopo che quest’ultimo a sorpresa aveva preferito il patteggiamento al processo per corruzione.

          In verità, c’è anche chi pensa che la chiave per accedere alla causa della sconfitta della sinistra si trovi nell’affluenza alle urne, scesa ancora di più rispetto a quella già sotto il 50 per cento delle elezioni regionali di giugno. L’astensionismo tuttavia è una bestia nera ma ambivalente della democrazia, sempre più difficile, proprio per la sua crescente e trasversale consistenza, da classificare politicamente, a destra piuttosto che a sinistra, o viceversa.

Giuseppe Conte

          A individuare la ragione prevalente della sconfitta della sinistra in Liguria potrebbe contribuire il dibattito all’interno della stessa sinistra e dei partiti che la compongono. Ma anche questo è al momento bloccato, o quasi, dal perdurante clima elettorale che lo altera, dovendosi votare il 17 novembre in Emilia-Romagna e in Umbria. Sotto le 5 Stelle invece esso è sin troppo acceso per risultare, fra il parricidio attribuito a Conte e l’infanticidio attribuito o persino rivendicato da Grillo col “diritto all’estinzione” del movimento da lui fondato ma ormai sfuggitogli di mano e di testa. Si vedrà a fine novembre se e cosa rimarrà davvero delle 5 Stelle con l’assemblea costituente voluta dal suo presidente contro le diffide del fondatore e tuttora garante a termini di statuto, “bravissimo -ha scritto sul Fatto Quotidiano il suo disincantato ammiratore Andrea Scanzi- ad avere torto anche quando ha ragione”.

Dalla Cosa di Occhetto alla Cosa di Conte, dal Pci alle 5 Stelle

Da Libero

Come dalla casa si passò alla Cosa di Achille Occhetto dopo il crollo del muro di Berlino si è passati ora dalla casa alla Cosa di Giuseppe Conte dopo il crollo del muro di Beppe Grillo. Il paragone ha del paradossale, lo so, ma fino ad un certo punto.  E’ la storia della sinistra che quando finisce nelle mani sbagliate è compensata nel governo dalla destra: nel 1994 con Silvio Berlusconi, oggi con Giorgia Meloni.

Achille Occhetto aveva come casa addirittura il Pci che era già stato di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. E passò alla Cosa in attesa di trovare con i suoi compagni il nuovo nome da dare ad un partito finito sotto le macerie di un muro il cui crollo fu propedeutico a quello dell’Unione Sovietica e, più in generale, del comunismo.

Achille Occhetto ai tempi della “Cosa”

La Cosa di Occhetto sfociò nel 1991 nel Pds e nella Quercia, acronimo e simbolo -rispettivamente- del Partito Democratico della Sinistra. Seguirono sette anni dopo i Democratici di sinistra senza più il partito, passato generalmente di moda con l’irruzione di Berlusconi nella politica. E infine, dopo altri nove anni, tornò il Partito, con la maiuscola, seguito dal semplice aggettivo “democratico”, di cultura o ambizione americana, nelle corde del suo primo segretario Walter Veltroni. La rinuncia pur nominalistica alla sinistra, rimasta solo nei titoli del radicalismo verde e socialista, segnò un’altra rottura con la tradizione e la cultura dei comunisti, che avevano immaginato alla loro sinistra, appunto, solo i pidocchi nella criniera di memoria togliattiana.

         Pensate un po’ in quale pur paradossale e incidentale intreccio politico, culturale, ideologico è finito il povero Conte alla presidenza di una formazione che già ha perso da tempo la caratteristica dichiaratamente movimentistica, appunto, a vantaggio della formula partitica. Ma ha perso ormai anche la discendenza da Grillo. Che lo ha disconosciuto come figlio, disertando anche le urne, per come lo avrebbe ridotto Conte: a immondizia, sia pure “compostibile”. Dalla quale chissà cosa -la Cosa, appunto, con la maiuscola – potrà derivare dopo il passaggio per l’assemblea costituente programmata dall’ex presidente del Consiglio con procedure contestate da un garante presosi evidentemente troppo sul serio. E in fondo caduto nella trappola, diciamo la verità, di un contratto di consulenza che, visto a posteriori, con tutta l’arbitrarietà di un’analisi di questo tipo, forse non parve vero a Conte di accordargli.

Beppe Grillo

Quel contratto è bastato e avanzato per tirare giù il fondatore e sovrano del MoVimento 5 Stelle dal suo trono, trascinandolo via via in quel ruolo o in quel problema che lo stesso Conte ha definito “marginale” disinibendo Grillo nella reazione. Ed essendo a sua volta restituito all’immagine del “Mago di Oz” che Grillo gli aveva affibbiato già una volta, rinunciandovi poi con quel benedetto, o maledetto, contratto di consulenza da 300 mila euro l’anno.

         Probabilmente Grillo esagera a scaricare su Conte tutte la responsabilità della crisi pentastellata.  E a ignorare, esorcizzare, ridurre le sue, di responsabilità. A livello almeno di comunicazione, che è poi la remunerata competenza dallo stesso Grillo rivendicata.

A Conte, d’altronde, è capitato anche a me, e di recente, di attribuire qualche errore in più di quelli commessi, come la perfezione -dovuta invece a Mario Draghi, suo successore a Palazzo Chigi- della pratica di promozione di Dario Franceschini da ministro prudentemente dei Beni culturali a ministro, più aulico ma meno prudente, della Cultura. Ma Conte, benedett’uomo, deve pur riconoscere di avere anche lui delle responsabilità nella gestione di quella che è diventata una Cosa. Egli deve pur convenire che non solo come presidente del Consiglio, cambiando maggioranza da un giorno all’altro, ma anche come presidente del movimento si è assunto troppe parti politiche in commedia, come si dice in gergo popolare.

Pure a sinistra, dove ha voluto collocarsi fra i dubbi, le resistenze e ora pure i dileggi di Grillo, sino ad essere promosso al “punto di riferimento più alto dei progressisti” dal generoso Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio ha finito più per creare problemi che per offrire soluzioni. Prima, per esempio, rompendo col Pd di Enrico Letta per accelerare la fine del governo Draghi e l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi. E poi ingaggiando col Pd di Elly Schlein una partita più di concorrenza che di alleanza, più di impuntature che altro.  Ne è appena derivata la clamorosa sconfitta del campo ristretto da Conte in Liguria, a vantaggio di un centrodestra cui l’elettorato ha confermato, anche senza l’autorizzazione della solita magistratura, l’onere di governare.

Pubblicato su Libero

La rivoluzione esaurita e quella fallita sotto le cinque stelle

Dal Dubbio

La rivoluzione, a suo modo, del Beppe Grillo “vaffanculista” -scusate la parolaccia da lui sdoganata sulle piazze nel 2007- mi sembra finita senza aspettare i 70 anni e più accumulati dalla rivoluzione più seria e drammatica di Lenin. Ma la rivoluzione in qualche modo propostasi anche da Giuseppe Conte, strappando progressivamente e infine rompendo con Grillo, furioso più ancora dell’Orlando appena battuto nelle elezioni regionali in Liguria, è già fallita nella stessa Liguria. Dove non solo l’ex ministro piddino Andrea Orlando ha perduto, con l’onore tuttavia di un testa a testa fino all’ultima scheda, per il restringimento del campo della sinistra voluto appunto da Conte escludendovi Matteo Renzi, ma l’ex premier pentastellato ha più che dimezzato i voti del suo movimento in soli quattro mesi, quanti ne sono trascorsi dalle elezioni europee di giugno.

         Il Pd di Elly Schlein può almeno vantarsi, come Andrea Orlando del testa a testa, di essere salito al 28 per cento dei voti doppiando il partito della premier Giorgia Meloni, ma il movimento di Giuseppe Conte può solo registrare un arretramento che ne certifica e aggrava la crisi.

Stefano Rolli sul Secolo XIX

I giornali hanno attribuito a Conte la convinzione, espressa a caldo mentre da Genova gli arrivavano le notizie della sconfitta, secondo cui le cose sarebbero andate ancora peggio per le cinque stelle se lui non avesse puntato i piedi contro Renzi con un veto imposto alla Schlein. Ma è appunto una sua convinzione, conforme all’ostinazione che Conte ha dimosrato nella sua esperienza politica di sei anni, cominciata -credo, sfortunatamente per lui- dal gradino più alto della carriera: quello di Palazzo Chigi. Chi troppo rapidamente sale, cade sovente precipitevolissimevolmente, dice un vecchio proverbio scioglilingua.

         In Liguria tuttavia è spiaggiata anche la magistratura dopo avere ghigliottinato la precedente amministrazione regionale di centrodestra, passata soltanto dal timone di Giovanni Toti a quello di Marco Bucci.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 1° novembre

Che botto in Liguria per la sinistra ristretta di Conte e per le toghe…

         Che botta per la sinistra in Liguria, sconfitta nonostante l’arresto, poi le dimissioni e infine il patteggiamento dell’ex governatore di centrodestra Giovanni Toti. Al quale gli elettori, pur con una minore affluenza alle urne, o proprio per questo, non imputabile di certo al solo maltempo, hanno fatto succedere un altro esponente del centrodestra: il sindaco uscente, anzi uscito, di Genova Marco Bucci. Ma che botta soprattutto per Giuseppe Conte, che ha condannato la sinistra riducendone il cosiddetto campo per espellere Matteo Renzi. E in più ha ridotto di oltre la metà, sotto il 5 per cento,  il suo movimento in soli quattro mesi, dopo le elezioni europee di giugno, con l’aiuto -sorpresa nella sorpresa- del fondatore, garante, elevato, consulente a contratto e quant’altro Beppe Grillo, quasi accontentato dagli elettori nel diritto rivendicato all’”estinzione” della sua creatura. Neppure lui, Grillo, è tornato a votare, dopo avere già disertato le urne un’altra volta.

Bucci e Orlando in campagna elettorale

         Se non fosse vero, con tanto di proiezioni e poi di risultati, dichiarazioni, foto, annessi e connessi, e i titoloni oggi sulle prime pagine di tutti i giornali, anche dei più delusi o contrariati, consolatisi solo per il testa a testa dei conteggi, ci sarebbe da credere a uno scherzo. Ad un sogno di Bucci e a un incubo del concorrente Andrea Orlando, originariamente riottoso ad un’impresa alla quale invece via via si era talmente immedesimato da crederci davvero, anche mentre Conte gli tagliava l’erba sotto i piedi. E lui continuava a scambiarlo per un alleato prezioso, finendo tra i “pestati” del bel titolo dell’insospettabile manifesto.

Dal manifesto

         Ma non sarebbe giusto, di fronte ai risultati delle elezioni anticipate in Liguria, che hanno finto per sorpassare quelle già in programma in Emilia-Romagna e in Umbria, limitarsi a pensare, a parlare e a scrivere, magari scherzandoci pure sopra, dei politici sconfitti nella regione che pensavano di strappare agli avversari.  Qualche riflessione a dir poco critica la merita anche la magistratura che di suo, per non volerla sospettare di avere da fatto da sponda ad un gioco politico, ha provocato queste elezioni liguri, ripiegando anch’essa su un patteggiamento, come l’ex governatore Toti, pur di non rischiare un processo così fortemente perseguito in anni di indagini e intercettazioni. La sconfitta uscita dalle urne vale anche per la magistratura, sicura dietro lo schermo della indipendenza, autonomia, inamovibilità e tutto il resto.  Pestate pure le toghe, per tornare al manifesto.

Ripreso da http://www.startmag.it        

La Liguria nella morsa del maltempo e dell’astensionismo elettorale

Collegati o no che siano, nella Liguria alle urne sino alle ore 15 di oggi per l’elezione del governatore e il rinnovo del Consiglio regionale dissoltosi nella vicenda giudiziaria dell’ex presidente Giovanni Toti i partiti non sanno se temere di più il maltempo o l’astensionismo. I partiti e naturalmente i due principali concorrenti alla presidenza: il sindaco di Genova Marco Bucci per il centrodestra e l’ex ministro Andrea Orlando per il cosiddetto campo largo dell’alternativa di sinistra, ristrettosi dopo il veto posto da Giuseppe Conte, e subìto dal Pd di Elly Schlein, alla partecipazione di Matteo Renzi.

Da Repubblica

         Rispetto alle precedenti elezioni regionali del 2020 l’affluenza alle urne alla fine della prima giornata di votazioni è risultata inferiore di cinque punti: dal 39 al 34 per cento. La punta massima del calo, di circa il 10 per cento, si è raggiunta a Savona e Imperia, quella minima del 2,7 per cento  a Genova.

Marco Bucci al voto

         “Elezioni all’ultimo respiro”, si è scritto sulla prima pagina del giornale storico della Liguria Il Secolo XIX. Tanto Bucci quanto Orlando sono stati tra i primi a votare, entrambi più o memo sorridenti e fiduciosi per dovere d’ufficio, o di competizione. Ma il secondo aveva forse più motivi di preoccupazione dell’altro perché, già ridotto dalla cacciata dei renziani, il suo potenziale campo elettorale è stato politicamente danneggiato dall’aggravamento della crisi del MoVimento 5 Stelle. Che ha voluto e ottenuto lo scalpo di Renzi – i cui elettori, pochissimi o pochi che possano essere considerati, potranno risultare decisivi nel risultato atteso a questo punto a sinistra col fiato sospeso- ma  è finito anch’esso al pronto soccorso politico.

Andrea Orlando al voto

         Beppe Grillo, peraltro genovese d’anagrafe e di tutto il resto, da comico ha assunto le sembianze tragiche dell’infanticida, avendo rivendicato “il diritto all’estinzione” della sua creatura politica, viste le condizioni alle quali l’avrebbe ridotta Conte. Che, dal canto suo, è apparso ai più fedeli di Grillo un parricida, avendo pubblicamente definito “marginale” la posizione del fondatore e tuttora garante del movimento, nonché consulente a contratto quasi scaduto.

Dal Giorno, Resto del Carlino e Nazione

         La crisi, a questo punto anche esistenziale, del movimento pentastellato  è arrivata al termine di una decadenza progressiva, non solo elettorale. Non a caso, forse, nell’ultimo e più grande scandalo di spionaggio e ditorni esploso a Milano non si trovano nomi di grillini, o contiani, fra quelli presi di mira da quanti al telefono, finiti però intercettati pure loro, si erano proposti di “screditare tutta Italia”.

Beppe Grillo e Giuseppe Conte

I pentastellati, che dello sputtanamento generale   avevano fatto la loro ragione di vita politica coi “vaffanculo” gridati da Grillo nelle piazze e nei teatri contro tutti, di ogni colore, poi assunti come alleati nella loro stagione di governo, dalla Lega al Pd; i pentastellati, dicevo, alla fine a screditarsi ci hanno pensato, e hanno provveduto, da soli nella percezione generale.  

Grillo furioso butta le cinque stelle di Conte nella monnezza

Dal blog personale del comico genovese

Beppe Grillo, con “un buco nello stomaco” annunciato da casa sua, non ha retto alla liquidazione fatta da Giuseppe Conte dei rapporti con lui come una questione “marginale”, comprensiva del sostanziale licenziamento da consulente a 300 mila euro annui. E in un video diffuso dal blog personale lo ha accusato di avere fatto ormai “evaporare” il MoVimento 5 Stelle, Che “non c’è più”. Sopravvive solo nel nome dei gruppi parlamentari composti da deputati e da senatori formalmente eletti, in realtà scelti da Conte senza coinvolgere davvero gli iscritti, dei quali sarebbe stata compiuta in agosto anche una sostanziale epurazione verificandone arbitrariamente l’operatività per comporre in un certo modo l’assemblea costituente di novembre, caricata anche del compito di ridurre o persino eliminare il ruolo di garante del fondatore.

         Dalla “democrazia dal basso” che Grillo ritiene di avere introdotto e garantito, appunto, si è arrivati secondo lui ad una “bassa democrazia”, a misura e al servizio personale dell’ex presidente del Consiglio. Al quale il comico genovese, deridendone peraltro la collocazione tra i progressisti, cioè a sinistra,  è tornato a dare del “mago di Oz”, come in una precedente rottura ricomposta all’ultimo momento. Questa volta il rapporto si è rotto definitivamente, si vedrà se ricorrendo anche a qualche vertenza giudiziaria, pur se Grillo ha detto, mostrandosi rassegnato, che non intende “fare casini”, forse dissuaso, secondo indiscrezioni di stampa non smentite, da una lunga consulenza legale tanto sgradita da non essere stata retribuita.

         Sotto le 5 Stelle è accaduto e accade ormai di tutto: anche che il fondatore e ancora garante per statuto rivendichi “il diritto all’estinzione” di un movimento “compostabile” come certa monnezza.  E pensare che per una decina d’anni, da quando sfiorò nelle elezioni politiche del 2013 la vittoria, conseguita in quelle del 2018 sino a rivendicare e ottenere Palazzo Chigi, quello che ci eravamo abituati a chiamare “il movimento grillino” ha condizionato la politica, più di quanto forse non fosse riuscito a fare dopo il 1994 Silvio Berlusconi: “lo psiconano” secondo la definizione dello stesso Grillo. Eppure, anche se anche adesso cerca di attribuirne la responsabilità tutta a Conte, il comico prestatosi alla politica ha contribuito quanto meno al passaggio da un centrodestra a trazione berlusconiana, appunto, ad un centrodestra a trazione meloniana, cioè ad una coalizione di destra-centro della quale si fatica, a dir poco, a costruire un’alternativa.

Dal Corriere della Sera di ieri

         Lo stesso Conte -in un’intervista pubblicata eri dal Corriere della Sera, la medesima alla quale Grillo ha reagito sul suo blog- invitato a dire se il campo di questa alternativa debba definirsi “largo” o “giusto”, ha risposto. “Asteniamoci dal chiamarlo”. Testuale. Neppure di campo sembra quindi possibile parlare.

Ripreso da http://www.startmag.it

Da Spadolini a Giuli, storia di un Ministero esploso come una rana

Da Libero

Ci sono Ministeri nella storia della Repubblica italiana tornati a vivere, come quelli dell’Agricoltura e del Turismo, pur dopo essere stati aboliti dagli elettori nel 1993 con referendum a larga partecipazione e maggioranza. Ce ne sono altri, come quello dei Lavori Pubblici, finiti in dicasteri più vasti dopo ingloriose vicende giudiziarie che li avevano ridotti nell’immaginario collettivo, a torto o a ragione, a sentine di corruzione. E già prima di Tangentopoli, risalendo i guai del Ministero affacciato sulla statua del bersagliere di Porta Pia già alla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino. Ce ne sono altri, come quello oggi chiamato della Cultura, nati da pur felici improvvisazioni, diciamo così, ma cresciuti peggio.

Dal Fatto Quotidiano di ieri

         Quello appena assurto alle cronache politiche e a tratti gossippare con l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e il suo successore Alessandro Giuli, cui Il Fatto Quotidiano, riferendone come già tentato dalle dimissioniha attribuito addirittura uno “sfogo” secondo il quale potrebbero essere trovate “tante impronte digitali” sul suo “cadavere”, nacque 50 anni fa, quasi di questi tempi, con un decreto legge voluto dal presidente del Consiglio Aldo Moro e dal suo vice Ugo La Malfa per sistemarvi al vertice Giovanni Spadolini. Che lo stesso La Malfa, su sollecitazione del comune amico Indro Montanelli, aveva candidato nelle liste del Partito Repubblicano al Senato  dopo l’esautoramento da direttore  del Corriere della Sera.

Giovanni Spadolini

         Quel decreto legge fu generosamente firmato al Quirinale da Giovanni Leone riconoscendo l’urgenza delle competenze da assegnare a un uomo di tanta cultura come Spadolini. Che però di suo si era accontentato di diventare ministro non della Cultura ma più semplicemente dei beni culturali da gestire con una certa competenza, comprensivi degli archivi disseminati fra molte amministrazioni pubbliche. Poi confluirono nei beni culturali, in una lunga serie di modifiche legislative, anche materie di natura turistica e sportiva che contribuirono ad aumentarne il portafogli, un po’ meno l’autorevolezza forse.

Dario Franceschini

L’idea di promuovere a Ministero della Cultura  un dicastero di gestione, ripeto, di beni culturali e affini non venne a Walter Veltroni nel primo governo di Romano Prodi nel 1996, come ho letto da qualche parte, ma nel 2021 a Dario Franceschini. Che, penalizzato dalla mancata nomina anche a vice presidente del Consiglio, fu politicamente risarcito, diciamo così, da Giuseppe Conte nella sua seconda edizione di presidente del Consiglio, a maggioranza non più gialloverde ma giallorossa, col verde della Lega sostituito dal rosso del Pd, in cui erano confluiti nel 2007 i resti del Pci e della sinistra democristiana. Col decreto legge numero 2 del 21 marzo 2021, varato da Draghi, il ministro dei beni culturali divenne, o fu promosso aulicamente ministro della Cultura. Ne guadagnò anche la sua vocazione a romanziere, peraltro di largo e meritato successo. E’ appena uscita la sua “Aqua e tera” recensita sull’Unità con particolare entusiasmo da Goffredo Bettini. 

Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli

         Fu insomma Franceschini a osare quello che non era saltato in mente nel 1974 a Spadolini, saggista e storico più che romanziere. E nasce, secondo me, da quell’eccesso di ambizione, inconsapevolmente più da regime che da democrazia, una certa deformazione sensitiva del Ministero già dei beni culturali che ha procurato i guai in cui sono incorsi prima Sangiuliano e poi Giuli procurando alla Meloni, forse non da soli, problemi che la premier francamente non meritava e non merita. Non foss’altro per le questioni di altro e più alto livello con le quali la presidente del Consiglio deve misurarsi in uno scenario internazionale da brividi.

La targa precedente del Ministero della Cultura

         Ho pensato nelle settimane di Sangiuliano alle prese con Maria Rosaria Boccia e nei giorni di Giuli col suo ormai ex capo di Gabinetto Francesco Spano, travolto da una “mostrificazione” lamentata dallo stesso Giuli, cosa sarebbe accaduto ai tempi di Spadolini e Veltroni, con i rispettivi presidenti del Consiglio. Ne sono rimasto con le mani fra i capelli, che conservo pressoché intatti, sia pure ingrigiti, alla mia età.  E mi chiedo se non sia il caso, pur paradossale, di fare tornare quel Ministero al nome di origine, come si fa con gli orologi quando si torna all’ora solare.

Giulio Andreotti

         A certi eccessi di ambizione, o presunzione, faceva forse bene la buonanima di Giulio Andreotti a preferire quella che lui ironicamente, rotolando qualcosa fra le dita e sollevando le sopracciglia, si attribuiva come “aurea mediocrità”.

Pubblicato su Libero

La sinistra in Liguria…minacciata anche dal ritorno all’ora solare

Da tutti i giornali

         Il ritorno all’ora solare, che scatterà nella prossima notte, mentre in Liguria si sarà appena concluso o starà per concludersi l‘allestimento dei seggi per l’elezione anticipata del presidente e del Consiglio regionale, contribuisce forse ad alimentare come un presagio la paura che si avverte nell’ex campo largo della sinistra, ristretto da Giuseppe Conte imponendo al Pd l’estromissione di Matteo Renzi. Una paura neppure tanto nascosta dietro l’aria di festa del comizio finale della campagna elettorale, con Elly Schlein e lo stesso Conte sullo stesso palco ma non una accanto all’altro, distanziati di due posizioni: l’una peraltro con una vistosa giacca più rossa che viola su camicetta bianca e l’altro scuro anche nell’abbigliamento.

Il comizio finale del centrodestra per il rinnovo anticipato del Consiglio regionale ligure

         La paura, a sinistra, è che a tornare indietro fra domani e lunedì non saranno solo le lancette dell’orologio degli elettori, ma anche gli umori di questi ultimi. Nel senso che, a dispetto delle elezioni anticipate praticamente imposte dai magistrati arrestando il governatore precedente Giovanni Toti e liberandolo solo dopo le sue dimissioni e la conseguente decadenza dell’amministrazione, i liguri potrebbero confermare il centrodestra eleggendo alla presidenza della regione l’attuale sindaco di Genova Marco Bucci. Che è stato convinto a candidarsi dalla premier in persona Giorgia Meloni, accorsa al comizio conclusivo con gli altri leader nazionali della coalizione.

La vignetta del Secolo XIX di Genova

         Indicativa della paura della sinistra di perdere la partita, o “la battaglia” secondo il titolo di Repubblica, è una vignetta sul Secolo XIX di Genova in cui Stefano Rolli scherza sull’augurio abituale della vittoria al “migliore”. “Piano con i titoli”, dice l’interlocutore che teme evidentemente la vittoria del peggiore, dal suo punto di vista, pensando a Bucci piuttosto che all’ex ministro Andrea Orlando.

         Consapevole probabilmente delle difficoltà locali create da Conte col veto posto ai renziani, che potrebbero risultare decisivi per la vittoria di Bucci, già sostenuto da loro come sindaco di Genova, la Schlein ha caricato molto di politica nazionale la sua campagna elettorale, attaccando il governo Meloni come fa appunto Renzi nella sua ultima, anzi penultima edizione. Ma i sondaggi dimostrano che le polemiche contro il governo lasciano sostanzialmente invariati umori e rapporti potenziali di forza.

         Nelle valutazioni medie dei sondaggi effettuati dai principali istituti appena pubblicate da Repubblica il partito della Meloni a livello nazionale ha perso in 15 giorni uno 0,3 per cento di voti compensato nel centrodestra da uno 0,5 per cento in più della Lega e da uno 0,2 per cento in più di Forza Italia. Il Pd della Schlein ha realizzato uno 0,2 per cento in più che non cambia nulla nel confronto fra gli schieramenti considerati nel loro complesso, essendosi verificata una flessione della sinistra radicale rossoverde.  

La crisi dell’Onu in quell’inchino di Guterres a Putin nel terzo anno di guerra in Ucraina

Dal Dubbio

Come per i nomi, alcuni dei quali sono presagi per chi li porta, così per le foto ce ne sono di particolarmente significative, direi emblematiche, delle persone riprese e delle condizioni felici o infelici in cui esse si trovano. E’ il caso di quella che ha ripreso il segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese Antonio Guterres, in riguardosissimo saluto col presidente della Russia Vladimir Putin. Che pure da più di due anni e mezzo è in guerra da lui stesso mossa all’Ucraina chiamandola peraltro “operazione speciale”, come se si fosse trattato di un intervento di polizia per ristabilire l’ordine in un territorio non autonomo o sovrano, ma ribelle, sfuggito all’ordine e alla disciplina della Madrepatria Russia.

La guerra in Ucraina

       Prima ancora che riesplodesse il Medio Oriente col pogrom antiebraico del 7 ottobre 2023, la durissima reazione di Israele e tutto il resto, l’aggressione russa all’Ucraina era apparsa nel 2022 anche il segno della crisi dell’Onu, fondato alla fine della seconda guerra mondiale per garantire pace e sicurezza dappertutto.  

Una postazione Onu in Libano

Putin agisce in Ucraina per nulla intimidito dall’Onu, dove col suo diritto di veto la Russia è del resto in grado di bloccare ogni serio intervento per proteggere l’Ucraina. Ciò ha  contribuito a fare scambiare dal premier israeliano Beniamjn Netanyau per avamposti del suo esercito anche i presidi delle Nazioni Unite in territorio libanese, disinvoltamente invitati, si far per dire,  a spostarsi per non intralciare le operazioni militari ebraiche. Un invito peraltro preceduto da un discorso dello stesso Netanyau all’0nu liquidatorio di quell’organizzazione e del suo segretario generale, dichiarato “persona non gradita”.

          Fra le priorità drammatiche avvertite a livello internazionale, con  guerre sempre meno in “pillole” di quanto non le avesse ottimisticamente avvertite il Papa negli anni scorsi, forse la più grave è diventata proprio l’impotenza assoluta delle pur costosissime Nazioni Unite.   

Pubblicato su Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑