Se partono persino da Bruxelles soccorsi ai sovranisti d’Italia

Dal Dubbio

     Sconfitti nelle elezioni europee di giugno, come sostengono i loro avversari, o soltanto contenuti, come ritengono i critici più avveduti, per niente convinti di avere davvero vinto la partita, o violentati dalla pervicace volontà di Parigi e di Berlino di imporsi a tutti gli altri soci, vecchi e nuovi, dell’Unione continentale formalizzata con i trattati di Maastricht del 1992, i sovranisti hanno buone ragioni di sperare in una ripresa.

Lavorano a loro favore ogni giorno, e ogni notte, proprio quelli che dovrebbero combatterli migliorando l’Unione. Cioè gestendola o addirittura governandola, prima ancora che cambiandone le regole, in modo da far crescere la fiducia in essa. Così dovrebbero fare i componenti della Commissione di Bruxelles a capo della quale è stata confermata, all’insegna della continuità, la tedesca Ursula von der Leyen. Che per selezionare meglio i suoi nuovi commissari si è presa una bella vacanza, durante la quale potrà avere consultazioni a distanza più discrete, più al riparo dalle luci che di solito disturbano, più di aiutare.

        Ma prima di andarsene in ferie la presidente deve avere abbassato troppo la guardia perché è uscito dagli uffici suoi o limitrofi un dossier che sembra studiato e confezionato apposta per alimentare, almeno in Italia, il sovranismo. Un dossier sullo stato delle delle libertà che rende il nostro Paese per niente invidiabile. Dove il governo Meloni ha messo in cantiere un pacco di riforme, qualcuna persino già approvata da un Parlamento evidentemente incauto come una legge intestata al guardasigilli Carlo Nordio, che è finalizzato o comunque destinato a sovvertire la democrazia. Vi è compreso naturalmente il cosiddetto premierato, cioè il progetto dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, peraltro in un Paese dove già vengono eletti direttamente i sindaci e i presidenti delle regioni.

       Confezionato anche con notizie di prima mano, diciamo cosi, fornite da “ispettori” mandati da Bruxelles a Roma e dintorni, il dossier anticipato con uso abbondante di virgolette, e indicazioni precise di pagine, paragrafi e quant’altro, dalla corazzata della flotta di carta delle opposizioni al governo che è la Repubblica; confezionato, dicevo, anche con notizie di prima mano di ispettori, il dossier sembra una raccolta più o meno minuziosa di tutte le proteste -dottrinarie, politiche e simili- delle categorie che si sentono minacciate dalle riforme, a cominciare dai magistrati, e dei partiti aspiranti al campo più o meno largo dell’alternativa. Anzi larghissimo, visto che vi si è appena prenotato anche Matteo Renzi dopo la benefica “partita del cuore” giocata all’Aquila con la segretaria del Pd Elly Schlein, con tanto di abbraccio a beneficio dei fotografi.

          A leggerlo nelle ampie anticipazioni fornite da Repubblica, il dossier di Bruxelles non mi sembra francamente il massimo che si possa o debba aspettare da una Commissione neutra quale dovrebbe essere considerata quella dell’Unione Europea. In cui tutti i paesi dovrebbero essere e sentirsi rappresentati davvero, nelle loro maggioranze e non solo nelle loro opposizioni.

         Il dossier sull’Italia degradata all’Ungheria di Viktor Urban contesta, fra l’altro, il progetto del premierato sposando le preoccupazioni delle opposizioni italiane anche per il vulnus che subirebbe la figura istituzionale del presidente della Repubblica. Che lo stesso dossier però umilia di fatto ignorando che fra le sue prerogative di alta garanzia c’è quella, diligentemente applicata da Sergio Mattarella, di autorizzare la presentazione dei disegni di legge del governo alle Camere e di rinviare al Parlamento leggi che dovesse ritenere in contrasto con i principi costituzionali. A meno che con il suo dossier la Commissione uscente dell’Unione non consideri, sotto sotto, anche la Costituzione italiana una mezza burla: altro che la più bella del mondo vantata dalle stesse opposizioni.

         Comunque si veda e si giri, questo dossier appare più una frittata che altro. Un soccorso, ripeto, ai sovranisti diffidenti o contrari all’Unione, per giunta all’inizio di una nuova legislatura dell’Europarlamento. Che mi sembra francamente cominciata come peggio non si poteva, come sostengono appunto i sovranisti.

Pubblicato sul Dubbio

L’Italia trattata dalla Commissione europea peggio delle vele di Scampia

Dalla Repubblica

         Nossignori. La notizia di giornata non è la tragedia di Scampia, a Napoli, dove le vele di cemento abitate nel degrado non potendo sgonfiarsi senza vento crollano, con morti e feriti. Giustamente, dal suo punto di vista, o di rotta, trattandosi della nave ammiraglia della flotta pur di carta sempre in navigazione contro il governo dell’odiata, anzi odiatissima Giorgia Meloni, è la “bocciatura” dell’Italia da parte dell’Unione Europea, con cui la Repubblica ha aperto l’edizione di oggi. La bocciatura con “un dossier” che la presidente allora uscente aveva tenuto nascosto nella corsa alla conferma per guadagnarsi il voto di conferma che invece quell’ingrata della Meloni le ha fatto negare dagli europarlamentari del suo partito.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio

         Dal dossier finito in esclusiva nella redazione di Repubblica risulterebbe “l’allarme della Commissione” ancora in carica per gli affari correnti – in attesa che si insedi la nuova alla quale sta lavorando la presidente  fra una pausa e l’altra delle sue ferie- “per le riforme del governo” già approvate o in corso d’opera parlamentare. “Le preoccupazioni maggiori”, assicurano le indiscrezioni nella versione del giornale italiano, sono “per il premierato, le limitazioni alla stampa e la cancellazione delle norme anticorruzione”. Ma poi si fa capire, fra i dettagli, che anche il destino dei magistrati in Italia è ritenuto in pericolo per i progetti di un ex pubblico ministero che la Meloni ha messo alla testa del Ministero della Giustizia dopo avere tentato di farlo salire addirittura al Quirinale, nell’ultima edizione della corsa al Colle conclusasi con la conferma di Sergio Mattarella.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella

         La notizia sottintesa, sottaciuta e quant’altro dallo scoop della Repubblica di carta è un’altra ancora, che vi do io anche a costo di finire non so in quale parte dell’Inferno dantesco come il sovranista di turno. La notizia è quella dell’Italia che continua a fare parte di una Unione Europea nella cui Commissione, con la maiuscola immeritata, può essere maturato, nato e poi nascosto per qualche tempo per comodità, interesse e quant’altro della sua presidente, pur teutonica come Ursula von der Leyen, un dossier così scandaloso e sfacciatamente falso. Che, fra i vari torti, commette quello di rappresentare o presupporre come un fellone, traditore, indifferente e non so cos’altro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che autorizza la presentazione dei progetti del governo alle Camere e poi ne sottoscrive le leggi per la promulgazione senza rinviarle al Parlamento o dimettersi.  

Dal Foglio

         Qui -scusatemi la franchezza- non siamo di fronte all’”Italia da zeru titoli”, in rosso, pessimisticamente descritta oggi sul Foglio per spiegare le ragioni delle troppo poche o troppo modeste postazioni che sta rimediando nel Parlamento europeo appena rinnovato, e nel resto. Siamo piuttosto di fronte ad una Unione “da zeru titoli”, sempre in rosso, per potere trattare l’Italia come l’Ungheria di Orban.

Ripreso da http://www.statmag.it         

Le amarezze… di carta della Meloni leggendo il Corriere della Sera e il Foglio

Dal Corriere della Sera

         Fra la vignetta di giornata che la pettina alla maniera di Donald Trump, pur lasciandole per fortuna l’orecchio libero dalla benda dell’ex presidente americano scampato alla morte nella corsa alla Casa Bianca, e un commento di Antonio Polito alle “spine della premier” e alle “sorti del governo” che “non sembrano più così magnifiche” come prima delle elezioni europee del mese scorso, il Corriere della Sera non dev’essere oggi molto piaciuto a Giorgia Meloni. Che pure qualche giorno gli aveva affidato un’intervista rassicurante, a dir poco, pur dopo aver fatto contrare i suoi contro Ursula von der Leyen al Parlamento europeo.

Dal Giornale

         L’aria che tira ormai nella maggioranza e nello stesso governo, con i due vice presidenti del Consiglio che se le dicono e se le danno metaforicamente di tutti i colori, ha spinto persino il direttore del sempre per ben disposto Giornale che fu di Indro Montanelli a pubblicare un editoriale del direttore Alessandro Sallusti da questo titolo tanto interrogativo quanto preoccupato: “Tutto uguale, perché litigare?”. Manca solo il riferimento alla favola dello scorpione che punge la rana e affoga con lei nel fiume che sta attraversando perché questa “è la sua natura”. Lo scorpione in questo caso è naturalmente più l’agguerrito Salvini che il sedentario Tajani, per quanto in ansia pure lui per le prestazioni che si aspettano da lui alla testa di Forza Italia i figli dello scomparso fondatore Silvio Berlusconi. Le cui ceneri si staranno rivoltando anche verso la Meloni per le simpatie o debolezze putiniane viste e denunciate non solo dal vignettista del Corriere della Sera.

Claudio Cerasa sul Foglio

         Leggete qui con me che cosa ha appena scritto il direttore Claudio Cerasa, a questo proposito, sul Foglio fondato a suo tempo da Giuliano Ferrara, reduce dall’esperienza di ministro nel primo governo Berlusconi, con l’aiuto della famiglia di Arcore: “Bisognerebbe sapere quello che Marina Berlusconi dice in privato ai suoi interlocutori sul populismo trumpiano  per capire perché oggi chiunque tenti di tracciare un parallelismo tra Silvio Berlusconi e Donald Trump non sta facendo altro che avallare, legittimare e alimentare un’impostura politica”. “Donald Trump -ha scritto ancora Cerasa del presunto, falso Berlusconi americano- incarna la paura, l’isolazionismo, il nazionalismo, l’estremismo, il radicalismo, il complottismo e il protezionismo, mentre il fondatore del centrodestra italiano ha incarnato tutto l’opposto”.

Dal Foglio

         Anche nelle piccole cose, chiamiamole così, della cronaca politica quotidiana Il Foglio è andato pesante contestando la rappresentazione appena fatta, anzi vantata dalla premier della realizzazione del piano italiano di ripresa e resilienza finanziato dall’Unione Europea. Che procede come “una lumaca”, non come un frecciarossa. “Meloni e Fitto -hanno titolato i foglianti- sbandierano risultati poco lusinghieri. Si spende poco e il confronto con Draghi è impietoso”.

Matteo Renzi, detto Rieccolo -alla Montanelli- ma anche Pendolo

Dal Dubbio

Morto il 22 luglio 2001 all’età di 92 anni, quando Matteo Renzi ne aveva 26 e lavorava col papà nella distribuzione dei giornali, non nella loro confezione, il toscanaccio Indro Montanelli non fece in tempo -né poteva ragionevolmente pretenderlo- a vedere le ascese e le discese del suo giovane corregionale. Che nel 2004, post-democristiano,  sarebbe diventato presidente della provincia di Firenze, nel 2009 sindaco della stessa Firenze, nel 2013 segretario del Pd post-comunista e post-democristiano, nel 2014 anche presidente del Consiglio, nel 2017 sarebbe rimasto solo segretario del partito del Nazareno per avere perduto il referendum su una riforma costituzionale imprudentemente trasformata in una santababara, nel 2018 ne sarebbe rimasto solo senatore, nel 2019 pur di ridiventare capo di un partito ne avrebbe creato uno tutto suo chiamandolo Italia Viva, partecipe della  maggioranza del secondo governo di Giuseppe Conte per uscirne nel 2021 spingendo Mario Draghi a Palazzo Chigi. E nel 2022 avrebbe improvvisato con Carlo Calenda un terzo polo equidistante fra il centrodestra e una sinistra, centrosinistra, o come altro si volesse e si voglia tuttora chiamarla, aspirante alla costruzione dell’alternativa al governo in arrivo di destra-centro di Giorgia Meloni.

Il resto non sto qui a ricordarlo minutamente perché è cronaca dei nostri giorni, o delle nostre ore, con Renzi che gioca a pallone con la segretaria del suo ex Pd Elly Schlein, le allunga una palla per uno sfortunato gol fuori gioco, cioè inutile, e contribuisce a crearci sopra, fra interviste e dichiarazioni, un nuovo scenario politico, almeno per sé. Quello di un campo addirittura larghissimo contro la Meloni, del cui governo tuttavia i suoi parlamentari approvano leggi importanti, significative e quant’altro come quella che porta il nome del ministro della Giustizia Carlo Nordio.  Che elimina il reato di abuso d’ufficio, limita la diffusione delle intercettazioni riguardanti persone non direttamente coinvolte nel relativo procedimento penale, circoscrive l’appellabilità delle sentenze di primo grado e stringe le maglie del ricorso alla carcerazione durante le indagini: tutte cose orribili per una certa cultura e politica giustizialista che prevale nel campo dove l’ultimo Renzi -o il penultimo, conoscendone ormai la mobilità- vorrebbe o sarebbe tentato, diciamo così, di entrare dopo essersene tenuto alla larga.

Per tornare al compianto Montanelli e al suo mancato appuntamento con la carriera di questo suo corregionale che da ragazzo lo avrà probabilmente letto sul Giornale e sul Corriere della Sera, dove il grande scrittore fece in tempo a rientrare prima di morire, mi chiedo in questi giorni -avendolo conosciuto e praticato nel lavoro- come avrebbe reagito vedendo applicato appunto a Renzi, come da tempo si fa, il famoso “Rieccolo” da lui assegnato come soprannome ad Amintore Fanfani. Un altro toscano, o toscanaccio, abituato a cadere e a rialzarsi, a salire e a scendere, a scommettere per vincere o perdere in una sostanziale, quasi stoica indifferenza.

Temo -avendo, ripeto, anche lavorato insieme- che Montanelli avrebbe quanto meno storto il muso, come solo lui sapeva fare quando gli dicevi una cosa che non lo convinceva, o comunque egli vedeva qualcosa che non gli andava a genio. In quel “Rieccolo”, con la maiuscola come spetta ad ogni cognome che si rispetti, Montanelli ci vedeva qualcosa di toscanamente elogiativo. Non a caso Fanfani gli fu grato di quel soprannome e lo aiutò nel 1974, quando era segretario della Dc, ad allestire il suo Giornale dopo il licenziamento dal Corriere della Sera e una breve ospitalità concessagli da Gianni Agnelli sulla Stampa. In Renzi forse, anche per la  troppo giovane età rispetto alla sua, Montanelli avrebbe visto più un  modesto “Pendolo” che un valoroso “Rieccolo”. Ma posso sbagliare, per carità, e chiedere scusa a entrambi: al morto e al vivo. Anche se assai inutilmente al morto, e forse neppure utile al vivo, che me ne vorrà ugualmente. Io sono del resto lontanamente un pugliese, non un toscano, né intero come Renzi si ritiene con quel fisico, fuori e dentro un campo di calcio, che lo premia in tutte le foto o le riprese televisive, di ogni tipo ed emisfero, né “mezzo” come con perfidia si diceva di Fanfani mettendolo in croce per qualche centimetro in più negatogli dalla sorte. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 27 luglio

Biden rinuncia e Meloni si scuote a più di 7200 chilometri di distanza

Dal Corriere della Sera

A distanza di 7211 chilometri, quanti dividono Washington da Roma, il presidente Joe Biden getta finalmente la spugna annunciando la rinuncia al tentativo di una conferma alla Casa Bianca, cercando di spianare la strada alla sua vice di colore Kamala Harris, e la premier Giorgia Meloni rinuncia al ruolo passivo svolto sinora di fronte ai due vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine rigorosamente alfabetico, che se le dicono e se le danno di tutti i colori. L’uno è fiero del no che si vanta di avere sostanzialmente strappato alla Meloni alla conferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, l’altro è fiero di capeggiare il partito della maggioranza che invece al Parlamento europeo ha votato per il bis. L’uno è fiero della sua contrapposizione alle sinistre e l’altro    della incidenza nello schieramento che è prevalso a Strasburgo, contrapposto alla “irrilevanza” dei suoi alleati in Italia. Una cosa che al solo raccontarla lascia basiti alla luce soprattutto del silenzio a lungo opposto a entrambi dalla premier.

Dalla Repubblica

         Ora, pur basandosi solo su voci o, al massimo, su una dichiarazione del capogruppo meloniano al Senato Antonio Fraschella, Corriere della Sera e Repubblica hanno annunciato, rispettivamente, un “basta alle liti” e “una minaccia di verifica del governo”. Che era una vecchia pratica della cosiddetta prima Repubblica, spesso preludio più ad una crisi che ad un chiarimento, o ad un chiarimento solo temporaneo, in attesa di un nuovo caso su cui aprire un’altra verifica ancora.  

Dalla Stampa

         Sulla Stampa la premier si è guadagnata -a torto o a ragione poco importa perché si sa che in politica ciò che conta è ciò che appare più di ciò che è- l’immagine di una leader “imprigionata tra Tajani e Salvini”, in ordine stavolta non alfabetico. Eppure solo qualche settimana fa, in un’aula parlamentare, esattamente a Montecitorio, dopo che era riuscita a strappare gli applausi di tutta l’assemblea alla denuncia dello “schifoso” trattamento riservato ad un lavoratore indiano sfruttato, e morto, nelle campagne italiane, la Meloni aveva strapazzato i due vice che si ostinavano a rimanere seduti indifferenti accanto a lei, “Regà, levatevi in piedi”, aveva detto a entrambi abbastanza ad alta voce per essere sentita da tutti.

Dal Foglio

            Qui, per stare al linguaggio della premier sulla “stabilità” del suo governo. o alla capacità assicurata a voce ogni volta che può dal vice Salvini che esso durerà  comunque sino al 2027, esaurimento ordinario della legislatura,  il problema non è di vedere se il percorso sarà davvero compiuto. Il problema è di vedere come il governo arriverà al suo epilogo. E vi arriveranno i suoi avversari per ora messi peggio della Meloni. Un problema, francamente non da poco, espresso dal Foglio in un titolo che lamenta “ipocrisie e doppiezze della politica italiana” e “il piede della Meloni in due staffe”.

Un governo balneare a sua insaputa tra liti, duelli, scintille dei due vice presidenti del Consiglio

Dal Corriere della Sera

Chiamatelo “duello”, come titola il Corriere della Sera sui due vice presidenti del Consiglio, Matteo Salvini e Antonio Tajani, che si rinfacciano i si e i no dei loro eurodeputati alla conferma della presidente della Commissione Ursula von der Leyen; chiamatela “lite”, come il Giornale e il Secolo XIX; chiamatele “scintille” o “sportellate” come Libero, rispettivamente, nel titolo e nell’editoriale del direttore. Aggiungete pure gli aggettivi “provinciali, sbagliate e incomprensibili” applicati dal ministro della Difesa Guido Crosetto sulla Stampa alle polemiche nelle quali si stanno misurando da giorni i due vice della Meloni alla guida del governo.  Uno dei quali tuttavia -Salvini- è meno lontano dell’altro dalla presidente del Consiglio nella valutazione della conferma della presidente della Commissione europea, messasi nel frattempo in ferie per trattarne meglio dietro le quinte la composizione. Ma il quadro della maggioranza italiana di governo che esce dalle cronache politiche non è per niente “stabile” come vanta la premier rivendicando proprio per questa stabilità -unica, secondo lei, in tutta Europa dopo le elezioni di giugno- una presenza qualificata dell’Italia nell’organo formalmente esecutivo dell’Unione.

Dal Giornale

Il quadro sembra piuttosto di una stabilità “balneare”, come nella cosiddetta e lontana prima Repubblica si diceva del governo transitorio di turno che si formava in attesa che i partiti trovassero intese più precise, solide e durature almeno nelle intenzioni. Che ogni tanto, peraltro, venivano disattese perché annaspavano anche i governi che nascevano senza l’influenza del “generale Agosto”, di supporto al presidente della Repubblica.

Da Libero

Il fatto che alla maggioranza di governo in queste condizioni “non buone”, come dice il Papa parlando più in generale della democrazia nel mondo, corrisponda uno schieramento di opposizione ugualmente diviso nei contenuti e persino nelle forme di un’alternativa, potrà essere di consolazione per la Meloni nelle interviste che rilascia, preferendole alle conferenze stampa, ma non di risoluzione o di uscita dalle difficoltà.

Può essere consolatorio ma non risolutivo anche il fatto che se Roma piange, per esempio, Parigi non ride, essendo il governo francese dimissionario e non sapendo il presidente della Repubblica Emmanuel Macron, pur forte della sua elezione diretta, come uscire dalla precarietà nella quale si è infilato lui stesso con elezioni anticipate improvvisate al solo scopo di contenere l’onda di destra prodotta oltralpe dalle elezioni europee di giugno.

Non ridono, d’altronde, neppure a Washington nella corsa alla Casa Bianca.  Non parliamo poi di Kiev e di Gaza.

Ripreso da http://www.startmag.it

L’irruzione del penultimo Matteo Renzi nella cronaca politica

         Diavolo di un uomo, più botte prende –come la mancata elezione all’Europarlamento- e più Matteo Renzi riesce a rimanere in campo infilandosi nelle prime pagine dei giornali fra Biden e Trump, fra la guerra in Ucraina e quella a Gaza e dintorni, fra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen e sfuggendo persino al blackout informatico che pure ha paralizzato mezzo mondo.

Renzi e Schlein al pallone

         Ora, da quando in una partita di calcio fra politici e cantanti ha passato una palla alla segretaria del Pd Elly Schlein facendole segnare un gol, per quanto annullato per fuori gioco, ma guadagnandosene lo stesso un abbraccio riconoscente e ricambiato, Renzi ha aperto la stagione di un suo possibile ritorno non dico nel Pd, ma almeno nei dintorni. Sistemandosi in quel cosiddetto campo largo che va e viene nelle cronache politiche e creando panico o speranze, secondo i casi.

Dal manifesto

         Il panico è quello avvertito fra i grillini e tradottosi nel titolo, anzi titolino, nella prima pagina del manifesto sul “gelo dei 5 stelle”. Che non hanno dimenticato l’abbraccio di Renzi a Giuseppe Conte nel 2019 per salvarlo dalle elezioni anticipate perseguite da Matteo Salvini, ma ancor più il successivo strattonamento e infine rovesciamento per rimuoverlo da Palazzo Chigi e farlo sostituire con Mario Draghi.

Dalla Notizia

         La Notizia, intesa come giornale, che -diversamente dal Fatto Quotidiano– segue la linea del partito pentastellato senza la pretesa di suggerirla o persino imporla, è andata ben oltre il gelo del manifesto ed ha annunciato con un titolo graficamente sobrio di apertura, sotto un occhiello in rosso che dice “Vade retro”, netto e sicuro: “Conte stronca il piano di Renzi”. Un piano chiamato “centro-sinistra”, col trattino delle prime edizioni dell’analoga formula della seconda metà degli anni Sessanta, quando Aldo Moro realizzò i suoi primi governi a partecipazione socialista con maggioranza “delimitata” a destra e a sinistra, tenendo rigorosamente fuori, rispettivamente, i liberali e i comunisti.

         Che Renzi pensasse o pensi ancora a qualcosa di simile al centro-sinistra col trattino, anche se ormai non esistono più nominalmente né i liberali né i comunisti, si può essere indotti a pensarlo dal riferimento che lo stesso Renzi ha fatto, sempre dopo la partita di calcio con la Schlein, alla Dc “di centro che guarda a sinistra”. Essa fu teorizzata dalla buonanima di Alcide Gasperi quando cominciò ad avvertire il logoramento della politica centrista con i socialisti all’opposizione al pari dei comunisti.

Dal Giornale

         Se il panico di quello che potremmo chiamare il penultimo Renzi, potendosene già prevedere un’altra edizione ancora, è espresso dal manifesto, e un po’ allontanato dalla Notizia, la speranza che l’ex premier stia in fondo lavorando per raggiungere effetti opposti a quelli propostisi o attribuitigli è nel ragionamento e nel titolo dell’editoriale di Alessandro Sallusti sul Giornale: “Renzi a sinistra. Tranello in vista”. Non è proprio una rima, ma poco ci manca.

Tutti i no di Giorgia Meloni nella partita europea

Dal Dubbio

Non so se si debba considerare più sorprendente, esplosivo e quant’alro il no della Meloni a Ursula von der Leyen o ai tanti che in Italia le avevano consigliato di votare, anzi di far votare sì, visto che la premier ha voluto essere eletta al Parlamento europeo avvertendo in anticipo che ne sarebbe rimasta fuori. Consigli formulati pubblicamente alla Meloni, allo scopo di evitare l’isolamento, l’emarginazione, la irrilevanza e altri guai da alleati di governo come i forzisti del vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, da esponenti qualificati dell’opposizione come Enrico Letta, già segretario del Pd, senatori a vita come Mario Monti ed estimatori dichiarati come Pier Silvio Berlusconi ai margini di un evento aziendale finito sulle prime pagine dei giornali per altre valutazioni. Che hanno riguardato, in particolare, tempi e modi non condivisi dell’intestazione dell’aeroporto di Malpensa al padre, con le polemiche ne sono conseguite, il progetto leghista di un aumento delle risorse pubblicitarie alla Rai per ridurne il canone, la mancanza di un leader in cui possano riconoscersi i moderati e la necessità forse conseguente che Forza Italia diventi un partito più agguerrito, “di sfida e non di resistenza”. Parole testuali del capo di Mediaset.

Pier Silvio Berlusconi

         Convinto, ripeto, che ai moderati manchi in Italia un leader evidentemente dopo la morte del padre, Pier Silvio Berlusconi non deve considerare moderata la pur conservatrice -e non fascista, come la dipingono i detrattori- Giorgia Meloni. Della quale tuttavia ha tenuto ad apprezzare la guida del governo, sino a consigliarle amichevolmente- ripeto- di non lasciarsi scappare appoggiare pubblicamente la conferma della presidente della Commissione europea, dopo essersi astenuta sulla sua designazione nei vertici dai quali era partita la designazione. Ma la Meloni non ha voluto ascoltare neppure Berlusconi jr, chissà se a costo di fargli crescere la tentazione, cui il giovane ha finora resistito, di imitare in tutto e per tutto il padre, da cui ha dichiarato di avere ereditato pure “il dna della politica”.

Antonio Tajani

         Più ancora della Meloni, tuttavia, sul versante moderato dovrebbe essere Tajani a temere un cedimento di Pier Silvio Berlusconi alla tentazione della politica perché sarebbe francamente difficile immaginare il figlio del Cavaliere in posizione subordinata rispetto al segretario attuale nel partito fondato dal padre, per quanto eletto il vice presidente del Consiglio sia stato eletto al vertice da un congresso nei mesi scorsi. E’ altrettanto difficile immaginare Pier Silvio Berlusconi scendere in politica fuori dal partito fondato dal genitore, di cui ha accettato di ereditare con gli altri familiari anche i debiti, e non solo il ricordo.

         Senza volere essere in qualche modo blasfemi, visto di chi e di che cosa si tratta, il rapporto tra la famiglia Berlusconi, nella sua articolazione maschile e femminile, e Forza Italia è un po’ quello intercorso a suo tempo fra la Chiesa e la Democrazia Cristiana, fino a quando il partito scudocrociato non decise autonomamente di sciogliersi con un telegramma dell’allora e ultimo segretario. Che fu Mino Martinazzoli, preso in giro per questo anche  da Umberto Bossi, che con la sua Lega ne stava ereditando al Nord una parte consistente di elettorato.

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni d’archivio

         Vedete quante cose, volente o nolente l’interessata, può portarsi appresso il no maturato a sorpresa per molti dalla Meloni alla conferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles, dopo tante occasioni e immagini fotografiche che le hanno viste accomunate con una certa simpatia nei quasi due anni ormai di esperienza della leader della destra alla guida del governo italiano? La politica è un po’ come la matrioska: la bambola russa che ne contiene tante altre di dimensioni minori ma ugualmente attraenti.  

Pubblicato sul Dubbio

Scoppia all’Europarlamento la coppia Meloni-von der Leyen

         Alla fine, dunque, la coppia è scoppiata: quella alla quale ci avevano abituati con incontri, sorrisi e abbracci Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni.

         Già incrinata il mese scorso nei vertici europei seguiti alle elezioni continentali di giugno con l’astensione della Meloni sulla designazione della von der Leyen per la conferma alla presidenza della Commissione di Bruxelles, la coppia -ripeto- è scoppiata col voto negato nel Parlamento europeo dalla delegazione italiana dei conservatori su ordine della premier partito dall’Inghilterra, dove la premier era ieri per impegni internazionali.

Giorgia Meloni

         Il discorso programmatico della von der Leyen pronunciato davanti all’Europarlamento, come l’ultima telefonata intercorsa prima fra le due, non ha convinto la Meloni. Che ha tenuto ad annunciare pubblicamente il suo giudizio negativo, per “metodo e merito”, sulla conferma della presidente della Commissione. E a precisare tuttavia che ciò non comprometterà il raporto fra il governo di Roma e l’organismo esecutivo dell’Unione, dove l’Italia sarà rappresentata al livello che le spetta per le sue dimensioni.

         Parlare a questo punto di maggioranza e di opposizione per collocare, anzi relegare l’Italia nella seconda ha poco senso, o nessuno. Non si è mai visto francamente un governo composto anche dall’opposizione, neppure nelle forme più eccezionali o emergenziali immaginabili.

         Peraltro, lamentare o denunciare il ruolo minoritario, marginale, ininfluente dell’Italia nell’Unione, dopo la votazione parlamentare di conferma della von der Leyen, da parte dell’opposizione italiana al governo è un po’ anacronistico, essendosi questa opposizione comportata a Strasburgo come la maggioranza di centrodestra, cioè dividendosi. Se i forzisti hanno votato a Strasburgo per la presidente della Commissione al pari degli europarlamentari del Pd,  quelli meloniani e leghisti hanno votato contro al pari della sinistra radicale -separatasi dai verdi favorevoli alla von der Leyen- e dei grillini o contiani. Polemizzare in queste condizioni è un po’ come se il bue desse del cornuto all’asino, secondo un vecchio detto popolare.

Titolo della Stampa

         La verità è che il voto dell’Europarlamento a favore del secondo mandato dell’ex ministra tedesca della Difesa più che di fiducia, è stato di avvio. Peraltro con una cinquantina di cosiddetti franchi tiratori, staccatisi a scrutinio segreto dalla maggioranza dichiarata.  Il resto sarà tutto da vedere e da vivere, man mano che la Commissione si formerà, i suoi membri saranno vagliati dall’Europarlamento e le sue decisioni, iniziative e quant’altro passeranno per la valutazione dell’assemblea eletta il mese scorso. Allora la maggioranza e l’opposizione italiane continueranno a dividersi, magari non nello stesso modo, secondo i temi, e a non potersi reciprocamente rimproverare o rinfacciare niente se non nel solito teatrino mediatico. Così è se vi pare, come dice un celebre dramma di Luigi Pirandello. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Il centrodestra scosso a sorpresa da Pier Silvio Berlusconi

Da Repubblica

In otto centimetri quadrati della prima pagina del Giornale, che si può considerare di casa da quelle parti, si trova rappresentata, fra titoli e foto, la scossa sismica subita dal centrodestra italiano nelle ultime 24 ore. E annunciata da Repubblica con questo unico e laconico titolo: “Pier Silvio scuote la destra”. Dove Pier Silvio è naturalmente il figlio più noto ed esposto di Silvio e basta: il fondatore di Foza Italia e del centrodestra ed ex presidente del Consiglio, morto poco più di un anno fa e già intestatario di un aeroporto -quello di Malpensa- per iniziativa del vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini. Di cui il figlio ha tenuto a non condividere pubblicamente i “tempi”, troppo rapidi. Che si sono prestati a polemiche un po’ sgradevoli.

Dalla Stampa

         Ma, più che per la protesta – valorizzata dalla Stampa- contro i tempi, modalità e quant’altro voluti da Salvini per l’intestazione dell’aeroporto di Malpensa allo scomparso ex presidente del Consiglio, il figlio di Berlusconi è finito sulla prima pagina del Giornale per avere sostenuto in un evento, diciamo così, aziendale che “serve una nuova Forza Italia”, essendo i moderati “senza leader”. E dovendosi offrire, garantire e quant’altro ad essi  “un partito di sfida, non di resistenza”. Tutto tra virgolette nella titolazione del quotidiano ancora in parte di famiglia.

Dal Giornale

         Dette da un figlio che sente dichiaratamente di avere ereditato dal padre un certo “dna politico”, queste cose hanno prodotto comprensibile clamore nel centrodestra, ma più in particolare dentro il partito di cui Berlusconi ha lasciato in eredità i debiti alla famiglia, che li ha accettati. Un clamore non placatosi con la “calma” raccomandata dal segretario del partito e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani dopo una telefonata con l’interessato. “Sfiducia? No, è con me”, gli ha fatto dire il Giornale, a proposito dei rapporti con Pier Silvio, in uno dei tre titoli della parte centrale della prima pagina, in quegli otto centimetri quadrati di cui ho scritto all’inizio.

         Il terzo titolo, in verità, riguarda il centrodestra solo di sbieco. E’ dedicato ad una partita di calcio benefica fra parlamentari e cantanti in cui hanno giocato insieme e si sono abbracciati davanti al fotografo l’ex segretario del Pd Matteo Renzi e la segretaria in carica Elly Schlein, riuscita a segnare grazie a lui un gol, per quanto inutile perché in fuori gioco e quindi annullato. E così. grazie anche alla finestra fotografica di una partita al pallone, si allontana ancora di più la prospettiva, possibilità, speranza, sciagura -secondo i gusti- di una convergenza di Renzi a destra per irrobustirne la componente di centro. Al recente voto parlamentare dei renziani a favore della legge Nordio sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio e altro non va dunque dato il significato di chissà quale anticipo di chissà quale altra operazione. Il cuore di Renzi sembra essere tornato a battere a sinistra, complice anche il calcio.  

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