L’Italia crocerossina di Parigi e Berlino proposta a Giorgia Meloni

Dal Dubbio

Mi sto ancora stropicciando gli occhi, anche mentre scrivo, per essermi trovato d’accordo sulla conclusione dell’editoriale di ieri del Fatto Quotidiano. Dove -spaziando tra una costa e l’altra dell’Atlantico, dall’orecchio fasciato di Donald Trump, l’ex presidente degli Stati Uniti ormai  lanciato verso la riconquista della Casa Bianca da quel giovanotto che lo ha mancato di qualche millimetro o centimetro, all’orecchio libero di Giorgia Meloni, cui tutti sussurrano consigli su come comportarsi nell’Unione Europea-  Marco Travaglio ha chiesto: “Ma perché un cittadino dovrebbe votare se tutti s’impegnano a convincerlo che, passata la festa, a decidere è sempre quell’invisibile pilota automatico che trasforma ogni voto di cambiamento nella più bieca restaurazione?”.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di ieri

         Magari, per non tradire le sue abitudini il direttore del Fatto ha esagerato nel parlare di “bieca restaurazione”, ma ci ha azzeccato in pieno col “pilota automatico”. Col quale molti vorrebbero che continuasse ad essere governata, gestita e quant’altro, per esempio, la comunità europea che chiamiamo Unione, a prescindere dai risultati delle elezioni che ne hanno rinnovato il mese scorso il Parlamento. Di cui non a caso è stata appena rieletta con più voti di prima la maltese Roberta Metsola. E sta forse per essere confermata alla presidenza della Commissione, salvo clamorose sorprese, la tedesca Ursula von der Leyen. Alla quale -dicono i bene informati- dall’esterno, non facendone parte, la premier italiana non ha ancora deciso, non sa, e si spera che scoprirà in tempo quale voto indicare agli europarlamentari italiani eletti nelle liste da lei capeggiate in ogni parte della Nazione, come lei preferisce definire quello che altri chiamano Paese.

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni

         La conferma della von der Leyen, ormai Ursula familiarmente e più o meno simpaticamente , potrebbe anche essere, per carità, la migliore soluzione possibile. E persino la più conveniente all’Italia per il posto che le sarà alla fine destinato nella Commissione pensando all’attuale ministro Raffaele Fitto o altri. Ma ciò che stona un po’ con la democrazia intesa come quella cosa che alle determinate scadenze fa i conti con gli elettori per essere smentita o confermata, corretta o rovesciata, secondo i casi, è la pretesa di affidarla appunto ad un pilota automatico, come scrive Travaglio. E quello implicito, per esempio, nel lungo articolo in cui sul Corriere della Sera, rivolgendosi a lei anche direttamente, il senatore a vita Mario Monti ha praticamente consigliato alla Meloni di fare la crocerossina non tanto della Francia e della Germania quanto dei loro vertici, per aiutarli a superare le difficoltà in cui si trovano. In Francia addirittura il presidente Emmanuel Macron deve sciogliere il nodo della formazione del nuovo governo dopo avere sciolto anticipatamente l’Assemblea Nazionale per semplificarsi la vita, secondo le intenzioni: almeno quelle attribuitegli pensando ai tre anni ancora che gli rimangono del secondo ed ultimo mandato all’Eliseo.

         Il soccorso di Roma a Parigi e Berlino sarebbe dovuto per un “punto di riferimento” dovuto alle pure “malconce” Francia e Germania e per il rischio dell’Italia, evidentemente anch’esso dovuto, di trovarsi esclusa da due trittici immaginati, vaticinati e non so cos’altro da Monti. Uno, di carattere economico, sarebbe costituito da Francia, Germania e Spagna. L’altro, attinente alla difesa e alla sicurezza, peraltro con guerre non fredde ma calde in corso dentro e sui suoi confini, sarebbe costituito da Francia, Germania e Polonia.

         Con tutto il rispetto personale e istituzionale dovuto a chi ha tanto onorato l’Italia da esserne diventato senatore a vita per nomina presidenziale, un attimo prima di assumere peraltro la guida di un governo tecnico di emergenza, il ragionamento di Monti sembra di quelli adatti più ad allontanare che ad avvicinare i già tanti diffidenti elettori alle urne, facendoli sentire semplicemente inutili. E’ un ragionamento che fra i vari miracoli ha prodotto quello accennato della mia convergenza personale con Travaglio. E degli occhi che continuo a stropicciarmi anche ora che ho smesso di scrivere.

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Consigli non richiesti, e forse neppure graditi, di Mario Monti a Giorgia Meloni

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni d’archivio

         In queste che potrebbero essere veramente le ore decisive per lo sviluppo dei rapporti fra Ursula von der Leyen, sulla strada della conferma alla presidenza della Commissione Europea, e di Giorgia Meloni, che ha avuto con lei rapporti di un’amicizia e simpatie persino ostentate da quanto è a Palazzo Chigi, il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti ha voluto dare consigli alla premier.  Non ha voluto sussurrarli all’orecchio, peraltro sgombero del cerotto cui ha dovuto ricorrere negli Stati Uniti l’ex presidente Donald Trump sopravvissuto a un attentato, ma scriverli in un editoriale sul Corriere della Sera titolato “Un ruolo per l’Italia”.

Mario Monti sul Corriere della Sera

         Quale ruolo? Non di contrasto o resistenza, magari per reazioni a torti di forma e di sostanza subiti anche dai suoi predecessori, compreso lo stesso Monti, ma di soccorso alla Francia e alla Germania in difficoltà. Piuttosto che “esibire la forza” probabilmente avvertita nel fatto di essere quella uscita meglio dalle elezioni europee del mese scorso e di guidare il governo più stabile in Europa, per quanto i due vice presidenti del Consiglio si smentiscano ogni giorno, la Meloni dovrebbe mostrare “comprensione, condivisione nei confronti di chi attraversa un momento difficile, probabilmente passeggero. Formulando proposte aperte sui temi di interesse comune, discutendole anche con chi in passato tendeva antipaticamente a imporre la propria visione”. Vasto programma, direbbe con sarcasmo la buonanima del generale Charles De Gaulle. Ci fa o ci è?, avranno reagito amici e collaboratori della Meloni, se non la Meloni stessa, leggendo l’articolo del senatore a vita.

Ancora Monti sul Corriere della Sera

         Piuttosto che togliersi qualche sassolino dalle scarpe o inseguire solo postazioni importanti nella Commissione di Bruxelles, dopo essere riuscita a portare la sua amica e collega di partito Antonella Sberna su una delle 14 poltrone di vice presidente del Parlamento europeo, la Meloni dovrebbe guardarsi secondo Monti dal pericolo di rimanere fuori dai “due terzetti” che incombono sull’Italia, “obiettivamente deboli -.ha riconosciuto il senatore- ma anche sgradevoli per il nostro Paese. “Accanto a Francia e Germania, che pur malconce, restano punti di riferimento, si formeranno -ha scritto Monti- due trittici: Un trittico economico-monetario (cabina di regia dell’Eurozona), con Germania, Francia e Spagna. E un trittico per la difesa e la sicurezza, con Francia, Germania, Polonia”.

Dall’Unità

         Se non è la previsione, premonizione e quant’altro dell’Unità espressa oggi col titolo “Giorgia in Europa: comunque vada sarà un disastro”, poco ci manca leggendo l’alternativa immaginata da Monti per la Meloni al ruolo di crocerossina per la Francia di Macron e la Germania di Sholz. Come se il 9 e il 10 giugno non si fosse votato in tutta Europa.

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L’effetto Trump è stato avvertito anche a Bagnoli, Italia….

Pur ignorato da quasi tutte le prime pagine dei giornali, occupate ancora dalle notizie sull’attentato all’ex presidente americano, e ricandidato alla Casa Bianca, l’effetto Trump si è avvertito anche nella modesta politica italiana: in quello che qualcuno ha chiamato “il siparietto a Bagnoli”. Dove la premier Giorgia Meloni e il governatore della Campania Vincenzo De Luca hanno fatto pace, o quasi, dopo che lui le aveva dato a distanza della “stronza” e lei glielo aveva rinfacciato al primo incontro pubblico.

Il governatore con la solita disinvoltura ha rivendicato la sua natura “civile” e la premier l’ha salutato credendogli, o mostrando di credergli, con tanto di sorriso e stretta di mano su un palco dove si celebrava un nuovo impegno per il risanamento dell’area di Bagnoli devastata dalla passata produzione dell’acciaio.

Dal Fatto Quotidiano

         L’effetto Trump è quello espresso dal titolo di copertina dedicatogli dal Fatto Quotidiano: “Il piromane pompiere”. Pompiere in entrata, con la solidarietà ricevuta dal presidente uscente Joe Biden, anche lui ancora in corsa per un secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, e in uscita con comizi e iniziative meno incendiarie del solito. Il suo contributo all’esasperazione della lotta politica oltre Atlantico non si può certo ignorare solo perché Trump ha rischiato di rimetterci la pelle, avendo incautamente armato d’odio e di fucile un giovanotto che lo ha mancato di qualche millimetro, ferendolo solo di striscio ad un orecchio e venendo ucciso prima che potesse continuare o riprovare a colpire mortalmente il bersaglio.

Dal Secolo XIX

         In attesa che la moderazione dei toni negli Stati Uniti non si traduca nella vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX, dove il malintenzionato di turno acquista in armeria anche un silenziatore, si spera che in Italia la lezione americana non si fermi al già ricordato “siparietto” di Bagnoli. Dove la Meloni e Vincenzo De Luca -quello vero, autentico, non imitato da Maurizio Crozza- si sono dati la mano e scambiato sorrisi, anche se più largo quello di lei e più stretto quello di lui. Ben oltre Bagnoli, in Italia il problema è di smetterla di rappresentare la democrazia minacciata di giorno e di notte da quella che ben prima di Elly Schlein al Nazareno, Giuseppe Conte a Campo Marzio, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni in Piazza Montecitorio, viene chiamata “la Ducia” da uno come Carlo Rossella. Che pure, messe ormai in archivio le sue passate simpatie per il comunismo e diventato amico e sostenitore di Silvio Berlusconi, aveva mostrato di condividerne anche l’alleanza con la destra.

Berlusconi ferito a Milano nel 2009

         Bisognerebbe finirla di intossicare i rapporti e il dibattito politico col fascismo alle porte, anzi già dentro casa. Fu scambiato a Milano per l’uomo nero pure Silvio Berlusconi, Che si rimise un dente con quella statuetta del Duomo lanciatagli in faccia. E del Berlusconi “divisivo, per quanto morto da più di un anno, ancora si grida oggi perché è stato intestato alla sua memoria l’aeroporto di Malpensa.

Il rimpianto assordante dei processi inutili per abuso d’ufficio

Dal Dubbio

Nonostante i risultati catastrofici previsti – se non auspicati- da chi ha votato contro e dall’associazione nazionale dei magistrati, o suoi vertici, vanno naturalmente tutti verificati gli effetti giudiziari della legge che il ministro della Giustizia Carlo Nordio è appena riuscito a fare approvare definitivamente dalla Camera. Essa abolisce il reato di abuso d’ufficio, limita la diffusione delle intercettazioni in cui cadono anche terzi, rende inappellabili le sentenze sui reati minori, impone – sia pure a scadenza non immediata- decisioni collegiali sugli arresti chiesti dal pubblico ministero durante le indagini e altro ancora.

E’ un anticipo della riforma della Giustizia, in attesa della separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati d’accusa. Che i forzisti hanno intestato  a Silvio Berlusconi, così come Matteo Salvini da ministro delle Infrastrutture, infaticabile nel suo lavoro di spiazzamento di amici e nemici, ha voluto fare con l’aeroporto di Malpensa, non volendo aspettare il ponte sullo stretto di Messina che aveva promesso alla memoria del Cavaliere.

Il campo larghissimo contro il governo in posa davanti alla Cassazione

         In attesa di valutare gli effetti giudiziari, ripeto, si possono vedere gli effetti politici della legge Nordio. Il primo, più vistoso dei quali è l’incenerimento della foto nella quale hanno recentemente posato sotto la statua di Cavour, e davanti alla Cassazione, protagonisti, attori e comparse del campo largo, anzi larghissimo, contro il governo Meloni. Che si voleva quel giorno e si vorrebbe ancora sperimentare in un referendum abrogativo della legge sulle autonomie differenziate delle regioni in qualche modo prenotato presso la suprema Corte. Un referendum però che gli stessi promotori sanno essere minacciato dall’inconveniente ormai consueto dell’affluenza alle urne inferiore alla metà più uno degli elettori aventi diritto al voto, secondo la prescrizione dell’articolo 75 della Costituzione.

          Ma senza aspettare questo referendum, se supererà l’esame preventivo della Corte Costituzionale, la compagnia della foto nota ormai come quella “dalla Bindi alla Boschi”, pur accanto una all’altra davanti all’obbiettivo, si è spaccata sulla legge Nordio. Che è stata votata anche dai parlamentari riconducibili ai terzi Calenda, Della Vedova e Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico. Terzi, poi, per modo di dire perché, a parte la importante e significativa legge Nordio, essi penzolano ormai sempre di più verso il Pd di Elly Schlein. Che al suo esordio, l’anno scorso, aveva indotto Renzi a fare le solite provviste di popcorn.

Si è rivelata insomma una compagnia, quella della foto “dalla Bindi alla Boschi”, pasticciata quanto le altre che l’anno preceduta negli album della sinistra plurale, a cominciare da quella di Vasto del 2011, che includeva un Antonio Di Pietro ancora in politica dopo le sue gesta giudiziarie nella Milano delle “Mani pulite”.

            Con questa storia delle foto la sinistra plurale aperta e chiusa, secondo le circostanze e gli umori, ai terzopolisti di turno, dovrebbe decidersi a farla finita, non foss’altro per scaramanzia. Peraltro con la legge Nordio appena passata definitivamente a Montecitorio alla sinistra plurale è andata meglio o meno peggio di quanto le sarebbe accaduto se non fosse ormai in consolidato ritiro l’ex presidente della Camera Luciano Violante: non certo l’ultimo arrivato della politica e della precedente esperienza giudiziaria.

Luciano Violante al Tempo

Se Violante avesse potuto votare anche lui sulla legge Nordio, non l’avrebbe bocciata, visto quello che, commentandola in una intervista al Tempo, ha detto.  Lui il reato di abuso d’ufficio l’avrebbe abolito o comunque contrastato da tempo, prima ancora di sentirselo chiedere dai sindaci del suo partito. Che poi sono stati ignorati dalla Schein, anzi smentiti. E costretti a leggere sui giornali le proteste dei loro compagni e amici dirigenti del Nazareno contro l’impunità di Stato e altre nequizie attribuite ad una legge che è semplicemente arrivata, come dice Violante, in ritardo dopo avere prodotto migliaia di processi conclusi con la quasi sistematica sconfitta dell’accusa. Rimpiangerli è solo un’assurdità.

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Il curioso giornale quotidiano della Confindustria esonerato dalle notizie

Il Sole 24 Ore di ieri

         Ai margini -marginissimi, se si potesse dire- dell’evento di cui si parla in tutto il mondo, che è naturalmente l’attentato all’ex presidente americano Donald Trump nella corsa per il ritorno alla Casa Bianca, e volendo una volta tanto distrarmi dai politici e dalle loro scontatissime reazioni, anche nei loro aspetti retorici, vorrei augurarmi che gli imprenditori italiani si interrogassero sulla loro curiosa mania di disporre di un giornale quotidiano -ripeto, quotidiano, che arriva ogni mattina nelle edicole fortunatamente sopravvissute finora alla loro crisi- che prescinde dai fatti. Che si ritiene talmente al di sopra di tutto e di tutti -o al di sotto, secondo i punti di vista- da potere uscire senza la notizia del giorno. E ciò non per distrazione, non per infortunio da concorrenza, per quello che giornalisticamente si chiama “un buco”, ma per scelta di vita, per la concezione che si ha, ripeto, di un giornale quotidiano.

Il Sole 24 Ore di oggi

         Ieri, domenica, Il Sole 24 Ore –come si chiama l’organo ufficiale della Confindustria- è uscito senza la notizia dell’attentato a Trump, come altri quotidiani che non hanno potuto -spero- e non voluto “ribattere”, come si dice in gergo tecnico.

         Oggi, lunedì 15 luglio 2024, il quotidiano della Confindustria è tornato ad uscire senza le notizie -questa volta al plurale- sull’attentato a Trump perché “preconfezionato” -altro termine tecnico- per ragioni di risparmio, esonerato dai maggiori costi di un giornale confezionato in un giorno festivo come la domenica.

Il Foglio di oggi

         Anche Il Foglio ha un numero preconfezionato del lunedì. Ma -vivaddio- pur non disponendo dei soldi della Confindustria di fronte ad eventi straordinari trova la forza, o avverte il dovere professionale di uno sforzo di aggiornamento. E così oggi, ricorrendo alla penna -o al computer- del fondatore Giuliano Ferrara, ha potuto avvertire i lettori, come dice un felice titolo in turchese, che “adesso faremo i conti con il pugno e il sangue di Trump”. E li faremo dappertutto: non li faranno solo gli americani. Li faranno anche gli imprenditori italiani che giocano a fare gli editori. Li faremo per 24 ore al giorno, col sole coperto o scoperto, alto o basso, calato o non.

I folli attentati americani vissuti dalla politica italiana

Da Libero

All’epoca dell’assassinio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, il 5 novembre 1963, era in carica in Italia, per gli affari correnti perché dimissionario, il primo dei due governi “balneari” di Giovanni Leone. Che pianse ricordando l’affettuosa accoglienza riservatagli pochi mesi prima a Roma e nella sua Napoli, in visita ufficiale. Pianse come “un bambino”, mi confidò lo stesso Leone perché nella solita accezione familiare che aveva anche dei rapporti politici, considerava quel giovane, promettente presidente americano un amico ormai di famiglia, appunto.

Jhon Kennedy a Roma pochi mesi prima dell’attentato

A poche centinaia di metri dall’ufficio di Palazzo Chigi si svolgevano a Montecitorio le trattative fra democristiani e socialisti per la formazione del primo governo “organico” di centro-sinistra, ancora col trattino, guidato da Aldo Moro. Esse furono interrotte per l’emozione anche politica provocata dalle drammatiche notizie provenienti dagli Stati Uniti. Con Kennedy alla Casa Bianca il percorso del centro-sinistra italiano era stato favorito, per quanto proprio sotto quella presidenza l’anno prima era stato vissuto il momento più pericoloso della guerra fredda con la cosiddetta crisi di Cuba, dove i sovietici volevano puntare i loro missili contro gli Stati Uniti dirimpettai.

All’epoca del ferimento del presidente americano allora in carica Ronald Reagan, il 30 marzo 1981, era in carica in Italia il governo di Arnaldo Forlani, inconsapevolmente prossimo alle dimissioni per l’affaraccio P2: la loggia massonica di Licio Gelli nelle cui liste -diffuse a singhiozzo dai magistrati attraverso giornali fino a quando lo stesso Forlani non decise di farle pubblicare per intero- era finito anche il prefetto Mario Semprini, suo capo di Gabinetto.

Ronald Reagan ferito nel 1981

Forlani non aveva fatto in tempo a instaurare con Reagan, insediatosi alla Casa Bianca pochi mesi prima, un rapporto diretto e personale che avrebbero avuto invece i suoi successori Giovanni Spadolini e Bettino Craxi: sopravvissuti, quelli di Craxi,anche alla drammatica notte di Sigonella. Che li aveva portati quasi alla rottura per un equivoco -raccontò poi lo stesso Reagan- creatosi con la traduzione dell’italiano del presidente del Consiglio fatta, durante una tempestosa telefonata, dal consigliere Michael Arthur Ledeen. Che peraltro, lavorando all’ambasciata americana a Roma, aveva frequentato ogni tanto la redazione romana del Giornale fra il 1975 e il 1976 per farsi “spiegare” da noi -diceva lui con falsa modestia- gli aspetti più controversi o meno chiari dei rapporti fra democristiani e comunisti, in particolare fra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.

Forlani, dicevo, non aveva fatto in tempo a stringere rapporti molto stretti con Reagan, ma ne aveva buone informazioni. Fu lui a raccontare al telefono a Indro Montanelli, me presente, pochi giorni dopo l’operazione subìta da Reagan dopo l’attentato del 30 marzo 1981, in cui un proiettile gli aveva perforato un polmone e si era fermato a 25 millimetri dal cuore, la battuta del presidente ai medici che molto tempo dopo sarebbe uscita anche sui giornali: “Spero che siate repubblicani”, cioè elettori del suo partito. Una battuta che rese Reagan a Montanelli ancora più simpatico di quanto già non fosse come attore e come anticomunista.

Donald Trump, l’ex presidente americano in corsa per tornare alla Casa Bianca dopo l’uscente Joe Biden, è stato molto più fortunato di Reagan, che rischiò davvero la vita, ferito peraltro da un pazzo che aveva cercato di ucciderlo con sette colpi di pistola per farsi notare da un’attrice -Jodi Foster- della quale s’era invaghito. Roba appunto da pazzi, che gli procurò il manicomio sino al 2016, dodici anni dopo la morte di Reagan nel suo letto, come si dice nei casi di fine naturale.

Trump e Salvini d’archivio

Con quel sangue procuratogli di striscio da un proiettile del fortunatamente mancato assassino, eliminato all’istante, Trump non ha fatto tremare più di tanto i tifosi di cui dispone anche in Italia. E che possono contare -va riconosciuto pure questo- anche su parecchi avversari dell’ex presidente che o lo combattono con troppa esasperazione o aumentano le difficoltà del presidente uscente contribuendo, ancor più delle gaffe che commette di suo, ad una rappresentazione altamente negativa sollecitandone il ritiro dalla corsa, Un caso raro, direi, di autolesionismo. Di cui solo gli americani sono forse capaci con la mania, l’abitudine e quant’altro di fare le cose alla grande. come si dice.

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Tutti sembrano lavorare per Trump nella corsa alla Casa Bianca, anche gli avversari

         Appena scampato ad un attentato che è costato la vita, grazie a Dio, solo al mancato assassino, Donald Trump si può considerare paradossalmente un candidato particolarmente fortunato alla Casa Bianca, dove è già stato per un altro mandato. Giocano a suo favore anche gli avversari per l’esasperazione -persino suicida, come si è visto- con la quale lo combattono: superiore a quella sua nel riproporsi e nel sostenere, più generalmente, le sue cause ostentando pure fisicamente la propria spavalderia.

George Clooney e Joe Biden

         E’ stato fortunato, Donald Trump, a incrociare nella sua seconda corsa alla Bianca un presidente non tanto anziano -con i suoi 82 anni ancora da compiere, quasi quanti ne aveva il nostro vitalissimo Sandro Pertini salendo al Quirinale nel 1978- quanto costretto dalla sorte a non portarseli tanto bene, visti i difetti di concentrazione, a dir poco, che mostra anche in pubblico. E, in più, indebolito pure da amici, almeno a parole, che dall’interno del proprio partito o elettorato, o tra i finanziatori, che lo esortano a rinunciare non potendo vincere -ha detto l’attore George Clooney, forse dopo essersi consultato con l’ex presidente Barak Obama- anche “la battaglia contro il tempo”.

         Se questa fortuna porterà, anzi riporterà Trump alla Casa Bianca lo sapremo naturalmente solo a novembre, anche se con effetto differito perché negli Stati Uniti l’insediamento segue di qualche mese la designazione degli  elettori. E quali effetti, incendiari o pompieristici, a seconda dei casi, sulle guerre in corso oltre Atlantico si vedrà anche questo. Guerre purtroppo non solo fredde, come quella che è stata ottimisticamente definita fra la Russia e l’Occidente con l’invasione dell’Ucraina cominciata due anni e mezzo fa, ma anche calde, anzi roventi come nel Medio Oriente.

Dalla Stampa

         A quella fra la Russia e l’Occidente partecipa, pur dichiarando il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani di non sentirsi “in guerra” contro Mosca, anche il governo italiano con una forza di decisioni, e di forniture militari a Kiev, molto apprezzata dall’amministrazione uscente degli Stati Uniti. Ma l’altro vice presidente, il leader leghista Matteo Salvini, notoriamente non è d’accordo, almeno a parole, visto che sinora i suoi parlamentari hanno votato disciplinatamente in tutti i passaggi parlamentari. Parole non sfuggite tuttavia alla presidente del Consiglio – che ha appena invitato …. a sua insaputa “Mattè” in una vignetta sulla Stampa a togliersi dalla testa quel colbacco di confezione forse russa con i 40 gradi che i termometri misurano in tanta parta d’Italia- e al ministro della Difesa Guido Crosetto.

Dal Corriere della Sera

         Quest’ultimo, reduce con la sua amica e collega di partito Meloni dal vertice non solo celebrativo della Nato nel 75.mo anniversario della fondazione, ha definito riduttivamente quella del collega di governo Salvini una “opposizione mediatica” ai nostri impegni, intimandole tuttavia un “basta”, anch’esso però mediatico.

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Meloni tra l’incudine dell’opposizione e il martello di Salvini

Dal Foglio

Sono tutti di marca interna i “guai e agguati” su cui ha titolato oggi Il Foglio riferendo dei problemi di Giorgia Meloni al ritorno dal vertice della Nato, dagli impegni che vi ha assunto e dagli incontri bilaterali che ha avuto, compreso naturalmente quello con l’ospite Zelensky. Che è ormai “irreversibilmente”     avviato verso l’adesione, pure lui, all’Alleanza Atlantica: un percorso che ormai fa parte della strategia, non più tattica, di protezione dell’Ucraina dalla sempre più feroce aggressione della Russia di Putin.

Dal Corriere della Sera

         Sono “guai e agguati” – ripeto- tutti italiani. E non tanto delle scontate opposizioni di lunga tradizione antiamericana avvolte nella solita coperta del pacifismo a senso unico, quanto di una parte della maggioranza e dello stesso governo chiamata Lega. Quella del vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Che da una parte liscia il pelo agli alleati forzisti intestando alla buonanima di Silvio Berlusconi l’aeroporto di Malpensa e dall’altra li aggira, li contraddice, li provoca sul terreno delicatissimo della politica estera e di quella europea inseguendo l’ungherese Orban. Una provocazione che tuttavia investe istituzionalmente e mediaticamente, ancor più dei forzisti, la presidente del Consiglio in persona e leader di una destra dichiaratamente conservatrice, non fascista come l’avvertono gli avversari.

Dal manifesto

         I giornali, una volta tanto, non si sono inventati nulla titolando sullo “scontro nel governo”, come ha fatto il Corriere della Sera, o sullo “scontro su Kiev”, come ha fatto La Stampa, o sulla “crisi di identitari”, come ha fatto il manifesto su una foto d’archivio che ritrae insieme Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

Pier Luigi Bersani

         In questo quadro a dir poco imbarazzante per un governo il cui tratto di riconoscimento essenziale è proprio la politica estera, in continuità con quella del precedente pur avversato in Parlamento -ma non su questo versante- e guidato da Mario Draghi; in questo quadro, dicevo, a dir poco imbarazzante c’è chi fa finta di nulla, ignora, minimizza. Sono i giornali di sostegno abituale al governo. Che, un po’ come gli struzzi, infilano la testa nella sabbia. Ma prima o dopo di questo problema dovranno occuparsi pure loro: si spera -sempre per loro- prima di dovere riferire di qualche festa a casa di Pier Luigi Bersani, o dintorni, per l’esplosione di una crisi provocata -come ogni tanto preconizza fra una battuta e un sorriso l’ex segretario del Pd nei salotti televisivi sempre generosi con lui- da Salvini e dalla sua Lega. Che non si rendono conto di stare pericolosamente giocando con i capelli della bambola, per usare un’immagine diffusa nel linguaggio politico proprio da Bersani. La bambola di Palazzo Chigi.

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Tutte le rivincite di Silvio Berlusconi a più di un anno dalla morte

Dalla Stampa

         Le cronache politiche ogni tanto fanno ringiovanire chi le segue, e persino chi le alimenta. E’ il caso delle polemiche sull’intestazione dell’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi, che su certi giornali hanno sovrastato -e di parecchio- anche le notizie sul vertice non solo celebrativo della Nato nel suo 75.mo compleanno, sulle reazioni cinesi, sulla guerra in Ucraina, su quella in Medio Oriente, su quella meno cruenta a Bruxelles sugli assetti di vertice dell’Unione Europea, sul presidente francese alle prese con i risultati delle elezioni anticipate da lui volute e su altro ancora. Fra cui un’altra rivincita attribuita a Berlusconi con l’approvazione definitiva, alla Camera, di una legge sulla giustizia che sicuramente gli avrebbe fatto piacere, non foss’altro per le proteste dell’associazione nazionale dei magistrati.

Il Famedio a Milano

         Berlusconi è morto da più di un anno ma continua a vivere nel rimpianto degli amici e nel livore degli avversari, che non gli perdonano neppure i successi che involontariamente si procura anche nel loculo che ne custodisce le ceneri nella villa di Arcore. Dai funerali di Stato onorati anche dalla presenza del presidente della Repubblica al nome scolpito nel Famedio del Cimitero monumentale di Milano, alla intestazione appunto dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, alle leggi che ogni volta qualcuno dedica alla sua memoria fra Camera e Senato, dove manca solo che il seggio da lui occupato in vita venga monumentalizzato come è stato fatto alla Camera per quello di Giacomo Matteotti nel centenario del suo ultimo discorso antifascista e dell’assassinio che ne seguì: Silvio Berlusconi continua ad essere in qualche modo fra noi.

Da Libero

         Libero oggi nel titolo di copertina fa dare a Berlusconi “buon volo” ai comunisti che, volenti o nolenti, partiranno da Malpensa. Dove “la sinistra” è finita “fuori pista”, sempre nella rappresentazione del giornale diretto da Mario Sechi.

Dalla Notizia

         I familiari dello scomparso fondatore di Forza Italia, che gli sta sopravvivendo con una certa fortuna non prevista neppure da tutti i suoi dirigenti o eredi, hanno equiparato Malpensa a lui intestata all’aeroporto di Parigi dedicato al generale Charles De Gaulle, risparmiandosi di scendere a Roma per risalire con Berlusconi a Leonardo da Vinci. Al contrario, il giornale dichiaratamente grillino La Notizia, che si spinge dove non osa neppure il più noto e certamente diffuso Fatto Quotidiano, ha collegato Malpensa a Palermo, dove l’aeroporto è intestato a Giovanni Falcone e Piero Borsellino, per scrivere, testualmente nell’editoriale: Da Milano Malpensa a Palermo si percorrerà quindi la distanza siderale che c’è tra chi ha sacriificato la vita per combattere la mafia e chi l’ha pagata per migliorare la propria”. Bum, come un missile di carta lanciato contro una tomba. 

Dal Dubbio

         Mi sembra appropriato il titolo col quale Il Dubbio lamenta “la macabra danza politica sulle spoglie del Cavaliere…”.

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Eppure ci fu un tempo in cui tutti ci sentimmo orgogliosamente ungheresi…

John Kennedy a Berlino nel 1963

  Avevo 18 anni nel 1956, quando gli ungheresi si rivoltarono all’Unione Sovietica, nella cui sfera erano caduti con gli accordi Yalta. E persero la loro partita sotto gli occhi di un Occidente rassegnato. Mi sentii con tanti miei coetanei un ungherese, ben prima che un mitico presidente americano come Jhon Fitzgerald Kennedy ci facesse sentire orgogliosamente tutti berlinesi parlando davanti al muro che ancora divideva quella città e, più in generale, il mondo tra Ovest ed Est. Era il 26 giugno 1963. Dopo sei mesi egli sarebbe stato ucciso a Dallas, nel suo Paese

Budapest nel 1956

A 18 anni mi dividevo fra la lettura del Corriere della Sera e del settimanale longanesiano Il Borghese, che avevano praticamente in comune l’inviato in Ungheria Indro Montanelli. E non esitai a riconoscermi più in Longanesi che in Montanelli quando fra i due scoppiò una furiosa polemica sulla classificazione degli insorti a Budapest: se comunisti autentici e buoni contro quelli cattivi, come sosteneva Montanelli, o per niente comunisti  contro il comunismo, come sosteneva Longanesi.

L’ospedale pedriatico di Kiev abbattuto dai russi

Chi l’avrebbe detto che nell’estate di 68 anni dopo avrei dovuto leggere le cronache politiche di una Ungheria che, a comunismo finito, crollato col muro di Berlino nel 1989, condotta da Viktor  Urban, presidente di turno dell’Unione Europea, è nelle disgrazie dell’Occidente e nelle grazie di Mosca. Dove comanda dal Cremlino non Giuseppe Stalin, morto nel 1953, non Leonid Breznev, morto nel 1982 quando era già una mummia travestita da vivo, ma Vladymir Putin. Che, già comunista pure lui, cresciuto nei servizi segreti dell’Urss, è forse peggiore degli altri due per ottusità e caparbietà nella volontà di imporre non più un’ideologia, o soprattutto quella, ma solo la forza militare del suo paese, anzi del suo regime. Rosso di sangue e di vergogna dopo due anni e mezzo di guerra all’Ucraina bombardando anche un ospedale pediatrico. Che cosa -al di là dei suoi edifici non rasi al suolo o danneggiati dai sovietici nell’occupazione territoriale più stringente seguita alla rivolta- dell’Ungheria di quel lontano, lontanissimo 1956 è difficile dire. Rimangono solo i mei ricordi giovanili. E il desolante incedere nei vertici e incontri internazionali di un presidente ungherese che nel 1956 non era neppure ancora nato. Nacque sei anni dopo, nell’Ungheria ormai ben normalizzata nella logica di Mosca, ieri come a tratti sembra ancora oggi, a dispetto della Nato che, a 75 anni appena compiuti, annovera dal 1997 quel paese fra gli aderenti. Se tutto questo vi sembra normale…

Ripreso da http://www.startmag.it il 14 luglio

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