Macron non vede vincitori nelle urne e si mette alla finestra dell’Eliseo

         Gli ancora orgogliosamente comunisti italiani del manifesto hanno dato dello “sfrontato” , a doppio senso, al presidente Emmanuel Macron. Che dopo qualche giorno di riflessione si è convinto che “nessuno” abbia vinto le elezioni anticipate da lui stesso volute, dopo la sconfitta nelle europee di giugno, per contenere l’avanzata della destra lepenista e determinare un chiarimento politico.

Marine Le Pen

La vittoria della destra è mancata, pur avendo essa raccolto 10 milioni di voti, cioè più di tutti gli altri, ma classificandosi al terzo posto nella distribuzione dei seggi parlamentari a causa del particolare sistema elettorale francese. Tutto legittimo, per carità, ma da un paradossale aspetto, almeno per quanti in Italia, da sinistra ma anche dal centro, accusano la Meloni di avere conquistato un anno e mezzo fa Palazzo Chigi prendendo con la sua alleanza di centrodestra meno voti di tutti gli altri, e con un’affluenza alle urne in calo.  Che invece in Francia è aumentata.

Jean-Luc Melenchon

  La vittoria della destra, dicevo, è mancata oltralpe, ma è mancata secondo Macron anche la vittoria del fronte popolare, che invece l’ha gridata ai quattro venti nelle piazze, e tanto meno quella del suo schieramento nominalmente liberale. Non ha vinto quindi nessuno, ripeto, nel ragionamento del presidente francese, che si è perciò messo alla finestra per vedere che cosa succederà nella nuova Assemblea Nazionale e dintorni e chi nominare a tempo debito capo del governo per mandarlo nella fossa  parlamentare dei leoni.  

Questo, e non altro, o di più, ha ottenuto il presidente francese con la geniale decisione, attribuitagli dai sostenitori, tifosi e simili di Francia e fuori, di giocare la carta delle elezioni anticipate. Che forse, più ancora di chiarire le cose, doveva solo proteggere in qualche modo i tre anni residui del secondo e ultimo mandato presidenziale di Macron, deciso a rimanere all’Eliseo sino all’ultimo giorno e ultima ora del calendario o dell’orologio costituzionale.

         Si vedrà se la pessimistica valutazione dei risultati elettorali, con la vittoria mancata a tutti, consentirà a Macron di muoversi meglio dietro le quinte per dividere i fronti diversi dal suo e mettere su un governo che lo esoneri fra non meno di un anno da un altro ricorso ad elezioni anticipate.

Aldo Moro

         Dalle nostre parti, in Italia, Aldo Moro -che non era il presidente della Repubblica ma, forse ancora di più, il regolo della Democrazia Cristiana- si attestò su una posizione ottimistica per uscire nel 1976 da un risultato elettorale favorevole alla Dc, con 14 milioni di voti pari al 38,71, contro i 12 milioni di voti del Pci pari al 34.3, ma paralizzante perché né l’uno né l’altro dei due “vincitori” -secondo la definizione dello stesso Moro- disponevano sulla carta di alleati disposti a farli governare uno senza o contro l’altro.

         Proprio quella ottimistica valutazione dei “due vincitori” consentì a Moro di strappare ai comunisti l’appoggio esterno ad un governo di soli democristiani. Ma era Moro, ripeto. Macron è solo Macron.

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La Nato in 75 anni ha visto un’Italia di tutti i colori politici

Dal Dubbio

  Possiamo ben dire che alla Nato hanno visto e sperimentato l’Italia in tutti i colori politici possibili, anche quelli che potevano essere all’origine improbabili. Vi aderimmo con un governo a guida democristiana, il quinto di Alcide Gasperi, dopo uno scontro durissimo in Parlamento con una sinistra ancora da fronte popolare battuto nelle elezioni del 1948.

         Alle nozze d’argento dell’Alleanza Atlantica, nel 1974, l’Italia era già politicamente diversa. I governi erano ancora a guida democristiana, con Mariano Rumor a Palazzo Chigi, ma vi facevano parte anche i socialisti, che pure avevano spalleggiato i comunisti nella opposizione alla nostra adesione.

         Le nozze d’oro furono festeggiate dall’Italia con un governo presieduto per la prima volta nella storia della Repubblica da un post-comunista: Massimo D’Alema. Che è stato sinora anche l’unico perché Pier Luigi Bersani vi provò soltanto nel 2013, costretto a rinunciarvi dal suo ex compagno di partito e presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che, in particolare, gli impedì la formazione perseguita dall’allora segretario del Pd di un governo “di minoranza e di combattimento” appeso agli umori eventualmente astensionistici dei grillini. Napolitano declassò con una nota ufficiale del Quirinale a “pre-incarico” quello che tutti i giornali avevano definito incarico. E glielo tolse senza bisogno che l’interessato vi rinunciasse.

Giorgia Meloni

       Alle nozze di platino della Nato, nel 75.mo anniversario della fondazione, l’Italia ha partecipato col primo governo guidato non solo da una donna, ma da una donna di destra orgogliosamente dichiarata. La Meloni d’altronde già prima di salire a Palazzo Chigi, quando si opponeva al governo di Mario Draghi ne aveva condiviso il forte atlantismo praticato nel sostegno politico e militare all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

         L’edizione platinata, diciamo così, del vertice non solo celebrativo dell’Alleanza Atlantica ha ripagato forse la premier italiana degli inconvenienti politici che ha dovuto subire in Europa per i movimenti alla sua destra cavalcati con la solita disinvoltura dall’alleato Matteo Salvini. Che da una parte giura sulla durata del governo, di cui è vice presidente del Consiglio, sino alla fine ordinaria della legislatura, nel 2027, ma dall’altra contribuisce ogni volta che può e vuole ad assecondare la rappresentazione un po’ pasticciata che ne fanno le opposizioni di sinistra e di centro: a volte separatamente e a volte persino insieme, mettendosi in posa davanti a qualche fotografo.

         La politica estera è un po’ diventata, nonostante le salvinate dei giorni pari o dispari, o di tutti i giorni, il punto forte della Meloni: come accadeva alla Dc di De Gasperi e dei suoi successori. Cosa che contribuisce a coltivare nella politologia italiana la pianta, non so fino a che punto gradita alla premier, della democristianizzazione della destra. Una pianta scomoda alla parte del Pd d’origine scudocrociata.

Pubblicato sul Dubbio

La Meloni alle nozze di platino della Nato, come D’Alema alle nozze d’oro

Massimo D’Alema

Alle nozze d’oro della Nato, a 50 anni cioè dal matrimonio militare e politico degli alleati occidentali, l’Italia fu rappresentata da Massimo D’Alema: il primo e sinora unico post-comunista salito alla guida del governo. Nessuno oltr’Atlantico si sentì a disagio perché prima ancora di D’Alema, e della sua partecipazione all’intervento della Nato nei Balcani, il compianto e storico segretario del Pci Enriico Berlinguer aveva scoperto e indicato nella Nato uno “scudo” utile alla protezione anche dei comunisti italiani da quelli sovietici, che li volevano subordinati.

         Il già allora presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, grazie al cui appoggio parlamentare era nato il primo governo di un post-comunista in Italia, non ebbe difficoltà a convincere gli amici d’oltre Atlantico a fidarsi di D’Alema. Che, dal canto suo, non si sentì per niente a disagio, preceduto d’altronde negli anni ancora della guerra fredda da un Giorgio Napolitano conferenziere negli Stati Uniti.

Biden e Meloni d’archivio

         Alle nozze di platino della Nato, 25 anni dopo quelle d’oro, l’Italia è rappresentata come presidente del Consiglio da Giorgia Meloni, l’opposto politico di D’Alema. Che è arrivata in Usa dopo essere stata già accarezzata e baciata alla Casa Banca sui capelli dal presidente Joe Biden non ancora messo in croce, come in questi giorni, per la sua età. O il suo “rimbambimento” gridato ogni giorno in Italia dal Fatto Quotidiano con ampie coperture -bisogna ammetterlo- della stampa americana e di esponenti dello stesso partito di Biden.

Dal Foglio

         L’atlantismo praticato dalla leader della destra italiana già prima di salire a Palazzo Chigi, quando era ancora all’opposizione del governo del superatlantista Mario Draghi ma ne aveva condiviso il sostegno  all’Ucraina aggredita dalla Russia,  è stato sufficiente negli Stati Uniti per considerarla un’alleata affidabile e una democratica, ma non in Italia per affrancarla da quella che oggi Giuliano Ferrara sul Foglio chiama, criticandola, “la sindrome Meloni della sinistra”.

Dal Secolo XIX

E’ una sindrome che proprio oggi il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX rilancia precisando che quella della Meloni è “la camicia nera” del fascismo, non “la maglia nera dei salari” rimproveratale da un critico più terra terra reduce dalla lettura di un giornale.

Giuliano Ferrara sul Foglio

L’intervento di Giuliano Ferrara ha un valore doppio per la provenienza familiare e personale del fondatore del Foglio dal comunismo italiano. E per la sua conoscenza senza pari del più storico dei segretari del Pci, Palmiro Togliatti, che gli spetta per essere “cresciuto sulle sue ginocchia”, come diceva di lui Bettino Craxi ricordando che la madre ne era stata la segretaria più di fiducia. E il padre, prima ancora che senatore del Pci, corrispondente dell’Unità da Mosca diventandone poi direttore. Ed è proprio a Togliatti, un po’ pentito degli improperi riservati in passato ad Alcide De Gasperi, che Giuliano si richiama per reclamare, a favore della Meloni, “equanimità nel riconoscimento degli avversari”.

L’eredità sempre contesa di Pirro a quasi 2300 anni dalla morte

Da Libero

Pirro, il re dell’Epiro passato alla storia grazie ai racconti di Plutarco per le sue vittorie effimere sui romani, costategli la sconfitta finale, morì nel 272 avanti Cristo, cioè 2296 anni fa. Ma ancora gli capita di rivivere in qualche sfortunato condottiero, in senso lato, che ne raccoglie lezioni ed eredità nei campi più diversi.  

Il professore Marc Lazar

         Ieri su Repubblica con la firma di Marc Lazar, che non è Plutarco ma pur sempre un apprezzabilissimo storico e sociologo francese esperto anche dell’Italia e della sua non facile politica, la successione di Pirro è toccata a Jean-Luc Melenchon. Che si sente con la sua Francia irriducibile, ribelle o come altro vogliamo tradurre la gallica insoumise, il vincitore del secondo turno delle elezioni di domenica scorsa oltralpe, e quindi delle elezioni tout court, anticipate da Macron dopo la sconfitta nelle europee di giugno per contenere l’avanzata della destra lepenista.  

         Avvolto col cuore nelle bandiere che sventolavano davanti a lui nella piazza di Parigi dove parlava, e qualcuno avvertiva di rivivere un’altra edizione della Rivoluzione, con la maiuscola, dell’ormai lontano 1789, Melenchon ha reclamato il nuovo governo e la sua guida. Anzi, ha diffidato Macron dal sottrarsi a questo obbligo, maturato secondo il tribuno di sinistra dal suo stesso appello al fronte popolare costituitosi contro la destra incombente.  

Ma -figuriamoci- Macron ha ben altro per la testa. Non darà a Melenchon né il governo né la sua guida. Avrebbe coabitato -come si dice politicamente a Parigi- con il lepenista Jordan Bardella, diventato Mardella in una scritta sul monumento parigino alla libertà, l’uguaglianza e la fraternità, ma con Melenchon no. E l’interessato dovrà darsene una ragione, gli ha spiegato Marc Lazar.

Il furbissimo, imprevedibilissimo Macron, per quanto ridotto al Micron dal mio amico e direttore Mario Sechi, ha deciso di giocare quello che Il Foglio ha chiamato il suo “terzo tempo”, una specie di coda alle elezioni che durerà con “nuovi interlocutori” non meno di un anno, quando egli potrà tornare a sciogliere anticipatamente l’Assemblea Nazionale. Ma -chissà- potrà durare anche di più, sino all’esaurimento ordinario del mandato presidenziale, con Parigi e l’intera Francia ben presidiate dai trentamila uomini in armi, di cui cinquemila solo nella Capitale, impiegati domenica scorsa. I francesi ormai con Macron vi sono abituati.

Pietro Nenni e Sandro Pertini d’archivio

Personalmente, per averne letto gli scritti, ho molta stima e anche simpatia per Marc Lazar. E nessuna naturalmente per Melenchon e il suo pasticciatissimo fronte popolare, come tutti i fronti popolari, a cominciate da quello che da ragazzo vidi naufragare nel 1948 in Italia nelle urne dopo il pieno nelle piazze, come disse sconsolato Pietro Nenni. Che aveva partecipato a quel suicidio socialista, facendosi dissanguare dai comunisti, con tanta fiducia da chiedere una volta al compagno di partito Sandro Pertini, che me l’avrebbe personalmente raccontato a Montecitorio quando era presidente della Camera: “Avremo tutte le persone necessarie e adatte a coprire i posti che ci spetteranno”? Poi, a sconfitta subìta, sempre secondo il racconto dell’interessato, toccò a Pertini consolarlo della delusione e cercare di infondergli qualche speranza di sopravvivenza politica.

Un Romano Prodi d’archivio

Marc Lazar, per tornare a lui, pecca di macronite limitandosi a Melenchon nella individuazione dell’erede di turno di Pirro. Penso, a dispetto dell’indulgenza anche degli amici del Foglio e dei “nuovi interlocutori” -ripeto- del presidente francese, che Macron faccia una bella concorrenza a Melenchon sulla strada del compianto re dell’Epiro. Egli mi ricorda un po’, per esperienza di cronaca politica, il Romano Prodi degli anni dell’Ulivo e poi dell’Unione, quando costruiva governi destinati a durare non più di un anno e mezzo. Che già era qualcosa in più del solo professore Prodi impegnato nel 1978 nella famosa seduta spiritica durante il sequestro di Aldo Moro. Ma soprattutto il Macron sopravvissuto alle elezioni di domenica mi ricorda la Rosalina che fantasticava dei guadagni dalla ricotta che portava al mercato prima che le cadesse dalla testa sulla quale la trasportava con troppa baldanza.

Pubblicato su Libero

Ma chi è il Pirro di Francia? Più Melenchon, l’indomito, o Macron?

Da Repubblica

         Marc Lazar, un fine storico e sociologo francese peraltro amico dell’Italia e conoscitore della sua politica generalmente complicata, ha commentato su Repubblica i risultati elettorali nel suo Paese evocando Pirro a distanza di 2304 anni dalla battaglia di Eraclea, solo apparentemente vinta dal re dell’Epiro perché in realtà fu la premessa della sconfitta finale. Egli ha intestato a Pirro il successo del fronte popolare guidato mediaticamente da Jean-Luc Melanchon, che reclama dal presidente francese Emmanuel Macron i gradi e quant’altro gli spetterebbero per avere consentito la sconfitta della destra lepenis

Dalla Stampa

         Quello invece al quale sta lavorando il presidente francese è “il piano anti-Melenchon”, come lo ha definito La Stampa, basato sull’obiettivo di spaccare il fronte popolare dopo averlo usato, e persino sollecitato, per non dovere coabitare -si dice in Francia- nei suoi residui tre anni di mandato all’Eliseo con un governo di destra.

Emmanuel Macron

         Mi chiedo tuttavia se nei panni dell’incolpevole e lontanissimo Pirro non debba sentirsi o essere messo proprio Macron, più ancora dell’orgogliosamemte indomito Melenchon. Ho la sensazione che -bene che gli vada, e gli augura in Italia, come vedremo, Il Foglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa- il presidente della Repubblica d’oltralpe sia destinato a gestire a lungo, per tutto il resto del suo mandato, salvo un altro ricorso l’anno prossimo ad elezioni anticipate, le condizioni di stallo in cui ha messo o portato la Francia.

Dal Foglio

         “Il terzo turno di Macron”, hanno titolato Ferrara e Cerasa -eccoci tornati al Foglio– scrivendo nel sommario del titolo di prima pagina, con un certo sarcasmo verso i critici del presidente, che “la Francia della cosiddetta instabilità ha il premier di prima”, di cui sono state respinte per il momento le dimissioni, “e nuovi interlocutori con cui dialogare”. Ma con una calma che temo non permetteranno le condizioni della Francia, gli sviluppi della situazione internazionale, a cominciare dalla guerra in Ucraina che Putin ha reso ancora più feroce bombardando anche un ospedale pedriatico, e la gestione degli affari europei, chiamiamoli così, dopo l’ormai imminente insediamento anche del nuovo Parlamento di Strasburgo.

Romano Prodi

         Senza risalire a 2304 anni fa -ripeto- e a Pirro, mi fermerei a meno di una trentina  d’anni fa per ricordare altri eventi in terra oggi italiana: i tentativi di Romano Prodi, prima con l’Ulivo e poi con l’Unione, di governare con coalizioni appese ad un filo, e con cambi della guardia a Palazzo Chigi, la versione romana dell’hotel Matignon parigino, di una frequenza da cosiddetta prima Repubblica, odiata molto più del dovuto o dell’opportuno. Le uniche cose che Prodi riuscì a risparmiarsi da presidente del Consiglio furono nuove edizioni della famosa seduta spiritica alla quale aveva partecipato da semplice professore ai tempi del sequestro Moro, nel 1978.

L’appropriazione indebita del socialismo nella sinistra italiana sull’onda francese

Da Libero

L’ex ministro Andrea Orlando, fra i più a sinistra nella geografia del Pd anche di Elly Schelin, ha commentato i risultati delle elezioni anticipate francesi, volute al tavolo da poker dal presidente Emmanuel Macron dopo la paura procuratagli dalla destra nelle elezioni europee del mese scorso, dichiarando che “la parola socialismo spaventa solo in Italia”. Nella nostra Italia, non so se pure di Orlando, dove gli sprovveduti elettori alla sinistra nelle varie edizioni fotografiche che si avvicendano da una ventina d’anni, compresa l’ultima appena scattata sotto la statua romana di Cavour, e davanti alla Cassazione, preferiscono Giorgia Meloni e alleati di centrodestra. 

Andrea Orlando

        Ma i socialisti, di grazia, a parte quelli radicali del pomodoro assemblati con i verdi di Angelo Bonelli, dove stanno nella sinistra italiana decantata da Orlando ed equiparata al fronte popolare in festa oltralpe? Me lo chiedo con tristezza e inquietudine accresciute col drammatico racconto della loro fine fatto domenica sul Corriere della Sera da Enrico Boselli. Che nel 1993 stette sul punto di succedere a Bettino Craxi, dimessosi da segretario del Psi dopo il coinvolgimento anche formale nelle indagini su Tangentopoli. E dopo che il coinvolgimento solo mediatico, presunto e quant’altro gli avevano già precluso il ritorno a Palazzo Chigi concordato con la Dc di Arnaldo Forlani. 

        Boselli, che per sette anni da quel torrido 1993 aveva cercato ostinatamente di fare sopravvivere il Psi a se stesso in vari modi e formule, si sentì invitato nel 2000 a Palazzo Chigi da Giuliano Amato, che vi era tornato su designazione di Massimo DAlema succedendogli, dopo esservi già stato fra il 1992 e il 1993 su designazione di Craxi.  Che lo aveva sperimentato fra il 1983 e il 1987 come suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Massimo D’Alema e Giuliano Amato d’archivio

         Accompagnato da Roberto Villetti, già direttore dell’Avanti!,  Boselli si sentì proporre dal suo amico ed ex compagno di partito, avvertendo la provenienza dalemiana dell’invito, di rinunciare al progetto di un rinnovato partito socialista per unirsi e confondersi nei post-comunisti reiscrittisi all’anagrafe come democratici di sinistra. Cosa peraltro che neppure Amato aveva ritenuto di fare, bastandogli il gradimento, la stima e quant’altro di D’Alema per conservare l’agibilità politica pur essendo stato il braccio destro di Craxi. Un’agibilità che lo avrebbe poi portato sulla soglia del Quirinale e infine alla Corte Costituzionale, prima come giudice e infine come presidente, ora e a vita emerito. 

        Boselli alla prospettiva di guadagnarsi qualche altro mandato parlamentare fra i democratici di sinistra preferì la solitudine del socialista alla memoria. E non avremmo probabilmente più sentito parlarne se non se ne fosse ricordato Francesco Verderami, del già citato Corriere, convincendolo a raccontarsi. O, meglio, a raccontare la storia della scientifica operazione di annientamento politico dei socialisti italiani condotta dai loro fratelli o cugini, come preferite. Un’operazione dal sapore un po’ anche razzistico. Del resto, appartiene alla storia e letteratura comunista la liquidazione dei socialisti come socialtraditori, persino peggiori dei fascisti. Utili ai fronti popolari di turno come manovalanza.

        Anche il povero Giacomo Matteotti prima di essere ucciso dai fascisti era incorso un secolo fa negli attacchi e nelle derisioni dei comunisti.

         I guai della sinistra, alternati alle loro feste, nascono anche da questa sua natura cinica.

Pubblicato su Libero

Enrico Boselli vuota il sacco sul socialisticidio italiano dopo Tangentopoli

Dal Dubbio

Di Enrico Boselli, a soli 67 anni e mezzo compiuti in una politica affollata per fortuna di giovani ma anche di anziani ben resistenti, si erano perse francamente le tracce. Magari, è stato lui per primo a volersi appartare per delusione, come per spalmarsi del balsamo della solitudine. Eppure fu il più giovane presidente di una regione in Italia. E che regione: l’Emilia Romagna. Fu a lui, prima ancora che a Ottaviano Del Turco, succedutogli nel marasma di Tangentopoli, o a Giuliano Ferrara, inchiodatosi nella postazione giornalistica offertagli da Silvio Berlusconi, che Bettino Craxi pensò di lasciare la segreteria del Partito Socialista nel momento della rinuncia dopo il coinvolgimento anche formale nelle indagini giudiziarie sul finanziamento illegale della politica.  A dissuaderlo fu Ugo Intini non perché vi aspirasse lui stesso o perché preferiva altri candidati, ma solo per il timore che Boselli incarnasse una specie di riedizione funesta della gioventù hitleriana bruciata nella Berlino ormai caduta.

Dal Corriere della Sera del 7 luglio

         A raccontarlo è stato lo stesso Boselli, intervistato per il Corriere della Sera da Francesco Verderami nella serie fortunata e spesso clamorosa dei “Segreti del potere”: la stessa nella quale di recente il cardinale Camillo Ruini ha confermato e completato il racconto sul presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro impegnato nell’estate del 1994 a far cadere il governo di Silvio Berlusconi appena nominato da lui stesso a malincuore. Un impegno al limite dell’eversione nel quale il Capo dello Stato aveva cercato l’aiuto persino della Chiesa, invitando al Quirinale, con Ruini allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, anche il Segretario di Stato Angelo Sodano, cardinale pure lui naturalmente, e monsignor Jean Louis Touran, addetto della Santa Sede ai rapporti con gli Stati. Il rifiuto dell’aiuto fu unanime, anche se dopo qualche mese il governo cadde lo stesso.

Enrico Boselli e Ugo Intini d’archivio

         Ma più che il racconto dell’opposizione dell’ormai compianto Intini -da lui ora ringraziato dopo essersene sentito allora ferito- ad una  sua successione drammatica a Craxi al vertice del Psi, sono clamorosi – nell’intervista di Boselli- alcuni aspetti rivelati dell’operazione di annientamento politico dei socialisti condotta o attribuita a Massimo D’Alema. Che è stato sempre intravisto da Boselli dietro la sua convocazione a Palazzo Chigi da parte di Giuliano Amato, succeduto allo stesso D’Alema per la sua seconda esperienza di presidente del Consiglio dopo quella voluta da Craxi nel 1992. Fu allora che ai socialisti ancora ostinati nel conservare un partito dichiaratamente socialista fu proposto di dissolversi nell’ormai ex Pds, oltre che ex Pci, o scomparire. Boselli, accompagnato all’incontro dall’amico Roberto Villetti, ex direttore dell’Avanti!, preferì praticamente la scomparsa. D’altronde -sorpresa nella sorpresa- neppure Giuliano Amato, perdonato della sua esperienza con Craxi da D’Alema prima come ministro dei suoi due governi di breve durata e poi -ripeto- come suo successore a Palazzo Chigi, su richiesta esplicita di Villetti, si era dichiarato disposto a iscriversi ai Democratici di sinistra, come i post-comunisti avevano deciso di chiamarsi rinunciando anche al partito come parola.

Massimo D’Alema ed Enrico Boselli d’archivio

         Per tempi e modalità quell’operazione contro i socialisti -degni del loro nome oltre le Alpi ma non in Italia- apparve ma forse fu a mezza strada tra fratricidio e razzismo politico. Essa d’altronde non mi sembra abbia portato bene alla sinistra italiana, né nei suoi vari agglomerati politici ed elettorali, per quanto apparvero fortunati ai tempi prodiani dell’Ulivo, un po’ meno dell’Unione, né nelle foto che l’hanno via rappresentata. L’ultima delle quali è quella scattata sotto la statua di Cavour e davanti alla sede della Cassazione per la madre di tutte le battaglie che sembra diventata -al pari del premierato a destra per Giorgia Meloni- l’iniziativa referendaria contro le autonomie differenziate delle regioni. Che sono state tradotte in legge ordinaria dal centrodestra ma introdotte nella Costituzione dalla stessa sinistra nel 2001, nel tentativo per giunta fallito di evitare un ritorno della Lega nel centrodestra.

         Se la sinistra italiana non sta bene, anche quella francese ha i suoi problemi. Essa ha appena vinto le elezioni ma senza i numeri e l’omogeneità per governare. E quella inglese è tornata al governo con meno voti degli sconfitti per regole elettorali definite “inquietanti” per l’Italia da Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

Pubblicato sul Dubbio

Macron a sorpresa ha vinto (sulla destra), anzi ha perduto…

L'”Indomito” Jean-Luc Melenchon

A sorpresa, dunque, il presidente francese Emmanuel Macron ha sconfitto la destra impedendole con le elezioni anticipate, soprattutto nel secondo turno che ha rovesciato il risultato del primo, la vittoria assaporata nelle elezioni europee del mese scorso. Ma con minore o uguale sorpresa egli ha perduto nei rapporti con la sinistra, soprattutto quella indomita -insoumise-  con cui si era di fatto alleato nei ballottaggi, col meccanismo delle desistenze, per scongiurare la vittoria della destra. “Un’alleanza del disonore”, l’ha definita il perdente lepenista  Jordan Bardella.

Da Repubblica

         Nel nuovo Parlamento francese nessuno dei tre schieramenti reali o virtuali espressi dalle urne è in grado di fare da solo un governo, o soltanto di rimanere unito in una eventuale prova di forza. E ciascuno dei tre ha come obiettivo di neutralizzare gli altri due. Il più vivace, perentorio, persino minaccioso nei riguardi dei macroniani, e di Macron in persona, è il capo della sinistra radicale Jean- Luc Melenchon.

Dalla Stampa

         Questo significa che dalle urne per decisione, scelta, responsabilità dello stesso Macron è uscita una Francia ingovernabile. “Caos francese”, ha titolato giustamente La Stampa. Il disordine delle piazze degli anni e mesi scorsi si trasferisce in Parlamento. Ma ciò nonostante la Francia, dove il sistema presidenziale conferisce a Macron un ruolo superiore a quello del governo che finirà per essere formato con chissà quali alchimie, essendo impossibili altre elezioni anticipate per un anno, conserva l’ambizione di svolgere un ruolo analogo al passato nella definizione in corso degli equilibri nell’Unione Europea.  

Papa Francesco a Trieste

         E’ una situazione paradossale sul fronte interno francese e su quello comunitario. Ma curiosamente non è una situazione eversiva, è semplicemente da democrazia ammalata, che “non sta bene”, come ha detto Papa Francesco ieri mattina parlando a Trieste mentre in Francia si votava. E’ una situazione consentita, prodotta, come preferite, dal sistema costituzionale ed elettorale della Repubblica d’oltralpe. Un sistema che pure per tanto tempo e in tanti è stato invidiato in Italia, sino ad auspicarne da qualche parte politica l’imitazione

Walter Veltroni ieri sul Corriere della Sera

         Verrebbe voglia di tenerci stretto il nostro tanto vituperato sistema, nonostante la crescente disaffezione certificata dall’affluenza alle urne, ormai, di metà dell’elettorato, o ancor meno. E francamente, come osservava ieri in un editoriale sul Corriere della Sera l’ex segretario del Pd Walter Veltroni, pur soddisfatto della vittoria appena festeggiata  dai laburisti, non desta molta invidia neppure il sistema elettorale inglese. Dove si può vincere ancora più facilmente che in Italia, dove ciò è accaduto più volte, raccogliendo meno voti degli sconfitti.  “Qualcosa -ha scritto testualmente Veltroni raccontando e commentando i numeri grazie ai quali è tornato un laburista al numero 10 di Downing Street- che, ad esempio in Italia, determinerebbe numerose e legittime inquietudini”.

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L’ultima scommessa di Macron nella partita elettorale contro la destra

Da Repubblica

         Emmanuel Macron, il presidente della Repubblica di Francia azzoppato dalla sconfitta inflittagli dalla destra nelle elezioni europee del mese scorso, ha alzato la posta nella difesa dei tre anni che restano del suo secondo e ultimo mandato all’Eliseo. Dopo avere rimandato i francesi alle urne sciogliendo anticipatamente l’Assemblea Nazionale, visto il successo conseguito dalla destra anche nel primo turno delle nuove elezioni, ha drammatizzato al massimo il clima dei ballottaggi odierni. Dalla paura delle urne è passato alla “paura nelle urne”, come è sfuggito a Repubblica, in Italia, di titolare. Sfuggito perché, considerando l’appoggio di questa testata al presidente francese, non sembra francamente un aiuto quello prestatogli presentandolo praticamente con una pistola carica sulla sua scrivania.

         Parigi -dicono le cronache- è blindata con cinquemila uomini armati per presidiarla da eventuali disordini. Ma anche il resto del Paese è sorvegliato, con altri venticinquemila in armi, come se fosse minacciato dall’invasione della destra, dopo un po’ d’anni in cui, in verità, Macron in persona è stato dileggiato e attaccato nelle piazze sul versante opposto, dalla sinistra più radicale. Che ora il presidente francese, con grande disinvoltura politica definita machiavellica facendo un torto al filosofo, storico, diplomatico, politico fiorentino morto 497 anni fa, ha preferito alla destra chiedendo e ottenendo la cosiddetta desistenza nei ballottaggi per battere Marine Le Pen e il suo giovane candidato Jordan Bardella a Palazzo Matignon, cioè alla guida di un nuovo governo

Marine Le Pen e Jordan Bardella

Neppure Marine Le Pen ha scherzato in disinvoltura, a dire la verità.  Già compromessa nei rapporti del passato con la Russia di Putin, essendone stata finanzata attraverso una banca ungherese, la leader della destra francese ha cercato di fare concorrenza pacifista, diciamo così, alla sinistra nelle ultime battute della campagna elettorale schierandosi contro l’invio di altre armi all’Ucraina usabili per colpire anche i territori russi dai quali partono i missili, e non solo per intercettarli prima che cadano sulle infrastrutture e sulle popolazioni del paese aggredito da due anni e mezzo.

La guerra in Ucraina

Ma ad un Macron pronto -ricordate?-  a mandare in Ucraina istruttori e truppe francesi per sostenere la resistenza ucraina e qualche seria controffensiva dovrebbe apparire ed essere ancora più negativa la posizione della sinistra francese radicale. Che di armi all’Ucraina di Zelensky non ne vuole più mandare, neppure per un uso tanto esclusivamente quanto ipocritamente e insufficientemente difensivo.

Stiamo trattando di un problema di politica estera, anzi di guerre,  essendovene- con Gaza e dintorni-  più d’una alle porte o dentro l’Europa. Ma non meno contradditori e confusi sono i problemi tutti interni, sociali ed economici, che attanagliano la Francia non meno di altri Paesi dell’Unione. Non parliamo poi dei problemi comunitari intesi come governance dell’Unione nel Parlamento appena rinnovato.  

Ripreso da http://www.startmag.it

La sinistra al rovescio: dalla luce di Londra al fumo di Roma

Dal Corriere della Sera

         Al buon Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera sono giustamente piaciuti modi e risultati delle elezioni inglesi che hanno riportato al governo dopo 14 anni i laburisti, senza che nessuno fra i conservatori sonoramente battuti abbia evocato chissà quali catastrofi in arrivo, chissà quali e quanti comunisti travestiti da laburisti già al lavoro, con le rapide procedure d’uso in Gran Bretagna, per fare risorgere tra il fumo di Londra il mitico sole dell’avvenire.

Da Repubblica

         Persino a Repubblica su questa storia del sole dell’avvenire tornato con i laburisti al mitico numero 10 di Downing Street hanno scherzato con Altan che esorta, sotto un ombrello, l’illuso di turno a “non montarci la testa”.  

Dal manifesto

         La sinistra inglese “ha fatto centro” in tutti i sensi, per attenerci al titolo arguto del solito manifesto. Dove la passione orgogliosamente comunista ancora proclamata sotto la testata non impedisce a chi vi scrive di capire che Londra non è Roma. Dove, per rimanere alla giornata di ieri così giustamente festosa per i laburisti sulla Manica, la sinistra italiana si è ritrovata insieme davanti alla Corte di Cassazione, in una foto di gruppo che ha trattenuto a stento attori e comparse dello spettacolo sotto la statua di Cavour, per l’apertura formale della campagna referendaria contro le cosiddette autonomie differenziate delle regioni rimproverate al governo di Gorgia Meloni. Che però le ha solo ereditate, tentando di disciplinarle, dalle sinistre che le misero in Costituzione più di vent’anni fa per corteggiare la Lega di Umberto Bossi e cercare, peraltro inutilmente, di sottrarla alla tentazione di tornare nel centrodestra di Silvio Berlusconi. Da cui il Carroccio era uscito dopo solo nove mesi di corsa, con i tempi di un parto gestito dall’insofferente presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, smanioso di liberarsi di un presidente del Consiglio troppo malvolentieri nominato da lui stesso dopo l’imprevisto successo elettorale del 1994.

La sinistra italiana…in Cassazione

         La sinistra italiana, dopo il suicidio compiuto cavalcando soprattutto contro Bettino Craxi nel 1992 le indagini giudiziarie di Milano e dintorni sul finanziamento illegale ma largamente diffuso della politica, è  purtroppo ridotta a quella foto di ieri sotto la statua di Cavour, e davanti alla Cassazione. Londra, il suo nuovo primo ministro laburista Keir Starmer e tutto il resto continueranno ad essere per essa solo un falso, irrealistico punto di riferimento, troppo moderato. E Giorgia Meloni, nonostante i pezzi che sta perdendo in Europa il suo partito conservatore dopo i guadagni immediatamente successivi alle elezioni dell’8 e 9 giugno, continuerà probabilmente a rimanere dov’è, a Palazzo Chigi, sino all’esaurimento ordinario del suo primo mandato, già elettorale -peraltro- senza ancora disporre formalmente del premierato proposto al Parlamento per le edizioni successive, sue o di altri. Un premierato condiviso a suo tempo dalla sinistra ma ripudiato ora che a proporlo è la destra.

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