I novanta minuti e più di Giorgia Meloni in Cina con Xi Jinping

Gianni Cuperlo

         Quei novanta minuti e più di incontro con Xi Jinping a Pechinoa meno che non si voglia considerare anche il presidente della Cina un rimbambito, come è stato liquidato quello uscente degli Stati Uniti d’America non solo dal “nostro” Marco Travaglio, ma anche da amici del partito democratico prodigatisi per impedirgli di ricandidarsi- sono la smentita più evidente della rappresentazione che di Giorgia Meloni fanno i suoi avversari in Italia. Di una premier cioè “isolatasi” in Europa e sul punto di cadere col suo governo e con la sua maggioranza. Una caduta così precipitosamente prevista o annunciata da Massimo Cacciari, per esempio, che pure il suo amico Gianni Cuperlo, in onda ieri sera su la 7, si è sentito in dovere di smentirlo e di richiamarlo ad una realtà ben diversa, per quanto non manchino neppure per lui problemi alla coalizione di centrodestra. Come d’altronde non ne  mancano al campo fotografico, e intermittente nelle piazze, di un’alternativa di centrosinistra estesa sino a Matteo Renzi, o alla sua penultima edizione.

Dalla Repubblica

         Dedicare più di novanta minuti ad un’ospite, con tutto quello che il presidente cinese ha da fare nel suo enorme Paese, per consentirne “il bluff”, come l’ha definito nel suo titolo di prima pagina la Repubblica di carta, o una esibizione “da equilibrista”, come ha titolato Il Foglio, non mi pare francamente da Xi Jinping. A meno- ripeto- che non si scambi pure lui per un rimbambito. Che magari ha scambiata davvero Meloni, come l’ha rappresentata in Italia il quotidiano pentastellato ufficiale La Notizia, per una edizione maschile di Marco Polo avventuratasi in Oriente.

Dal Foglio

         Tranquilli, il governo italiano è regolarmente in carica. Il presidente della Repubblica ha preso tanta pioggia a Parigi, assistendo alla fantasmagorica manifestazione di apertura delle Olimpiadi, ma è tornato a Roma in buona salute. E non ha nella sua agenda alcuno scioglimento anticipato delle Camere. Le opposizioni, pur essendo riuscite a inserire anche la Liguria nel pacchetto elettorale d’autunno a livello regionale, hanno ancora molto da lavorare, costruire, demolire e poi cercare di ricostruire per diventare l’alternativa che Pier Luigi Bersani pettina come una bambola quando riesce a distrarsi dallo spettacolo della mucca penetrata e vagante nella sede del Pd, al Nazareno.  

Ripreso da http://www.startmag.it 

Quel processo alla politica nelle piazze contestato da Aldo Moro

Dal Dubbio

Più degli scritti di Aldo Moro dalla prigione “del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le brigate rosse prima di ucciderlo – missive evocate da Domenico Giordano sul Riformista- la lettera di Giovanni Toti dai suoi arresti domiciliari e, più in generale, la vicenda giudiziaria che gli è già costata senza un processo la carica di presidente della Regione Liguria, e a quest’ultima l’amministrazione liberamente eletta dai cittadini, mi ha ricordato il discorso pronunciato da Moro a Montecitorio, a Camere riunite congiuntamente, il 9 marzo 1977 per il caso Lookheed.  Quello degli aerei di trasporto militare venduti dall’omonima società americana all’Italia con tangenti che sarebbero poi costate la condanna dell’ex ministro della Difesa Mario Tanassi da parte della Corte Costituzionale. Che era allora competente, su stato d’accusa del Parlamento, a giudicare reati ministeriali, e non solo -come adesso- il presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione.  

Mimmo Pinto

         In quel discorso l’allora presidente della Dc, difendendo non solo il suo  amico e collega di partito Luigi Gui, uscitone indenne, ma anche Mario Tanassi, in quanto “alleato”, come tenne a precisare, protestò contro il lottacontinuista Mimmo Pinto, eletto nelle liste di Democazia proletaria.  Che era intervenuto prima di lui nella discussione avvertendo quanti avevano avuto la disavventura di governare che sarebbero potuti anche scampare ai tribunali ma non alle piazze. Esse sarebbero state con loro severissime. “Noi non ci faremo processare in piazza”, gli rispose Moro affidandosi al “potere penetrante dei giudici”: quelli dello Stato di diritto e della Costituzione.

Aldo Moro

         Già ministro della Pubblica Istruzione, della Giustizia, degli Esteri, cinque volte presidente del Consiglio, per non parlare dei cinque anni trascorsi alla guida della Dc come segretario e dell’esperienza di professore universitario, fra l’altro, di filosofia del diritto, il povero Moro era destinato a morire dopo più di un anno, condannato da un fantomatico tribunale del popolo, oltre che dalla debolezza, a dir poco, dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. E solo grazie a quella terribile fine personale si risparmiò lo spettacolo successivo non solo della sua Dc e dei suoi alleati ma della politica, in genere, processata sulle piazze. Ma processata, paradossalmente, a sostegno di procedimenti avviati da una magistratura per niente imbarazzata di un aiuto così scandaloso e di per sè eversivo.

Elly Schlein in piazza a Genova contro Toti

         Che cosa è stata se non un processo in piazza quella manifestazione svoltasi a Genova per reclamare le dimissioni di Giovanni Toti da presidente della Regione Liguria che non erano ancora riusciti a strappargli magistrati d’accusa e giudici trattenendolo agli arresti domiciliari con ordinanze che neppure un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, già pubblico ministero, è riuscito a capire, e tanto meno a condividere. Una piazza, quella di Genova, che ha voluto anticipare, fra l’altro, quel campo largo o addirittura larghissimo dell’alternativa al governo attuale in cui – al pari di Davide Varì- non mi capacito come potrà mai riconoscersi, con quale e quanta disinvoltura, un garantista dichiarato come Matteo Renzi. Una disinvoltura, la sua, pari appunto a quella che addebito a magistrati che si lasciano silenziosamente sostenere dalle piazze nell’esercizio delle loro funzioni “penetranti”, come le definiva -ripeto- il povero Moro.

Francesco Saverio Borrelli e i suoi sostituti in Galleria a Milano

         Nella mia non breve esperienza professionale di giornalista ho visto e sentito solo un magistrato dichiaratamente preoccupato, se non addirittura angosciato, degli applausi che raccoglieva in piazza con i suoi collaboratori. Fu -gliene va riconosciuto il merito, pur non avendo personalmente condiviso gran parte delle sue scelte- il capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli agli inizi di quella falsa epopea chiamata nel 1992 “Mani pulite”. L’epopea che sconvolse in modo irreparabile i rapporti fra politica e giustizia voluti dai padri costituenti, che si staranno rivoltando nelle loro tombe, o urne cinerarie, a vedere a che cosa quei rapporti siano stati ridotti.

Dalla lettera di dimissioni di Toti

         Cadrà purtroppo nel vuoto anche il sobrio auspicio  espresso da Toti nella sua lettera da detenuto ai domiciliari, in quasi rigoroso stampatello, dimettendosi irrevocabilmente davanti alla piazza plaudente, che si traccino finalmente “regole chiare e giuste per la convivenza tra giustizia e politica all’interno del nostro sistema democratico”. Il debito al giustizialismo non sarò mai pagato del tutto, e da nessuno.

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑