
A distanza di 7211 chilometri, quanti dividono Washington da Roma, il presidente Joe Biden getta finalmente la spugna annunciando la rinuncia al tentativo di una conferma alla Casa Bianca, cercando di spianare la strada alla sua vice di colore Kamala Harris, e la premier Giorgia Meloni rinuncia al ruolo passivo svolto sinora di fronte ai due vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine rigorosamente alfabetico, che se le dicono e se le danno di tutti i colori. L’uno è fiero del no che si vanta di avere sostanzialmente strappato alla Meloni alla conferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, l’altro è fiero di capeggiare il partito della maggioranza che invece al Parlamento europeo ha votato per il bis. L’uno è fiero della sua contrapposizione alle sinistre e l’altro della incidenza nello schieramento che è prevalso a Strasburgo, contrapposto alla “irrilevanza” dei suoi alleati in Italia. Una cosa che al solo raccontarla lascia basiti alla luce soprattutto del silenzio a lungo opposto a entrambi dalla premier.

Ora, pur basandosi solo su voci o, al massimo, su una dichiarazione del capogruppo meloniano al Senato Antonio Fraschella, Corriere della Sera e Repubblica hanno annunciato, rispettivamente, un “basta alle liti” e “una minaccia di verifica del governo”. Che era una vecchia pratica della cosiddetta prima Repubblica, spesso preludio più ad una crisi che ad un chiarimento, o ad un chiarimento solo temporaneo, in attesa di un nuovo caso su cui aprire un’altra verifica ancora.

Sulla Stampa la premier si è guadagnata -a torto o a ragione poco importa perché si sa che in politica ciò che conta è ciò che appare più di ciò che è- l’immagine di una leader “imprigionata tra Tajani e Salvini”, in ordine stavolta non alfabetico. Eppure solo qualche settimana fa, in un’aula parlamentare, esattamente a Montecitorio, dopo che era riuscita a strappare gli applausi di tutta l’assemblea alla denuncia dello “schifoso” trattamento riservato ad un lavoratore indiano sfruttato, e morto, nelle campagne italiane, la Meloni aveva strapazzato i due vice che si ostinavano a rimanere seduti indifferenti accanto a lei, “Regà, levatevi in piedi”, aveva detto a entrambi abbastanza ad alta voce per essere sentita da tutti.

Qui, per stare al linguaggio della premier sulla “stabilità” del suo governo. o alla capacità assicurata a voce ogni volta che può dal vice Salvini che esso durerà comunque sino al 2027, esaurimento ordinario della legislatura, il problema non è di vedere se il percorso sarà davvero compiuto. Il problema è di vedere come il governo arriverà al suo epilogo. E vi arriveranno i suoi avversari per ora messi peggio della Meloni. Un problema, francamente non da poco, espresso dal Foglio in un titolo che lamenta “ipocrisie e doppiezze della politica italiana” e “il piede della Meloni in due staffe”.